La ballata Miorița (L’agnellina). Una proposta di traduzione

Dopo Călin (pagine di racconto) di Mihai Eminescu tradotto da Giada Chetti e pubblicato sul numero di aprile 2025 della nostra rivista, proponiamo la traduzione della celebre ballata Miorița (L’agnellina), nella ‘canonica’ elaborazione letteraria lasciataci da Vasile Alecsandri, accompagnata da altri due testi folclorici, curata da Pietro Buoso, studente di Lettere dell’Università di Torino, il tutto restituito in italiano con acume ed estro poetico ricorrendo a una struttura metrica in versi e in rima baciata.

Tradurre la Mioriţa

Innanzitutto, perché? Paradossalmente, il mio primo reale confronto con uno dei testi più classici della tradizione romena è avvenuto tramite la mediazione di un brano assolutamente pop, nello specifico la canzone De vrei să știi ce înseamnă Român (Se vuoi sapere cosa significa Romeno), più specificamente nell’esecuzione di Dan Spătaru del 1986 di cui una registrazione è presente su YouTube.
Dal momento che chi scrive non ha origini familiari in Romania né era allora formalmente uno studente di lingua e letteratura romena, il riferimento alla ballata mi suonò quanto meno oscuro, ma il suo alludervi come a un testo fondativo dell’identità romena s’impresse a fondo nel mio immaginario.
Lessi per la prima volta la ballata nell’opera Le Nozze del Sole, Canti Vecchi e Colinde Romene, a cura di Cepraga D. O., Renzo L., Sprandio R., pubblicata dal Carocci Editore nel 2017, che presentano la Mioriţa nella versione registrata da Vasile Alecsandri (1821-1890) sulla rivista Bucovina.
Non avevo allora a mia disposizione che un numero estremamente esiguo di traduzioni in Italiano della ballata, la maggior parte delle quali avevano sacrificato il ritmo e la musicalità del testo originale a esigenze di corretta trasposizione del significato dei versi. Lungi dall’essere critico verso questa scelta, necessaria in ambito di studi, cominciai a nutrire l’ambizione di provare a vedere se ero in grado di restituire al lettore italiano gli effetti musicali della ballata, a costo se necessario di sacrificarvi una rigida correttezza di trasposizione. L’ambizione affondava le sue radici anche nei miei studi classici, prima al liceo e poi all’università, che mi avevano fornito delle basi di metrica e di linguaggio poetico, ambito nel quale già da tempo conducevo esperimenti creativi del tutto dilettantistici.
Venendo invece alle ragioni del cuore, dal momento che io nutrivo già da tempo una grande passione per la cultura e per la lingua romena, l’idea di applicarmi a questa piccola impresa era per me un modo di esprimere e rendere tangibile il mio amore per la Romania stessa; o, per lasciarmi andare a un linguaggio meno accademico ma più proprio della mia personalità, questa traduzione voleva essere un grido d’amore per la lingua e la cultura romena che speravo, e spero, raggiungano chiunque la legga.

Gli obiettivi di questa traduzione

Come ho già detto, io non ero al tempo di questa traduzione uno studente di romeno, e ovviamente non ero e non sono né un professore né un esperto in questa materia. Ne consegue naturalmente che non mi aspetto minimamente che la mia traduzione possa servire allo studio o essere la base di riflessioni esegetiche sulla ballata stessa. Nutrire questa ambizione sarebbe quantomeno pericoloso: la scelta di privilegiare la musicalità al significato ha infatti reso necessarie delle licenze poetiche sul testo, che lo rendono a mio parere assolutamente inadatto a essere il solo approccio alla Mioriţa da parte di una persona interessata a studiare questa ballata.
Va inoltre fatto rilevare, per scrupolo, che la mia conoscenza della lingua romena all’epoca non era all’altezza di penetrare un testo così arcaico e complesso, e che per tanto sono stati di grande aiuto per me i lavori di traduzione condotti da altri autori quali Lorenzo Renzi e Luigi Salvini, che sono stati per me una stella polare che mi evitasse di fraintendere completamente alcune espressioni. Inutile dire che sono ricorso al dizionario quasi per ogni parola, e il DEX in questo si è rivelato di straordinario aiuto, ospitando fra le sue definizioni anche le accezioni più arcaiche, poetiche e rare dei termini.
Per tornare dunque agli obiettivi della traduzione, potrei dire che esso è solamente uno: provare a dare al lettore in lingua italiana la stessa esperienza musicale del lettore romeno che può approcciare il testo nella sua lingua originale, preservando il più possibile anche il significato della ballata e salvando a ogni costo almeno le espressioni sentite come più significative, e in quest’ultimo aspetto anche la mia personale sensibilità ha giocato un ruolo rilevante, dando un tocco soggettivo a determinate scelte.

Le scelte metriche

Fin dall’inizio fu per me ovvio che i versi del testo di arrivo sarebbero dovuti essere brevi, più simili in lunghezza a quelli originali quanto fosse possibile. Decisi di appoggiarmi su un tipo di piede metrico con cui avevo già una certa dimestichezza, composto da tre unità metriche (o more), la terza delle quali ospitante in ictus (un accento tonico). Nel corso della traduzione avrei formato versi composti da due piedi costruiti in questo modo, avendo dunque un ictus di terza e uno di sesta mora. Nel corso del lavoro, tuttavia, è capitato occasionalmente che la mia precisione si allentasse e qualche volta l’accento di terza manca, ma il ritmo è tuttavia conservato grazie al maggior rigore quanto all’ictus di sesta.
Per quanto riguarda la rima, avrei tentato di proporre delle rime baciate, a due a due, e anche mantenendo la stessa rima per più di due versi quado il testo originale si comporta in modo analogo.
Sulla rima sono riuscito a essere abbastanza preciso, malgrado anche grazie a un mio collega di università sia stato in grado di riscontrare a lavoro finito almeno un paio di rime solo apparenti, e dunque formalmente non corrette, ma ai miei occhi queste imprecisioni non pregiudicavano il buon esito complessivo del lavoro condotto.

Ma quindi del significato originale cosa si salva?

Per evitare che certe mie precisazioni vengano eccessivamente drammatizzate, tengo a specificare che ovviamente il significato dei versi non è stato affatto sacrificato alla leggera, quando questo è stato necessario, e anche quando mi sono discostato da esso ho tentato sempre di farlo in modo che non pregiudicasse il senso complessivo del testo originale.
Un esempio di licenza poetica che mi sono preso è presente nei primi due versi

Pei pendii senza gelo,
pe’ una bocca di Cielo,

mentre il secondo verso è tradotto pressocché letteralmente, il primo ospita un elemento del tutto estraneo al testo originale: la specificazione che i pendii sono “senza gelo”. Questo elemento spurio è stato introdotto unicamente per fare rima con Cielo al verso successivo, mentre il testo originale si limita a leggere (grossolanamente tradotto) Ai piedi di un pascolo.
Come dimostra il secondo dei versi presi in esame, licenze poetiche di questo tipo sono ricorse ma non sono la norma, e ovunque fosse possibile ho cercato di rimanere saldamente aggrappato al significato originale, e anche dove queste libertà mi sono sembrate necessarie ho controllato di non contraddire quantomeno il senso originale.
Un elemento che ho voluto salvare a tutti i costi è stato l’Apus de soare (il calar del sole), presente al verso 14 nella mia traduzione. La ragione di questo mio attaccamento a questa espressione, che è stata resa quanto più letterale mi fosse possibile, è che avevo consultato le riflessioni di Ioan Gutia pubblicate in Studi di Lingua e Letteratura Romena da Bulzoni Editore (1992), che sottolineano come questo elemento crepuscolare sia l’unica indicazione spazio-temporale precisa presente nella ballata.

La lingua utilizzata

Per quanto riguarda il linguaggio che ho utilizzato, è inutile dire che qualche azzardo da parte mia c’è stato. Forse il più significativo è l’aggettivo moldaviano presente al verso 16, è che naturalmente è scorretto in italiano. L’aggettivo corretto in lingua italiana per indicare gli abitanti della Moldavia è infatti moldavo, e chiunque ha dimestichezza con la cultura romena provenendo da ambienti italofoni potrebbe sentire questo moldaviano come un vero e proprio pugno nell’occhio. Intendiamoci, includo fra questi anche me stesso. In questo contesto moldaviano è naturalmente un calco sulla lingua romena, prodotto per salvare la rima e l’assonanza con gli altri aggettivi con cui il testo originale lo fa rimare.
Ardito è stato anche il decidere di includere spudoratamente degli arcaismi linguistici, scelta che ovviamente è sempre rischiosa, ma che sentivo almeno parzialmente giustificata dal carattere arcaico del testo che andavo a tradurre, arcaico anche agli occhi dei suoi lettori in lingua originale, e resa spesso necessaria dalle esigenze metriche di cui sopra discutevo.
Elementi di linguaggio arcaico/poetico sono gli imperfetti in ea invece che in eva (avea in luogo dell’attuale aveva) ed elementi lessicali quali doglia per dolore o augelli al posto di uccelli.

Per trarre una conclusione

È inutile dire che in me c’è quanto meno la speranza di essere riuscito nel mio intento, altrimenti non starei presentando questa traduzione a un pubblico sempre più ampio e composto anche da persone infinitamente più competenti di me in materia. Sono stato e resto entusiasticamente aperto anche alla più demolitiva delle critiche negative, perché tutto ciò che ho tentato di esaltare in questo mio lavoro è la cultura romena, non la mia persona o le mie capacità, e se la più dura delle critiche può portare a un miglioramento che serva meglio questo scopo sarà ben accetta.
Detto questo, personalmente nutro una personale soddisfazione per i versi in cui il pastorello detta il proprio testamento, che sono comunque una sezione significativa della ballata, e che penso di essere riuscito a restituire bene sia nella musicalità che nel significato, e con cui avevo e ho non poco coinvolgimento personale, essendo da sempre sensibile a quello spirito romantico che questi versi da sempre celebrò e forse anche sovrainterpretò.

Pietro Buoso

 

L’Agnellina

Pei pendii senza gelo,
pe’ una bocca di Cielo,
ecco sulla via avanzano,
verso valle discendono
or tre greggi d’agnelli
coi lor tre pastorelli.
Ed uno è moldaviano,
uno poi transilvano
e uno ancora vranceano.
Ora quel’ transilvano
co’ anche quello vranceano
han fra lor bisbigliato,
l’un l’altro han consigliato,
che del sole al calare
lo si debba ammazzare
il pastor moldaviano,
il più valido al piano
e il più ricco di agnelli,
con le corna, alti e belli,
dai cavalli addestrati
e dai cani temprati.
Ma, deh, quell’agnellina,
dalla lana grigina,
da tre dì senza pace
la sua bocca non tace
né più l’erba le piace.
- “Agnellina mia nera,
agnellina alba-nera,
da tre dì senza pace,
la tua bocca non tace;
non più l’erba ti piace
o sei forse malata,
agnellina mia amata?”
“Mïo amato padrone,
vieni via dal solleone,
verso il bosco andar puoi
scuro, ove è erba per noi
e ombra fresca per voi.
E padrone, padrone,
chiama a te anche un cagnone
e sia il più coraggioso
e sia il più generoso,
ché del sole al calare
che tu sia d’ammazzare
disser’ quel’ transilvano
e il pastore vranceano!”.
- “Agnellina arruffata,
se dal Cielo toccata
sei, ed io ho da morire,
sotto il pabbio a dormire
di il mio cor seppellire
ai pastori va a dire,
transilvano e vranceano
non m’interrin lontano;
nella stalla da noi
ch’io sia sempre con voi,
nell’ovile, mi vegliano
i miei canti e mi sentano.
Loro ciò manifesta
e poi mettimi in testa
un bel flauto di faggio
che d’amor dia messaggio,
un bel flauto poi di ossa
che parlar dolce ei possa,
col sambuco il terzo
che di fuoco sia sferzo.
Ed il vento, soffiando,
suonerà ivi passando
e le agnelle che piangono
è per me che allor piangono
ed è sangue le lacrimano.
Ma il delitto che sai
loro mai lo dirai.
Ma dirai senza doglie
ch’io ho preso per moglie
la regina formosa
che del mondo è la sposa;
mentre il rito si ave’a
che una stella cade’a,
e che mi han coronato
luna e sole dorato.
Abeti e aceri amati
miei invitati son stati;
gli alti monti a officiare
e agli augelli a cantare
a migliaia, e candele
eran stelle di miele.
Se mai poi tu scorgessi,
se mai un dì conoscessi
la mammina mia anziana
con cintura di lana
che con gli occhi piangendo
per i campi correndo
va da tutti chiedendo
ed a tutti dicendo:
“Chi l’ha mai conosciuto,
orsù chi l’ha veduto
quel sì bel pastorello
snello come un anello?
Le guanciotte sue fatte
Con la spuma del latte,
i baffetti suoi prati
come grano dorati,
il suo tenero crine
come penne corvine,
i suoi occhietti d’amore
come campi di more?”
Tu, mia agnella, conforta
lei del peso che porta:
le dirai senza doglie
che ho preso per moglie
la fanciulla che anelo
pe’ una bocca di Cielo.
Ma, deh, a quella mammina
non far cenno, piccina,
mentre il rito si ave’a
che una stella cade’a,
che invitati son stati
abeti e aceri amati,
gli alti monti a officiare
e egli augelli a cantare:
a migliaia, e candele
eran stelle di miele.

 

Il Pastorello

- “Foglia verde in tre fiori,
pastorello là fuori,
ove morte tu muori?”
- “Lassù in cima alla vetta
ove il vento bacchetta
né gli abeti rispetta”.
- “E che morte hai patito?”
- “Fui da un lampo colpito”
- “E chi mai ti ha compianto?”
- “Gli uccellini col canto
è per me che hanno pianto”.
- “E chi mai ti ha lavato?”
- “Quelle piogge che ho amato
è me che hanno lavato”.
- “E chi mai ti ha fasciato?”
- “La mia luna ho chiamato
e lei me ha poi fasciato”.
- “Chi ti ha acceso il lumino?”
- “Il sole alto al mattino.”
- “Chi ha interrarti son stati?”
- “Tre alti abeti cascati
a interrarmi son stati”.
- “Dove hai messo lo zufolo?”
- “Là, fra i rami sul pascolo:
quando il vento verrà
quello allor suonerà,
e le pecore andranno
e lor me cercheranno”.

 

La Colinda dei Pecorai

Là ove il monte risale,
Ed è il dì di Natale
ci son ben tre pastori.
Son cugini i maggiori,
è straniero il minore,
e gli muovono il cuore
ché raduni il suo gregge.
Mentre il gregge lui regge
gli fan quei dura legge:
col moschetto sparargli
o in cuore brando ficcargli.
Le parole trovate:
“O fratelli ascoltate”
disse, “a me non sparate,
ma il mio capo tagliate
e il mio corpo interrate
dalle mie pecorelle
ove giocan le agnelle.
Non mettetemi ghiaia,
solo grano dell’aia,
ed il mio zufoletto
sia qui accanto al mio letto.
Quando il vento verrà
questi allor suonerà,
quando il vento è leggero
come ad uno straniero,
quando il vento va adagio,
come fossi un randagio;
avrò agnelle cornute
per me al monte mai mute,
le mie agnelle poi chiare
per me a valle a cantare,
le mie agnelle, le grigie,
per me a piangere bige.


A cura e traduzione di Pietro Buoso
(n. 6, giugno 2025, anno XV)