In anteprima, un florilegio poetico di Dinu Flamand

Dinu Flamand, poeta, traduttore, saggista, critico letterario, giornalista e commentatore politico romeno, è una personalità che la nostra rivista ha già presentato varie volte, specie nell’ipostasi di traduttore dalla poesia italiana e di grande amico dell’Italia, ma anche di poeta tradotto e pubblicato in italiano, come in varie altre lingue, e pluripremiato per la sua creazione. A Dinu Flamand la cultura romena deve, oltre alla propria e ampia creazione, una serie di traduzioni che hanno avvicinato il pubblico romeno alla grande poesia italiana dell’ultimo secolo. Un solo esempio: la bella antologia della poesia di Umberto Saba tradotta in romeno, apparsa qualche anno fa nella prestigiosa collana bilingue Biblioteca Italiana della casa editrice Humanitas di Bucarest. In questi giorni Flamand sta traducendo e preparando altre due antologie di due grandi poeti italiani del Novecento, Mario Luzi e Leonardo Sinisgalli, che presenteremo al momento dovuto ai nostri lettori. Contemporaneamente alla sua continua e ingente attività di traduzione, Dinu Flamand sta tuttavia preparando per l’Italia un nuovo florilegio delle sue poesie, dopo i due precedenti, La luce delle pietre (2009), antologia della sua lirica scritta fra il 1998 e il 2009, a cura di Giovanni Magliocco, per la casa editrice Palomar di Bari, e Ombre e falesie (2018), con poesie degli ultimi anni, tradotte da chi scrive, apparsa presso la casa editrice Raffaelli di Rimini. Dal volume in preparazione non mancheranno, naturalmente, le poesie più recenti, improntate alle sue esperienze esistenziali e poetiche di questi ultimi tempi: i viaggi in vari paesi del mondo, che gli ispirano poesie che recano l’impronta della sua capacità di assorbire lo spirito del luogo, di imbeverlo dei suoi ricordi e sentimenti transilvani, dell’assenza della madre, e di fonderci le proprie angosce e le proprie incertezze. Offriamo qui, in anticipo, ai nostri lettori la versione italiana di alcune delle poesie caratteristiche per questa sua recente tappa creativa.

Smaranda Bratu Elian


Pietre e radici

Io menavo il cavallo di sinistra per la ciappa
mentre tu premevi a tutta forza i manichi dell’aratro
e rivoltavi le zolle
c’era e non c’era vento, c’era e non c’era la luce che piaceva a me,
c’era e non c’era il luogo risaputo dove in Transilvania
seminavamo, col freddo e con la neve, anno dopo anno.

Mi palpitava dentro la sorpresa che anticipavo
quando in fondo alla zolla nel limpido cielo scorgevo
nella valle il nostro villaggio e da qualche parte il nostro camino;
la sera non era lontana, un focolare caldo ci stava aspettando

Laggiù. Tu strappavi dalla terra pietre e radici
come se una foresta selvaggia stesse per
irrompere nel nostro campo dalle profondità
di una strana ira nascosta nella terra.

Maledicevi fra te la sorte che obbliga l’uomo
a rivoltare anno dopo anno pietre e radici
a sudare sangue tagliando fette di terra
e radici d’alberi che da tempo non c’erano più.

Ma tu c’eri, e questo per me era cosa naturale,
sentivo i tuoi passi grevi calpestare la terra
e sentivo il vomere stridere contro le pietre
anche quando io di spalle non potevo vederti.

Ma ecco che in fondo alla zolla non c’era
né il campanile del villaggio né il fumo del nostro camino
né la valle conosciuta...

Mi trovavo all’improvviso sulla falesia, a Cefalù,
e il disteso immenso mare era venuto ad accogliermi
come visto dai promontori della Sicilia.

Bastardo della tua memoria, ti avevo spostato là
insieme al tuo aratro, ai tuoi cavalli, al tuo passo greve
solo perché io non so più fermarmi da nessuna parte e sradicato
sposto te per spostarmi insieme a te...

(Sicilia, agosto 2017)




Le catacombe dei cappuccini

Invece delle parole che si affrettano
a elemosinare un po’ di pietà
e di comprensione
il discorso degli stracci scoloriti
incollati alle ossa
esprime la perfetta inutilità –

La storia ha insecchito
i teschi duri come pietre
e noi – turisti del futile
stiamo per soffocare
nel vomito del nostro stupore.

Il tempo ci spinge a ceffoni
negli specchi della polvere dove
un’indomita enormità
è la verità stessa.

La morte ha installato
nelle cavità di queste orbite
la fungaia delle sue mute vocali.

Solo uscendo sotto il cielo palermitano
l’aria visita i nostri polmoni
e per la prima volta ci rendiamo conto
che i pini indifferenti
riescono – solo essi sanno come – a nascondere
sotto la scorza intensamente verde
le ossa snelle.

Alcuni uccelli sopra il mare continuano a complicare
Ancor di più
La calligrafia dei nostri destini.

(Palermo, agosto 2017)




Di nuovo disattento

... neppure ho osservato quando ha messo foglie
il più brutto albero che sta davanti alla mia finestra,
lui, che sembra essere in diretto contatto con Dio
o con la Centrale di quel mistero che fa inverdire
il verde, fa fiorire i fiori, fa crescere l’erba
e scorrere le acque a monte, se così gli piace;

io continuando a presumere che non sono presente
là dove si decide la mia stessa vita,
quasi un assente-presente, come il rotolio
di una pietra che corre a valle
solo perché al Grande Algoritmo capitò
quella strada...

Io
tentando di salvare questa ipocrisia
di cui quasi nessuno sa niente
mentre avviene la stessa vita della mia vita...




Sogno messicano

Sotto la luce del rovente meriggio le tenebre della notte
annunciano già i neri contorni delle spine dei cactus
sicché l’armistizio del tramonto rimane illusione.

Da sotto il giorno la notte schizza all’improvviso col freddo
dei deserti sparsi nei paraggi dei vulcani
mentre l’aria diventa pasta di mais impastata coi palmi.

Piramidali donne sedute sull’asfalto si affaccendano roteando
intorno a se stesse in questa posizione di minitempli
in cima ai quali il sole ha stillato i suoi raggi per tutta la giornata,

così al calar della notte questa luce raccolta nei loro corpi
si diffonde per le pieghe della carne e diventa obesità
del tempo gemella dell’ombra e della stanchezza umana.

Eccole che preparano con infinite braccia tortillas e tacos
e nel frattempo vendono teschi di argilla giocattoli
maschere ocarine sombreros o pennacchi variopinti.

Una di loro con le gonne spiegate nella mia mente
capitombola e nel mio sonno agitato diventa
una miracolosa adolescente dal profilo aquilino di principessa maya;

mi sveglio poi mi riaddormento con la mano discretamente poggiata
sul monticolo del suo pube di quarzo che mi acquieta
perché è il sesso della mia solitudine.

(Ciudad de Mexico, 15 novembre 2017)




Iam prope lux aderat...

L’ultima volta ci siamo incontrati nel millennio scorso
quasi a due mila anni dal tuo esilio,
ti scorsi confusamente nella mia propria confusione
qui, in Scizia Minor, in capo al mondo...

Era prima della mia partenza nel mio esilio
verso un’altra Tomis, io il barbaro,
e là capire che nelle tue ossa il freddo sostanziale
non era della tramontana ma della vita.

Qui ti hanno dato una piazza e una statua e ci hanno scritto Ovidio
ti guardo dal basso in alto esattamente sotto il tuo mento;
il cielo di questo dicembre è limpido
e l’aria piuttosto calda
sicuro che il riscaldamento globale ci sta raggiungendo.

Ormai neanche tu sentiresti il freddo della Dobrugia
eccetto il freddo insidioso dei giorni
quando ci svegliamo inondati da un’oscurità dubitativa – segno
che continuiamo a non sapere né perché né come né cosa stiamo facendo quaggiù. 

Rassomigli piuttosto a un mercante di bestiame preoccupato
che le sue navi e i suoi affari possano sprofondare
nel nero mare che rimesta solo guai
e che nella distanza distanza mette fra noi e noi.

Pensavo a te mentre tornavo qui
si direbbe che io il rimpatriato fossi più fortunato di te;
non so se mi permetteresti di dirtelo ma te lo dico:
non hai perso nulla, non esiste ritorno.

Sulla stessa pianura nera schiere di case basse
scompaiono dietro l’orizzonte sprofondate nel fango fino alle finestre;
e oggi pure vi tremolano dentro vaghe luci, dunque vi respirano
vite umane che aspettano soltanto che passi la vita.

Forse tu, latino, saresti stato più fortunato, ma qui
niente cambia, l’infelicità mette radici
con la vitalità dei cardi nella fertile pianura danubiana
e l’inettitudine fumiga mogia persino con la pioggia.

L’uomo è altrettanto insignificante per i nuovi patrizi
della patria ritrovata, alcuni più rozzi e più luridi
di quelli della tua Suburra e della Cloaca. E a me
paiono  eterni – ché mi precedono e mi sopravviveranno.

Non puoi immaginare quello che è venuto dopo di te
e dopo l’invenzione dell’Apocalisse esultante...
Quindi non ti muovere dall’eternità, rivolto
come sei verso l’eroica Età dell’oro!

Iam prope lux aderat, qua me discedere Caesar...
Salta la tua tristezza scandita dalle acque del mare
e ti precedono i delfini delle luci non-spente
dell’unica patria – della lingua rimanente.

                                                              (Constanța, 11 dicembre 2017)




Dinu Flamand
Traduzione di Smaranda Bratu Elian
(novembre 2018, anno VIII)