«L’esercizio della filosofia» di Lucio Saviani

Lucio Saviani ha pubblicato la sua ultima fatica, L’esercizio della filosofia. Per una vitale incertezza (Moretti&Vitali, 2021. pp. 168), con un poemetto di Pasquale Panella intitolato Orfeo, un cantante.
L'autore ha perfettamente ragione nel dire che l’esercizio della filosofia è come tale destinato a una vitale incertezza, a trovarsi sempre al limite, costretto a scavalcare precedenti sicurezze. Si tratta appunto di un esercizio, cioè del quotidiano avere a che fare con un mondo problematico rispetto al quale ci s’interroga, si azzardano soluzioni destinate a entrare nel dialogo sempre ripreso con altri interpreti, altre culture, altre prospettive di vita. Ma il mondo moderno è questo, la sua complessità si fa difficilmente riassumere in una narrazione totalizzante e compiuta e, di conseguenza, abbiamo imparato a diffidare dei grandi sistemi; abbiamo piuttosto cercato di connettere la filosofia al mondo della vita, perché è da esso che nascono sempre nuove istanze che rendono quindi attuale e praticabile l’incertezza.

A questa vitale istanza abbiamo in passato contrapposto un mondo della scienza che, nella tradizione durata fino alla fine dell’800, ci presentava invece una realtà oggettiva ben salda nella mente del ricercatore, abituato a operare seguendo il metodo sperimentale, convinto fra l’altro che quello che si era scoperto negli ultimi decenni di quel secolo, l’elettromagnetismo, l’esistenza dell’atomo immaginato come un minuscolo sistema solare, fosse l’ultimo confine del sapere e che dopo non ci fosse nient’altro da scoprire. Si espresse in questo senso Rutheford che, del resto, aveva al suo attivo la scoperta della struttura dell’atomo, con un nucleo solido e delle orbite sulle quali ruotano elettroni. In realtà il ’900 rappresentò invece, con la scoperta dei quanti proprio a inizio secolo e dal 1905 con la Relatività speciale seguita nel 1916 dalla Relatività generale, la svolta della fisica in una nuova direzione, che metteva in crisi le impostazioni precedenti. In effetti, se prendiamo come base la filosofia kantiana, traduzione in termini raffinatamente concettuali della fisica di Newton, scopriamo che i capisaldi di quella visione della natura non erano più sostenibili. Non la concezione trascendentale dello spazio e del tempo concepiti come intuizioni pure a-priori, non la distinzione tra quantità continue e quantità discrete, poiché ciò che sembrava continuo, per esempio la luce come fenomeno ondulatorio, si rivelò poi, in diverse condizioni osservative, anche come una trasmissione di energia tramite pacchetti discreti, i fotoni; non infine la visione deterministica della natura poiché il principio d’indeterminazione di Heisenberg e la funzione d’onda di Schrödinger, senza parlare del suo gatto, trasportarono la fisica quantistica nella dimensione della probabilità; esito d’altra parte conforme alle conclusioni del neopositivismo all’interno del quale alcuni dei principali esponenti come Carnap o simpatizzanti come Popper, finirono per dedicarsi appunto allo studio del calcolo delle probabilità.

Al di là delle mutate categorie con le quali oggi lo interpretiamo, che ci dice la scienza a proposito del mondo, della realtà che ci circonda? Se leggiamo l’ultimo libro di Carlo Rovelli, Helgoland (Adelphi, 2020) ci troviamo davanti a una realtà in cui gli oggetti si risolvono in un insieme di relazioni, cioè di equazioni, in cui qualsiasi materialità si suddivide quasi all’infinito oltrepassando i quark che compongono i protoni e i neutroni e arrivando alle stringhe, elementi sui quali possiamo costruire una convincente teoria matematica ma che non possiamo vedere né sperimentare perché di dimensioni che sono aldilà delle pur impressionanti capacità di esplorare il mondo dell’infinitamente piccolo che oggi possediamo. Eppure la teoria ci propone questi elementi che potrebbero avere non quattro ma undici dimensioni e che aprirebbero alla possibilità di un multiverso; la ricerca e la sperimentazione ci diranno se siamo autorizzati a spostare il confine delle conoscenze in questa direzione. Ma in ogni caso è relazione qualunque osservabile, perché possiamo individuarlo solo attraverso l’interrelazione con i nostri sensi e/o con i nostri strumenti di rilevazione: un protone è solo una traccia lasciata da qualcosa su una lastra fotografica. Nulla quindi è in se stesso conoscibile in assoluto, la realtà conoscibile cambia a seconda della mediazione degli strumenti che possiamo mettere in campo e del livello dal quale osserviamo: pensiamo di essere seduti su un oggetto, la sedia, ma quest’oggetto è costituito dai legami casualmente stabili di miliardi di atomi, davanti ad un tavolo che di atomi ne ha ancora di più: e noi stessi stiamo piacevolmente ragionando perché nel nostro cranio lavorano freneticamente da 90 a 100 miliardi di neuroni, attraverso un ancor più grande numero di connessioni che si chiamano sinapsi.

Che ne è allora della scienza che ci darebbe una bella illustrazione di un mondo definito con tutti i suoi oggetti ben fermi come in una classificazione di Linneo, deterministicamente legata al principio di causa ed effetto, alla categoria di necessità perché così ce la immaginavamo a ogni livello? È evidente che cade il pregiudizio della differenza tra scienza e filosofia basata sul fatto che la scienza ci mostrerebbe una realtà oggettiva che va semplicemente ‘scoperta’, come un territorio di cui si possono percorrere sempre nuove praterie, laddove invece la realtà descritta dalla scienza è il frutto di ipotesi teoriche che si confrontano con l’esperienza ma la cui univocità è costantemente messa in crisi da teorie più comprensive. Quindi, queste non rappresentano solo un’estensione del sapere ma, soprattutto, un suo costante approfondimento, come avviene in uno scavo, dove le profondità raggiunte in precedenza sono la condizione sempre presente dei nuovi livelli da raggiungere. Se la filosofia è un viaggio dai confini che si spostano sempre, un permanere sul limite, anche la scienza lo è.

Cosa appartiene allora alla scienza e cosa alla filosofia in questa cultura globale che ci costringe a una continua revisione, a non accontentarci mai dei risultati raggiunti perché ogni acquisizione, ogni proposta di soluzione apre nuovi orizzonti? Io direi che quella parte del pensiero che si pone il problema della conoscenza, dell’immagine reale del mondo, non appartiene più alla filosofia, perché la scienza consapevolmente non solo può vantare risultati del tutto tangibili, ma è in grado di gestire anche l’aspetto metodologico e categoriale dei problemi che continuamente si trova davanti, distinguendo fra il possibile e il certo, con un’apertura illimitata per definire il certo che continuamente avanza, si rinnova, si precisa. Invece alla filosofia appartiene un compito che nessun’altra disciplina le può togliere. La filosofia del ’900 ha portato a due risultati fondamentali, condivisi in qualche modo dalle diverse scuole: da una parte l’abbandono della metafisica e quindi l’affermazione della centralità dell’uomo nell’elaborazione del senso del vivere, dall’altra parte l’idea che la casa dell’essere sia il linguaggio, in tutte le forme in cui è possibile un fatto comunicativo, attraverso tutti i mezzi espressivi. Al linguaggio fanno capo la fenomenologia, l’esistenzialismo, l’empirismo logico (si pensi al percorso di Wittgenstein dal Tractatus alle Ricerche filosofiche), la filosofia analitica inglese, lo strutturalismo, l’ermeneutica, certo ciascuna scuola in forme diverse, ma tuttavia facendo di esso l’elemento in qualche modo centrale cui fare riferimento per evidenziare il carattere di una cultura, di un modo di vivere, di individuare valori, ecc. Ora, al di là della molteplicità degli approcci, il linguaggio è nel senso indicato, essenzialmente storia, cioè è un costruttore di mondi che si trasformano in continuazione, perché la loro radice è appunto il flusso della vita che corre in avanti, soprattutto nella nostra epoca, rendendo la stessa riflessione e analisi in un certo senso provvisorie, attività che si trasformano in un assiduo esercizio, in una continua attenzione e rielaborazione. Questo è dunque il carattere del nostro tempo che Lucio Saviani ha colto anche se, a mio parere, occorrerebbe riflettere sul fatto che noi non interpretiamo solo la realtà che abbiamo davanti, ma questa stessa realtà contribuiamo a costruirla, partendo da quello che comprendiamo, dalla nostra interpretazione che si apre ai contributi altrui.

Prendendo proprio spunto dal modo di procedere della scienza che non si arresta mai, mettendo sempre di nuovo in discussione i risultati raggiunti ma, tuttavia, assicurando ad ogni tratto, come l’alpinista, la corda al paletto dell’esperienza, così anche il nostro mondo di giudizi e valori deve trovare degli elementi di confronto, di validazione, certo provvisori perché niente rimane fermo, ma tuttavia necessari per poter prendere partito, per decidere una strada, per essere parte attiva e responsabile dell’andamento del mondo. Non si sfugge – come ha mostrato Sartre – al doppio nodo della libertà e della responsabilità; ogni nostra scelta rappresenta l’affermazione di un mondo di valori e dobbiamo trovare un criterio per valutare queste scelte. In passato si decideva in base alla coerenza con un credo religioso, nel mondo moderno questo si è trasformato, in varie parti del pianeta, nell’adesione cieca a un’ideologia, con le conseguenze spesso disastrose che conosciamo. Quindi non può essere una costruzione eteronoma a decidere delle nostre scelte, basata su una fede o sull’auctoritas indiscutibile di un pensatore, ma un criterio che venga dalla stessa nostra essenza, che appartenga strettamente alla natura dell’uomo e che, al tempo stesso, sia soltanto formale, essendo i contenuti e i modi dettati dalle condizioni storiche ed economico-sociali sempre nuove che la situazione propone e che sono quell’ancoraggio all’esperienza che solo può darci la prova delle conseguenze delle nostre decisioni. Qualcuno si ricorderà a questo punto di Kant e con ragione, ma qui si parla di una morale autonoma intrisa di filosofia della prassi, quella filosofia che si proponeva di cambiare il mondo, non solo di spiegarlo; e allora la linea, come limite da superare perché sempre mobile ma di direzione costante, non può essere altro che quella della realizzazione nei fatti di una piena umanità per tutte le creature della nostra specie, e del rispetto per il pianeta e per tutte le creature che lo abitano. Se viviamo in una civiltà che ancora discrimina, che nega a molti quello che concede a pochi, che distrugge le stesse radici della vita, che usa la violenza e la guerra senza pietà, ebbene il criterio che deve ispirare le nostre scelte deve essere orientato in direzione ostinata e contraria rispetto a questo modello che rischia di porre fine a qualunque progresso finora raggiunto e forse alla nostra stessa sopravvivenza.

Così incontriamo un concetto che a Lucio Saviani piace molto, condiviso con Derrida, Levinas, Habermas, quello di ospitalità e di accoglienza, l’accoglienza incondizionata dell’altro a prescindere dalle differenze, proprio perché, nel rispetto e nell’accettazione di esse, si può salvare quello che abbiamo in comune. Dialogo, certo, attenzione, ma anche fattiva volontà di trasformazione, di emancipazione, d’intervento su un mondo umano che, mai come ora, ha bisogno di una svolta decisiva non solo per realizzare un ideale morale di giustizia ma, più concretamente, per salvare se stesso.

 




Domenico Zampaglione
(n. 3, marzo 2022, anno XII)