L’etica della resistenza. N. Steinhardt e la libertà interiore nel contesto carcerario e post-totalitario

«È d’uopo che l’uomo si adoperi per pervenire al proprio essere,
il che implica dover affrontare un’aspra contesa onde accogliere ciò che gli è stato dato.» [1]
Nicolae Steinhardt


Nel cuore del gulag romeno, tra le mura delle prigioni di Jilava e Aiud, Nicolae Steinhardt forgia una delle testimonianze spirituali più luminose e potenti del XX secolo. Scrittore, intellettuale e monaco di origine ebraica, Steinhardt (1912–1989) rappresenta una delle figure più singolari e ispirate del panorama spirituale europeo del Novecento. Arrestato dal regime comunista per essersi rifiutato di accusare falsamente un amico, egli trova nel carcere non solo la prova della persecuzione, ma il varco di una radicale metamorfosi interiore: lì abbraccia il cristianesimo ortodosso, intraprendendo un cammino di profonda rinascita spirituale. Dopo la liberazione, si ritira nel monastero di Rohia, dove trascorre la sua esistenza come monaco, bibliotecario e autore. La sua opera più celebre, Diario della felicità, è una testimonianza folgorante sulla libertà interiore, sull’amicizia e sulla resilienza dell’anima, un’opera la cui risonanza ha superato i confini nazionali, trovando in Italia un significativo apprezzamento e confermando la vitalità del dialogo culturale italo-romeno. Lungi da ogni tentazione di vittimismo o rivendicazione ideologica, il Diario si configura come un vero esercizio di resistenza: contro il male, contro la menzogna, contro la disperazione. In un’epoca segnata dalla disumanizzazione sistematica e dal controllo capillare sulla coscienza, Steinhardt risponde con una libertà radicale e paradossale: quella che scaturisce da un’interiorità redenta. Non siamo ciò che siamo, ma ciò che abbiamo il coraggio di diventare.
A guidare questa riflessione è un’idea cardine del pensiero di Steinhardt, che potrebbe essere così formulata: «La libertà è la possibilità del sacrificio.» Un’asserzione che provoca, sovverte la logica ordinaria e invita a uno sguardo rinnovato sulla condizione umana, nel suo intrinseco legame con la verità, la fede e il coraggio.

Scrittura e salvezza

Per Steinhardt, la scrittura trascende la mera espressione di sé; essa si configura piuttosto come un atto salvifico. Scrivere equivale a custodire una verità irriducibile alla propaganda, a testimoniare una luce che il totalitarismo non può estinguere. La parola si fa sacramento della memoria e profezia del futuro, luogo inviolabile in cui l’uomo permane libero. La scrittura diviene dunque via di liberazione, forma di ascesi, lotta spirituale e intellettuale contro la menzogna.
La libertà, per Steinhardt, non si identifica con l’assenza di costrizioni, poiché non è un mero fatto esteriore, bensì una disposizione interiore. Non consiste nel fare ciò che si vuole, bensì nel volere ciò che è giusto. Egli rovescia la logica del potere totalitario: la libertà comincia là dove si è pronti a rinunciare a tutto, tranne che alla verità. Nel rifiutarsi di testimoniare il falso, Steinhardt non scelse la via della prudenza, bensì quella dell’integrità. Dire «no» al male, anche se legale; dire «no» all’ingiustizia, anche se imposta: ecco il fondamento della libertà autentica.
Nel mondo recluso del carcere, Steinhardt scopre una nuova fraternità: non fondata su appartenenze ideologiche, ma sulla sofferenza condivisa, sull’aiuto reciproco, sulla dignità intrinseca dell’umano. Ebrei, ortodossi, cattolici, greco-cattolici, atei, monarchici, comunisti antiregime: il carcere si trasforma in uno spazio ecumenico e universale, laboratorio vivente di solidarietà. L’esperienza della detenzione rivela la possibilità della comunione anche nella prova estrema: la solidarietà tra prigionieri si fa scintilla di grazia. Esistere è resistere. La mera sopravvivenza biologica non basta: occorre resistere spiritualmente.
Per Steinhardt, il martirio non significa sconfitta, ma apice della libertà. Nella resistenza dell’anima all’oppressione, nella fedeltà a sé stessi a prezzo della persecuzione, si rivela la nobiltà dell’umano.
La libertà è una responsabilità comune. Non è un bene da difendere contro gli altri, ma una vocazione da condividere. Richiede alleanza, fraternità, solidarietà. Steinhardt ci insegna che si è veramente liberi solo insieme, quando la libertà dell’uno si fa occasione di salvezza per l’altro.

L’attualità del messaggio di Steinhardt


In un’epoca che affronta nuove, subdole forme di oppressione – psicologica, mediatica, digitale – che minacciano l'integrità interiore, il messaggio di Steinhardt conserva una stringente attualità. Egli invita a un’«ascesi della coscienza», a una vigilanza morale priva di compromessi. Il suo è un cristianesimo incarnato, umanissimo, che non separa mistica ed etica, martirio e gioia, croce e bellezza.
In un mondo frammentato, dove l’individuo rischia di smarrirsi tra algoritmi impersonali e simulacri di libertà, la lezione di Steinhardt risuona come un appello perentorio alla verità del cuore. La sua voce ci ricorda che la dignità non è negoziabile, che ogni coscienza vigile è un baluardo inespugnabile contro la tirannia del conformismo. In un’epoca affamata di senso, il suo messaggio è una bussola: ci orienta verso una libertà che non teme il sacrificio, verso una gioia che nasce dalla fedeltà irrinunciabile all’essere.
Il presente articolo non ha la pretesa di esaurire la complessità della figura e la vastità dell’opera di Nicolae Steinhardt. Sarebbe impossibile, e forse inopportuno, tentare di racchiudere in poche frasi la complessità di un destino esistenziale e spirituale così ricco di sfumature, contraddizioni, vertigini e silenzi. Numerosi studi, monografie, tesi e ricerche gli sono già stati dedicati: segno della forza viva, mai riducibile, del suo pensiero e della sua testimonianza.
Questa mia modesta riflessione desidera solo porsi come un umile omaggio, un invito discreto e rispettoso alla rilettura di un autore che seppe trasformare la prigione in monastero, la sofferenza in trasfigurazione, il silenzio in parola abitata. Siamo consapevoli della provvisorietà del nostro sguardo umano, spesso troppo corto e troppo fragile dinanzi alle grandi anime, le cui esistenze sfuggono a ogni definizione e continuano a parlare a generazioni diverse, in modi sempre nuovi. Non resta che inchinarci con gratitudine e ascolto davanti a chi, come Steinhardt, ha saputo vivere e pensare la libertà come sacrificio e come dono.


Alina Monica Turlea
(n. 6, giugno 2025, anno XV)





NOTE
[1] La traduzione di questa citazione dal romeno «Omul trebuie să lupte pentru pentru a deveni ceea ce este, adică trebuie să ducă un război greu pentru a primi ceea ce i s-a dat.» è a cura dell’autrice dell’articolo e non corrisponde necessariamente alla versione presente nelle edizioni italiane pubblicate del Diario della felicità di Nicolae Steinhardt.

Bibliografia essenziale
Per la redazione del presente articolo si è fatto riferimento ai seguenti testi:
Nicolae Steinhardt, Jurnalul fericirii, Editura Dacia, Cluj-Napoca, 1991.
Nicolae Steinhardt, Diario della felicità, traduttore Gabriella Bertini Carageani, a cura di Gheorghe Carageani, Rediviva Edizioni, Milano, 2017.
Simone Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano, 2022
Maxim Morariu, Nicolae Steinhardt – o contribuție românească la autobiografia spirituală, Adonai, Bucarest, 1995, pp. 61-73, consultabile all’indirizzo:  https://www.researchgate.net/publication/344800374_Nicolae_Steinhardt_-o_contributie_romaneasca_la_autobiografia_spirituala