Etica della scrittura e scrittura come intendimento etico. Nota su Giuseppe Pontiggia

«Penso che questo sia fondamentale per chi scrive, avere la percezione che il testo sia suscettibile di miglioramenti, sia qualcosa di cui alcune parti funzionano e altre no, non qualcosa di misterioso e di inafferrabile. O meglio è “anche” questo, ma al tempo stesso è qualcosa su cui si può lavorare». (Giuseppe Pontiggia)

Su invito di Aldo Grasso, tra il maggio e il luglio 1994, per il programma Dentro la sera di RAI-Radio Due, Giuseppe Pontiggia tenne venticinque Conversazioni sullo scrivere, ora riascoltabili grazie a un CD e leggibili in una trascrizione riuniti in un volume di grande utilità per quanti vogliano riflettere sulla complessità della scrittura, pubblicato nel 2016 [1].
Ciò che tuttavia più importa segnalare è l’attenzione di Pontiggia, ribadita fin dalla tesi di laurea, rivolta da sempre allo scrivere, alle tecniche di scrittura e a ogni aspetto, anche teorico-pratico-immaginativo, dell’oggetto libro: di cui fu anche un grande, autorevole, lettore e ‘collezionista’, per quanto tale termine possa qui definirne la famosa passione di bibliofilo (possessore di quasi quarantamila volumi), più appassionato del sapere e delle conoscenze trasmesse da un determinato libro per lui prezioso, che dell’oggetto con un valore economico in sé.
Riguardo alla tesi di laurea, intitolata La tecnica narrativa di Italo Svevo e discussa nel 1959 con il Prof. Mario Apollonio, all’Università Cattolica di Milano, sua fu l’offerta di pubblicarla in «Kamen’», rivista internazionale di Poesia e Filosofia, che la accolse nei nn. 21 e 22, Gennaio – Giugno 2003 [2]. La tesi mostra un Pontiggia giovane, ma già sicuro dei propri mezzi e dell’attenta lettura degli studi sul romanzo di Warren Beach e della produzione della Neo-fenomenologia della scuola milanese di Antonio Banfi. In particolare del lavoro che Enzo Paci andava col suo relazionismo facendo, sia teoricamente sia interpretativamente, per la diffusione nel nostro paese della stessa Fenomenologia e dell’opera pionieristica, dopo la completa svalutazione dell’argomento tecnica artistica in area idealistica, e crocio-gentiliana in specie, di Dino Formaggio. Un grande maestro, quest’ultimo, dell’estetica europea (molto stimato da Pontiggia), che nel 1953 aveva ristampato a Milano, presso Nuvoletti, la sua fondamentale Fenomenologia della tecnica artistica, in cui erano ripresi lavori precedenti e pure la sua tesi di laurea.
In quegli anni trattare il tema della tecnica artistica nella sua pregnanza e complessità di significati era assunzione coraggiosa, perché in un clima ancora pregno, come dicevamo, di esiti idealistici: ora ci rimangono in merito solo i miasmi – non attenti alla centralità dell’aspetto semantico – della temperie strutturale, con la sua avalutatività e trascuratezza, talvolta fin anche completa, della fitta rete di interconnessioni di tipo etico, valoriale, storico, giudicate a torto (per scientismo) ‘non scientifiche’. E coraggiosa fu allora la scelta di Pontiggia in merito allo scrittore triestino Italo Svevo. Come scrive Daniela Marcheschi nell’Introduzione a La lente di Svevo:

«Colpisce la sicurezza con cui lo studente Pontiggia sa individuare, dominandole (lo dimostrano i virgolettati anche minimi), le più solide fonti critiche di partenza per la propria ricerca di tesi: ad esempio, oltre agli interventi su Svevo per così dire ‘canonici’, obbligati, di Eugenio Montale e Benjamin Crémieux, che ne furono fra i primi estimatori, quelli di Sergio Solmi, Elio Vittorini, Bruno Maier, Giacomo Devoto, Carlo Bo, Alain Robbe-Grillet e pochi altri. In un’epoca in cui il dibattito intorno al triestino finiva non raramente con l’insistere sulla difficoltà di lettura (Svevo ‘scrittore per iniziati’ – ribadiva Flora) o il ruotare ancora intorno a quelle ‘mende verbali’, originate dalla minor pratica dell’italiano, di cui lo stesso Montale aveva segnalato la marginalità già nel 1925, Pontiggia ne ribadisce non solo la forza dello stile e il ruolo di grande della letteratura italiana, ma anche la statura europea». [3]

La tesi di laurea di Pontiggia tocca argomenti definiti compiutamente fin a partire dai titoli (di nettezza ‘chirurgica’) dei capitoli in cui essa è suddivisa: Il punto di vista, Il tempo, I personaggi, Il paesaggio, Il dialogo, Il linguaggio; segue in chiusura la bibliografia. Vi sono già evidenti quella cura e attenzione per il linguaggio sino alle minuzie, e dalle singole parole all’aggettivazione; in breve, una scrittura saggistica chiara e rigorosa, e una notevole indipendenza di giudizio: un altro scarto e respiro rispetto alla scrittura accademica in cui a tutt’oggi è generalmente redatto tale genere di lavori.
Ma, tornando alle Conversazioni sullo scrivere, come lo stesso Pontiggia sottolinea anche in rapporto ai corsi di scrittura creativa che aveva tenuto al Teatro Verdi di Milano (dal 1984) e in conferenze, saggi e articoli, ciò che lo interessa non è tanto l’aspetto normativo [4], ma un principio di «economicità dello stile», in cui si deve rispettare una «caratteristica principale dello stile letterario, la precisione».
Sulle finalità dei corsi di scrittura creativa Pontiggia precisa: «esistono diversi piani di scrittura; esiste una scrittura – come dire – di consistenza letteraria ed esiste una scrittura che si limita a essere una comunicazione efficace e funzionale. Quest’ultima è la meta che tutti possono ragionevolmente perseguire in un corso di scrittura» [5]. In questa attività Pontiggia è stato agevolato da anni di lavoro di editing,in merito al quale scrive:

«Ne parlavo coll’autore e lui di solito conveniva che effettivamente certe parti andavano modificate: non nell’interesse di qualcuno, ma nell’interesse del testo. Io facevo proposte di correzione, cerchiavo per esempio le parole che secondo me andavano omesse o ne suggerivo altre. È un lavoro che adesso non faccio più per questioni di tempo, ma che è stata un’esperienza importante; ed è un lavoro che a mia volta io chiedo a qualche lettore-vittima quando scrivo. So benissimo che è una fatica non da poco. A questi lettori io chiedo che mi leggano il testo, che mi dicano o mi sottolineino le parti che secondo loro non funzionano, le dissonanze che notano nella scrittura le parole sbagliate, le immagini non risolte, le battute non convincenti. Hanno tutta la mia riconoscenza se sono severi ed esigenti». [6]

Un lavorio di scrittura e riscrittura a cui Pontiggia, valendosi a volte di amici-critici su cui contare (esemplare il sodalizio con Daniela Marcheschi che ne curerà il Meridiano Mondadori [7]), ha sottoposto testi e romanzi. Emblematica è in particolare la revisione e riscrittura, a distanza di anni, del romanzo La grande sera, uscito presso Mondadori nel 1989 e vincitore del premio Strega. Nell’edizione riveduta per la collana mondadoriana degli Oscar, nel 1995, si legge:

«Dopo la pubblicazione della Grande sera, nel 1989, mi sono reso conto che il testo presentava alcuni difetti non marginali. Parte della critica e dei lettori mi ha corroborato, per così dire, in questa inquietante persuasione. Dovessi riassumerli in modo schematico: Ridondanze di colorito retorico (eccessi di antitesi, parallelismi, ossimori). Aforisticità insistita. Sentenziosità dei dialoghi. Ho lavorato oltre un anno alla correzione di questi difetti. Dalla revisione capillare, parola per parola, il testo è uscito non vistosamente – però profondamente modificato. Mi sembra più rapido, sfumato, ambiguo, ironico. Il lavoro sui dettagli ha finito per cambiare l’insieme. Io spero sia migliorato». [8]

O, ancora, si consideri il lavoro di ‘taglio, revisione e cucito’ dell’ultima opera Prima persona (raccolta, con svariate revisioni, degli Album pubblicati nel supplemento domenicale del quotidiano «Il Sole 24 Ore», tra il febbraio 1997 e il maggio 2002) [9].  Un vero e proprio volume di critica dell’esistente e di sguardo eidetico sulle cose e sul linguaggio, sulle cose attraverso il linguaggio e la sua critica, che per altri versi richiama l’esemplare Diario fenomenologico di Enzo Paci.
Nella Introduzione del 1973 a questo suo volume Paci scriveva in modo significativo:

«è anche un ritorno al soggetto [la fenomenologia, n. d. r], al cogito, non al soggetto come categoria artificiale, ma al soggetto proprio, in prima persona: a quel soggetto che è ognuno di noi e che non è né astratta categoria, né puro pensiero. Per fare questo bisogna sospendere ogni conoscenza e ogni giudizio dato prima di sperimentare atti e fatti così come sono vissuti, bisogna compiere l’esercizio di sospensione che gli scettici greci chiamavano epoché. Bisogna non ripetere nozioni o categorie astratte, ma ricominciare da capo, compiere sempre le operazioni che fondano un sapere e una scienza». [10]

Affermazioni che mettono in risalto il contesto di pensiero filosofico, oggi non comune negli scrittori italiani, in cui Pontiggia verrà nel tempo maturando la propria idea di autobiografismo in letteratura, di cui è esempio (per molti aspetti da indagare ancora di più di quanto già fatto dalla critica) il romanzo Nati due volte (Milano, Mondadori, 2000). Una idea che gli si era annunciata già in tutta la sua problematica portata formale fin dall’epoca degli studi per la Tesi su Svevo:

«Questa incapacità sostanziale a spezzare il punto di vista unico rappresenta dunque una riprova tecnica dell’autobiografismo di Svevo. Infatti non tanto l’unicità ce ne persuade (ne La coscienza di Zeno il racconto è addirittura in prima persona, ma questo potrebbe essere soltanto un espediente tecnico) quanto proprio i vani tentativi di Svevo di spezzarla. Autobiografismo che non soffoca, anzi favorisce la creazione di tanti indimenticabili personaggi. L’autobiografismo di un uomo che già straordinario nella vita (malgrado le superficiali apparenze) è stato trasfigurato dalla propria arte in un emblematico protagonista, contraddittorio disperato sorridente». [11]

Con acribia di filologo, alla dimensione fenomenologica Pontiggia aggiunge un attraversamento di ciò che di meglio la filologia e la linguistica hanno prodotto, unendo – al modo di Paul Ricoeur – dimensione fenomenologica e dimensione ermeneutica: in questo caso letteraria. Pontiggia, infatti, rinuncia a un assolutismo fondativo dell’io – per dirla appunto alla Ricoeur – con lo scopo di far emergere un sé come altro, in un orizzonte intersoggettivo e ampiamente culturale che prevede l’alterità dentro il soggetto stesso: il sé è altro, ma è anche quel «sé che coincide con gli altri», caro a Giorgio Caproni oltre che a Pontiggia. Il sé che coimplica, si porta dentro, anche quella molteplicità e dialogicità asserita pure da Michail Michajlovič Bachtin e dalla teoresi di ascendenza fenomenologica del primo Novecento.
Si profila qui, e in questo modo, quella dimensione di etica della scrittura e di scrittura come intendimento etico, capace di indurre a ritrovare anche il senso primo del termine inventare. Dando ancora la parola a Pontiggia, leggiamo:

«Io penso che lo scrivere sia soprattutto inventare nel senso etimologico di invenire. Invenire in latino voleva dire trovare. Inventare è un frequentativo di invenire e vuol dire essenzialmente scoprire quello che non si sapeva di conoscere, trovare quello che non si sapeva esistesse. Penso che una delle mete di un narratore sia dar vita a un testo che alla fine ne sappia più di lui, un testo che rappresenti per lui una fonte di sorpresa, di curiosità, di conoscenza, che non lo deluda alla rilettura, ma anzi riveli significati nascosti che lui stesso non poteva prevedere. Un testo è riuscito se ne sa più dell’autore, e questo è confermato dalla nostra esperienza, sia dall’esperienza storica». [12]


Amedeo Anelli
(n. 3, marzo 2023, anno XII)




NOTE

1) Giuseppe Pontiggia, Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere, Milano, Belleville Editore, 2016. La citazione in epigrafe è tratta proprio da questo volume postumo, in particolare da p. 18.
2) Ora Giuseppe Pontiggia, La lente di Svevo, Introduzione di Daniela Marcheschi, Milano, Marietti 1820, 2022.
3) Ivi, p. 13.
4) Cfr. Giuseppe Pontiggia, Dentro la sera, cit., p. 21.
5) Ivi, p. 19.
6) Ivi, pp. 28-29.
7) Giuseppe Pontiggia, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Milano, A. Mondadori, 2004.
8) Giuseppe Pontiggia, La grande sera, Postfazione di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 1995, p. 5.
9) Giuseppe Pontiggia, Prima persona, Milano, Mondadori, 2002.
10) Enzo Paci, Diario fenomenologico, Milano, Bompiani, 1961, p. 5.
11) Giuseppe Pontiggia, La lente di Svevo, cit., pp. 67-68.
12) Giuseppe Pontiggia, Dentro la sera, cit., pp. 25-26. Da leggere è anche la voce Etica, per il programma di RAI-RadioTre, diretto da Mirella Fulvi, Vedi alla voce (marzo 1994- luglio 1995), in trascrizione inedita cortesemente messami a disposizione da Daniela Marcheschi:
«‘Etica’ viene da ethos, parola greca che significava ‘costume’, ‘modo di comportarsi’.
Noi con il termine ‘etica’ intendiamo quella parte della filosofia che si pone il problema delle scelte dell’uomo di fronte al bene o al male, del significato e del valore delle nostre azioni.
L’etica naturalmente può avere radici religiose, nascere da una fede; o radici razionali, nascere dalla ragione.
Personalmente ho una certa diffidenza verso le etiche che hanno queste radici così profonde o nella fede o nella ragione, nel senso che portano spesso all’intolleranza. L’etica cristiana, cattolica, islamica, convinta di possedere la verità, finisce per volerla imporre a tutta la società.
La stessa etica laica che si fonda sulla Ragione, per esempio l’etica kantiana, è alla base delle azioni più crudeli compiute nei confronti dell’uomo in nome di una ragione unica, assoluta, in cui si crede e che si vuole imporre anche a coloro che riluttano.
Durante la Rivoluzione francese i giacobini imponevano l’eticità della Ragione alle spese e anche ai danni di quelli che ne erano inconsapevoli e che dovevano subirla. Quindi le basi religiose e razionali dell’etica possono portare all’intolleranza.
Mi attira la concezione che ne aveva un grande pensatore appartato del nostro Novecento, Giuseppe Rensi, il quale diceva che l’unica etica che non è intollerante è un’etica scettica, cioè un’etica consapevole dei limiti della ragione: è consapevole che non c’è una sola ragione, ma ci sono molte ragioni, ed è un’etica rispettosa delle tradizioni, aperta al nuovo, e che non arriva all’intransigenza, al fanatismo, proprio perché conosce i propri limiti».