Religione e Stato nell’Europa odierna

Lo scorso 22 aprile, il professor Andrei Marga, direttore dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest, ha tenuto all’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia la conferenza Religione e Stato nell’Europa odierna. Riceviamo il testo che volentieri pubblichiamo.


Dobbiamo prendere atto che, in Europa e in America, sono trascorsi già alcuni secoli di separazione tra religione e stato: la religione è considerata una questione legata alla libertà della coscienza, che riguarda la vita privata della persona, mentre lo stato ha a che fare con l’amministrazione, che è neutra nei confronti delle visioni soggettive dei cittadini e agisce nel pubblico interesse. Lo Stato moderno è fondato sul presupposto della separazione tra comunità ed Individuo: per le azioni di interesse pubblico si rivendicano motivazioni profane, mentre le singole persone hanno la libertà incondizionata di praticare e portare avanti, nella vita privata e nei luoghi di culto, le proprie convinzioni religiose.
Le Costituzioni hanno consacrato da un punto di vista giuridico questa separazione. Per esempio, nel Bill of Rights (1791), la celebre sezione della Costituzione degli Stati Uniti, all’interno dell’Emendamento numero uno, si prevede: «Congress shall make no law respecting an establishment of religion, of prohibiting the free exercise hereof; or abridging the freedom of speech or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances».  Mentre la Costituzione della Francia (1958), all’articolo 1, afferma che «La France est une République indivisible, laïque, démocratique et sociale. Elle assure l'égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d'origine, de race ou de religion. Elle respecte toutes les croyances», dopo che, già con la Declaration des droits de l’homme et du citoyen (del 26 agosto1789), era stato stabilito che: «Nul ne doit être inquiété pour ses opinions, même religieuses, pourvu que leur manifestation ne trouble pas l'ordre public établi par la loi» (art. X), il potere pubblico (la force publique) essendo «instituée pour l’avantage de tous, et non pour l’utilité particulière de ceux auxquels elle est confiée» (art. XII). Gli esempi possono certamente continuare.
Nel frattempo, alla classica separazione tra Stato e religione si è aggiunta una nuova militanza a favore di un distacco più radicale dalla religione. Paul Kurtz, per esempio, ha pubblicato, non molto tempo fa, quasi un manifesto, intitolato What Is Secular Humanism? (2007), in cui si spinge molto al di là della separazione consacrata: il noto studioso del pragmatismo sostiene la rimozione della religione non solo dalla vita pubblica, dallo Stato, ma anche dai singoli progetti di vita delle persone, che sono, per loro natura, entità individuali. Kurtz propone la visione di un «secular humanism», che «rejects supernatural accounts of reality; but it seeks to optimize the fullness of human life in a naturalistic universe» (p. 8) e «holds that ethical values are relative to human experience and need not be derived from theological or metaphysical foundations» (p. 26).
Personalmente ritengo che tale visione attiva abbia imboccato una strada sbagliata. Nondimeno, penso che la separazione classica tra religione e stato debba essere rimessa in discussione. Operando con la Divinità che ripartisce la giustizia, la religione non solo ha indotto un senso morale positivo nelle azioni della stragrande maggioranza delle persone, ma possiede inoltre quello tra i più alti potenziali di motivazione dei comportamenti democratici, forse il più alto. Pertanto, nella mia conferenza, dopo aver precisato dal punto di vista storico il rapporto tra religione e stato (1), cercherò di mostrare come la tesi della separazione incontri una serie di difficoltà (2), dal momento che, pur non essendo realistico il ritorno ad una condizione precedente alla secolarizzazione, soprattutto  nelle società pluraliste dal punto di vista religioso (3), tuttavia una nuova soluzione riguardo al rapporto tra la religione e lo stato si dovrà trovare (4). Cercherò di chiarire alcuni aspetti che vanno verso un tale genere di soluzione. Premetto che sono d’accordo a segnare  una differenza tra il rapporto politica-religione ed il rapporto stato-chiesa (differenza proposto, fra gli altri, da Kenneth Canthem, in Christians and Politics, 2001). Sostengo tuttavia che il secondo rapporto non si può chiarire senza prendere in considerazione il primo. La religione non è apolitica e lo stato non può più restare indifferente rispetto alle fedi e alle credenze dei propri cittadini se vuole prendersi sul serio in quanto organizzazione fondata sul riconoscimento dei cittadini.

Il lungo dibattito sull’emancipazione
 
Non insisto sulla storia della separazione tra «secolare (politico)» e «religioso», tra Chiesa e stato, essendo questa ben nota. Nel De Monàrchia (1311) di Dante troviamo l’inizio della concezione di questa separazione: «La chiesa e l’impero hanno “fondamenti diversi” e sono i termini di un rapporto, il primo “nell’ambito della paternità”, il secondo “in quello del dominio”». Si afferma giustamente però che la Pace di Westfalia ha concluso la guerra dei trent’anni, dopo una serie di conflitti a substrato confessionale e ha aperto il ciclo storico della separazione tra auctoritas del Papa e potestas del re. «La chiesa perde il suo ruolo principale di garante del potere politico e quest’ultimo si sente slegato dalle responsabilità direttamente connesse con la sfera religiosa» (Giacomo Marramao, p. 25). Non insisto qui neppure sull’interazione paradossale tra stato e Chiesa, che ha fatto sì che il potere regale cercasse di legittimarsi tramite il controllo da parte della Chiesa della sfera del sacro e della santità, e che le due, la Chiesa e lo stato, si organizzassero attraverso «un reciproco rispecchiamento (gegenseitigen Bespiegelung)» (Marc Bloch, Les rois thaumaturges, p. 19). Si può dire che «seit dem Ende des 18. Jahrhunderts hat die Säkularisierung die Grenzen von Kirchen – und Staatsrecht überschritten und ist zu einer allgemeinen Kategorie geworden, die unauflöslich mit der neuen einheitlichen Vorstellung einer geschichtlichen Zeit verflochten ist. Aus dieser Verflechtung (bei der die Säkularisierung mit anderen Symbol-Koordinaten der modernen Befindlichkeit zusammenhängt: mit Emanzipation und Fortschritt, Befreiung und Revolution) ergeben sich radikale Neudefinitionen und Sinnverschiebungen des Begriffspaares geistlich/weltlich» (Marramao, p. 28). Oggi però, con una conoscenza storica più larga, non possiamo evitare di rimettere in discussione la storia della secolarizzazione.

Vorrei discutere brevemente, per far capire la complessità del problema di fronte al quale ci troviamo oggi, sulla questione dell’emancipazione. Pochi l’hanno trattata in maniera tanto convincente quanto Moses Mendelssohn. In Jerusalem (1783), il noto rabbino berlinese ha considerato «lo stato» e «la religione» come «piliers de la vie sociale», che devono raggiungere un «equilibrio». Egli ha voluto chiarire i loro «campi» ed i «confini» che li separano, prendendo come punto di partenza la «libertà di coscienza»: «Le droit à nos propres convictions est inaliénable, il ne peut transiter d’une personne à une autre, car il ne donne et ne prend aucun droit à la richesse, au bien et à la liberté» (p. 88). L’argomento determinante di Mendelssohn è stato quello che nessuna istituzione ha il diritto di limitare le «convinzioni» degli individui. «Car un contrat sur des choses qui, selon leur nature, sont inaliénables, n’est pas valable en soi et s’annule de lui-même» (p. 100). «Lo stato e la religione» si riferiscono a dimensioni originariamente differenti. «Les principes conduisant les hommes à des actions et à des convictions raisonnables reposent en partie sur les rapports des hommes entre eux, en partie, sur les rapports des hommes aves leur Créateur et celui qui les fait exister. Ceux-là appartiennement à l’État, ceux-ci à la religion. Dans la mesure où les actions et convictions des hommes peuvent être rendues d’intérêt commun par raisons découlant de leurs rapports entre eux, ils sont l’objet de la constitution civile; mais dans la mesure où les rapports des hommes envers Dieu sont pris comme source de ceux-ci, ils appratiennent à l’Église, à la Synagogue ou à la Mosquée» (p. 65). Mendelssohn è stato però abbastanza perspicace da osservare che nonostante la separazione di fondo, la religione motiva il comportamento umano.
Nel frattempo, nella cultura europea si è svolto un lungo dibattito sull’emancipazione, con distinzioni tra «emancipazione politica», «emancipazione civica», «emancipazione sociale», «emancipazione religiosa», che hanno segnato gli approcci del rapporto tra religione e stato fino ad oggi. (si veda Andrei Marga, Fraţii mai mari. Întâlniri cu iudaismul / I fratelli maggiori. Incontri con l’ebraismo), 2009, pp. 116-140). Qual è, dunque, la situazione oggi? Notiamo che, da un lato, ci sono delle difese della separazione consacrata e ricostruzioni della tesi della separazione, e dall’altro lato, assistiamo alla «rinascita religiosa» nelle società moderne.

Ci sono delle tenaci difese della separazione consacrata tra religione e stato, fondate sulla convinzione che non sia possibile una soluzione migliore. L’esempio più eloquente lo ha offerto recentemente Herbert Schnädelbach, con il volume Religion in der modernen Welt (2009), dove si ripete il consueto argomento secondo il quale i diritti e le libertà della persona, consacrati dopo 1789, rappresentano non tanto un’ispirazione cristiana, quanto «la legiferazione di una Lebenswelt (cioè un „mondo della vita”) civile, illuminata (die Verrechtlichung einer bürgerlichen, aufgejlärten Lebenswelt)» (p. 137) e vede nel «ritorno della religione (Wiederkehr der Religion)», alla quale assistiamo negli ultimi decenni, solo il «ritorno di un bisogno di religione (Wiederkehr eines religiösen Bedürfnisses)» (p. 132). Sulla base di queste premesse, il filosofo berlinese continua a costruire la sua tesi secondo la quale «solo la sovranità divisa, per mezzo dell’esclusione di tutte le reminiscenze religiose, rende possibile una costituzione della libertà» (p. 120) e difende l’equivalenza tra  la possibilità delle libertà e la  promozione della «ragione critica». Egli mette la riflessività, che ha messo in moto le culture lungo la storia, solo sul conto dell’Illuminismo. «In questo modo possiamo intendere l’illuminismo (Aufklärung) e il suo motore, la critica, tanto dal punto di vista storico, quanto strutturale, come il lato intellettuale della modernizzazione culturale nel senso di un riflessivo e progressivo divenire delle culture» (p. 28). Herbert Schnädelbach sostiene che «l’idea della ragione critica», che è di ispirazione kantiana, non sarebbe stata ripresa dalla «ragione della fede (Vernunft des Glaubens)» (p. 42) e afferma, evidentemente in modo sbagliato, che «l’Obbedienza – l’Ascoltare – (Gehorsam)» non sarebbe altro che «la rinuncia alla critica esaminatrice di quello che c’è da ascoltare» (p. 51).
L’offensivo filosofo di oggi, da Berlino, vuole ristabilire, in tutta la sua estensione, la critica kantiana della ragione cognitiva e propone sempre di esaminare le espressioni e i concetti prima del loro uso. Solo che la sua analisi della situazione della religione nel mondo moderno si ferma al livello di un esame concettuale, senza essere capace, per motivi metodologici, di sorprendere l’importanza della religione nella democrazia ed il ruolo dei rappresentanti della religione nella difesa e nel rinnovamento della democrazia. Si tratta di un fatto imponente, osservato saggiamente da Peter. L. Berger, vale a dire che «è un grosso rischio trascurare la religione nell’analisi del mondo di oggi» (p. 36). Tuttavia, anche se gli impatti della religione e della politica sono molto complicati, il filosofo berlinese non li ha presi in considerazione.

La tesi della separazione è stata ricostruita nella maniera più convincente da John Rawls. Il filosofo americano inizia con il chiarire la natura di quella «public reason» che condiziona una «well-ordered constitutional democratic society». In Political Liberalism (1996), egli mostra che, in democrazia, il cittadino ha il dovere di far ricorso alla «public reason». «The ideal of citizenship imposes a moral, not a legal, duty – the duty of civility – to be able to explain to one another on those fundamental questions how the principles and policies they advocate and vote for can be supported by the political values of public reason. The duty also involves a willingness to listen to others and a fairmindedness in deciding when accommodations to their view should reasonably be made» (p. 217). Ogni cittadino ha il dovere di rapportarsi a quello che, tutti insieme, i cittadini di quello stato decidono per il bene comune.
Si tratta di un contenuto che consiste in norme e decisioni neutre riguardo alle diverse convinzioni individuali, incluse quelle religiose. Ogni cittadino può promuovere nel campo pubblico punti di vista e argomenti che possono essere condivisi anche dagli altri cittadini, nella sua sfera privata rimanendo radicate libertà della persona che nessuno può togliere. I cittadini procedono in conformità a quest’ordine, perché sanno che «they cannot reach agreement or even approach mutual understanding on the basis of their irreconcilable comprehensive doctrines. In view of this, they need to consider what kinds of reasons they may reasonably give one another when fundamental political questions are at stake» (John Rawls, Collected Papers, p. 574).
Essendo in questo modo correlate, le opinioni personali dei cittadini – sia esse religiose, filosofiche o di altra natura – e la «public reason», sorgono alcune domande. Nell’approccio aprioristico di John Rawls si dà conto di una di queste domande: in che modo colui che condivide opinioni religiose rende compatibile la sua visione con le esigenze della «public reason»? In The Idea of Public Reason Revisited (1997), la risposta rimanda alla questione di come la «public reason» riesca a legittimare la società democratica. Due soluzioni sono possibili: la prima, anche in ordine storico, è stata l’accettazione della tolleranza come un modus vivendi (come è accaduto, ad esempio, alla fine degli scontri religiosi del diciassettesimo secolo); la seconda è stata l’accettazione della democrazia in quanto questa permetteva una migliore promozione dei propri punti di vista.

Rimangono però aperte anche altre domande, che, tra i contemporanei, sono state affrontate nel modo più profondo da Jürgen Habermas. In Religion in der Öffentlichkeit. Kognitive Voraussetzungen für den «öffentlichen Vernunftgebrauch» religiöser und säkularer Bürger (2005), il noto pensatore francofortese mostra che «la libertà di coscienza e la libertà religiosa» sono, certamente, la soluzione capace di sciogliere «il potenziale conflitto» che appare in situazioni di pluralismo religioso. Ma, «für eine gleichmäßige Gewährleistung der Religionsfreiheit ist nun der säkulare Charakter des Staates zwar eine notwendige, aber keine zureichende Bedingung» (p. 125). La circostanza per cui lo stato si dichiara neutro non elimina la possibilità che la libertà religiosa sia messa a repentaglio. John Rawls si è accorto di tale circostanza, ma ha messo l’accento non sulla neutralità dello stato, bensì sulle «implicazioni normative del ruolo di cittadino». Così che «nach liberaler Auffassung gewährleistet der Staat Religionsfreiheit nur unter der Bedingung, dass sich die Religionsgemeinschaften aus der Perspektive ihrer eigenen Überlieferungen nicht nur auf die weltanschauliche Neutralität der staatlichen Vernunftgebrauchs der Bürger» (p. 128). In ogni modo, se vogliamo raffigurare in modo realistico il rapporto tra religione e stato, dobbiamo prendere in considerazione, come argomenti, non solo i fatti già molto sfruttati, in quanto durante il percorso della storia sono esistiti momenti di repressione da parte delle istituzioni religiose e con fondamentalismi pericolosi, ma dobbiamo dare il giusto rilievo a considerazioni altrettanto significative come le seguenti: ci sono stati dei movimenti, a favore della democrazia e dei diritti dell’uomo, che sono stati guidati da personalità religiose, in quanto negli stati democratici attuali le chiese e le comunità religiose sono garanti della libertà, dei diritti dell’uomo e dell’ordine democratico. Bisognerà dunque uscire dalla semplice separazione tra religione e stato, ammettendo il ruolo salutare della religione almeno nella promozione di una morale favorevole ai diritti dell’uomo e alla democrazia.
Habermas ha condotto osservazioni cruciali per una nuova comprensione del rapporto tra religione e stato: «lo stato liberale» pretende infatti una «autocensura (Selbstzensur)» da parte dei cittadini e delle comunità religiose (p. 130); questo stato promette ai cittadini, ai quali concede la libertà di coscienza, di non pretendere qualcosa contrario alla loro fede (p. 131); lo stato non può pretendere da parte dei cittadini che essi dividano la loro coscienza delimitando ossessivamente quello che è valido, secondo le loro convinzioni, da quello che è valido secondo il carattere dello stato (p. 132); lo stato non deve aspettarsi che i suoi cittadini manifestino le loro convinzioni politiche separate dalle loro altre convinzioni, siano esse anche religiose (p. 133). Habermas fa vedere che la separazione consacrata tra religione e stato è, infatti, una «sovrageneralizzazione secolarizzata (säkularistische Überverallgemeinerung)», quindi la conclusione del filosofo, con le sue proprie parole, suona così: «lo stato liberale ha interesse nel fatto che che le voci religiose partecipino alla sfera pubblica e politica, così come nella partecipazione politica delle organizzazioni religiose. Lo stato, cioè, non si può permettere di limitare o scoraggiare i credenti e le comunità di fede nelle loro  espressioni propriamente politiche, dal momento che non può sapere se la società laica sia slegata dalle importanti risorse della fondazione del significato. E i cittadini laici o di altra credenza possono sempre imparare qualcosa dai contributi religiosi in determinate circostanze. È questo il caso, ad esempio, quando nei contenuti normativi di verità di un’espressione religiosa si riconoscono le proprie intuizioni, a volte malcerte» (p. 137).

Possiamo dire che John Rawls ha ricostruito il rapporto tra religione e stato nei termini consacrati, mettendo l’accento sui comportamenti individuali come terreno di risoluzione delle tensioni che sorgono tra chi vive le proprie convinzioni religiose e l’ordine inevitabilmente formalizzante dello stato. Habermas ha fatto un passo avanti mettendo in valore la liberalità dello stato liberale che, qualunque cosa si dica, rimane liberale solo se permette le espressioni non vincolate degli individui. Il famoso filosofo tedesco ha rinnovato la propria argomentazione facendo vedere che l’invocazione, quasi rituale, delle repressioni esercitate dalle istituzioni religiose nel corso della storia, rappresenta solo una parte, diventata ormai irrilevante, della verità. L’altra parte, molto più significativa oggi, consiste nell’impegno dei credenti e delle istituzioni religiose, su larga scala, in favore dei diritti dell’uomo, delle libertà delle persone e della democrazia.
Intanto, la cultura del nostro tempo ha registrato una «rinascita religiosa (religious resurgence)» e una «svolta religiosa (religious turn)». Si tratta di cambiamenti concomitanti in almeno tre campi.
Ci sono stati cambiamenti nella situazione della religiosità, nel senso che, così come attestano i «values surveys» effettuati negli ultimi decenni, «il futuro dell’Europa non sembra risiedere nella mancanza di religiosità» (Paul Michael Zulehner, Wiederkehr der Religion?, 2002, p. 41), e la «sovrapoliticizzazione della società» (Sigrid Meuschel, Revolution in DDR..., p. 562) e soprattutto la globalizzazione «enhances, at least in the relatively short run, religion and religiosity» (Roland Robertson, Joan Chirico, Humanity Globalization and Worldwide Religious Resuregence). Ci sono dei cambiamenti nella coscienza democratica, nel senso che le democrazie attuali vivono una «crisi di motivazione» (Ernst Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisierung, p. 112), che non si può superare senza mettere in discussione la secolarizzazione e senza rivalutare le risorse culturali, insomma senza riconoscere la forza di motivazione della religione nei comportamenti democratici e riflettere su una «società postsecolare» (Habermas, Ratzinger, Dialektik der Säkularisierung, pp. 33-36).Ci sono infine dei cambiamenti nella conoscenza delle Scritture che fondano le religioni monoteiste, dato che il modo in cui Gesù di Nazaret è diventato Gesù Cristo è per noi, ulteriormente nati, molto più chiaro che per ogni precedente generazione di cristiani. (Gaalyah Cornfeld, ed., The Historical Jesus. A Scholarly View of the Man and His World, 1982). Si può dire che questi cambiamenti, in questi tre campi, non sono transitori, ma veramente storici e ci costringono a riconcettualizzare questioni con vaste implicazioni, come ad esempio il fondamento dell’Europa culturale, il funzionamento dello stato democratico, il rapporto tra scienza e filosofia, da una parte e la religione dall’altra parte, così come ci aiutano ad affrontare nuove sfide, come la difesa di alcuni valori stabili di fronte all’ondata del relativismo e la difesa dell’identità umana contro gli attacchi del naturalismo delle biotecnologie.

Separazione tra religione e stato: una discussione aperta

Oggi almeno tre serie di fatti storici ci obbligano a mettere in discussione la relazione consacrata dalla tesi della separazione tra religione e stato. Penso alle seguenti questioni: a) uno Stato che si proclama neutrale rispetto alle convinzioni dei cittadini (comprese quelle religiose) non può impedire loro di agire secondo le loro convinzioni e non rimane liberale se non consente loro l’espressione in quanto cittadini che hanno determinate convinzioni (incluse quelle religiose); b) le democrazie sono sostenibili solo a patto che dispongano di risorse culturali che sono generate, per mezzo della morale,  dalle tradizioni religiose; c) in nome della religione, si intraprendono azioni politiche, alcune positive (come ad esempio lo sviluppo democratico), altre negative (come il terrorismo). Tutti questi fatti rendono difficile la tesi consacrata della separazione tra religione e stato. Vediamo qualche dettaglio.

Riguardo al punto a). Quando in una società coesistono molteplici concezioni, incluse quelle religiose, i cittadini fanno ricorso regolarmente a due «strategie» - «l’esternalizzazione» di una concezione, da parte del cittadino, a scapito della concezione dell’altro cittadino, oppure «l’internalizzazione», cioè considerare la concezione dell’altro come una che può essere assorbita dalla propria concezione. Ma (si veda Mathias Jung, Erfahrung und Artikulation. Zur Unhintergehbarkeit religiöser Pluralität, in Klaus Dethloff, Ludwig Nagl, Friedrich Wolfram, Hrsg., op. cit.) gli atteggiamenti religiosi vengono articolati in relazione alla realtà nel suo insieme. Mentre l’atteggiamento scientifico si promuove alla terza persona, quello religioso viene promosso alla prima persona. «Le convinzioni» e le pratiche religiose sono, da una parte, espressive e individualizzatrici: in esse vengono articolate le più forti e profonde valorizzazioni individuali di un essere umano, quegli atteggiamenti formativi per la  comprensione di se stesso, che sono strettamente collegati al suo accesso specifico al mondo. D’altra parte, queste sono proposizionali e universalistiche: esse hanno un contenuto che trascende l’individuo, pretendono di dire qualcosa sulla realtà nel suo insieme e vogliono – almeno nel caso della maggior parte delle grandi religioni – essere valide per tutte le persone» (p. 127). Così stando le cose, il pluralismo delle opinioni, comprese quelle religiose, deve essere preso sul serio: esso deve essere affrontato come «espressività» e «individualizzazione» e quindi richiede la presa in considerazione dei simboli religiosi.
Di conseguenza nessun cittadino – né il cittadino secolarizzato, né quello religioso, né quello che condivide una religione e neanche quello che condivide un’altra religione – è esente dall’obbligo di giustificare, in termini ragionevolmente accettati dalla convivenza nella società, le sue frasi, le sue azioni, così come neanche lo stato fondato su libertà individuali può legittimamente fermare l’espressione ragionevole di ogni cittadino, anche sotto l’aspetto religioso. Habermas aveva ragione ad attirare l’attenzione che le aspettative dello stato nei confronti dei cittadini «lavorano in vuoto (laufen ins Leere)» se non si garantisce la «reciprocità delle aspettative» (p. 142). Ogni uscita dalla regola della reciprocità è controproducente. «Finché il cittadino secolarizzato è convinto che le tradizioni e le comunità religiose sono alquanto arcaiche, relitto entrato nel presente dalle società moderne, loro intendono la libertà religiosa solo come culturale protezione naturale per specie moribonde. Dal loro punto di vista, la religione non ha più alcuna giustificazione intrinseca. E il principio della separazione tra stato e religione può avere solo il senso laicista di un indifferentismo soddisfatto. (schonenden)» (p. 145). Ritornare alla regola della reciprocità, contenuta, esplicitamente o tacitamente, nei principi stessi della costruzione democratica dello stato liberale di diritto, oggi è più attuale che mai.
Può rimanere lo stato neutrale rispetto alle concezioni dei cittadini? Si è giustamente osservato che lo stato non era mai stato neutrale rispetto a qualsiasi concezione pronunciata dai cittadini e non può essere neutrale in tutte le condizioni. A volte lo stato democratico ha voluto essere neutrale, ha tollerato concezioni che lo distruggevano e ha pagato caro tale «neutralità». In genere lo stato non può rimanere democratico se non s’interessa di ogni cittadino, compreso il destino della minoranza di qualsiasi natura (politica,etica, ecc.). Lo stato rimane il seguace della tolleranza, ma esso deve collegare la tolleranza alla verità (come Rino Fisichella dice benissimo nell’Identità dissolta..., p. 69). D’altro canto, sarebbe opportuno rivedere il significato originario di «laicità» che viene attribuito allo stato dai sempre seguaci della separazione tra stato e religione.
Bisogna osservare che «la “laicità” non è stata originariamente pensata come opposizione aprioristica a qualsiasi concezione religiosa, bensì, almeno all’alba dell’età moderna, come la ricerca, libera dai pregiudizi, della “verità”. Come si è recentemente detto, la “laicità” indica un modo di riflessione, di analisi e di produzione delle idee e dei contenuti»  (p. 66). Laicità vuol dire indipendenza delle correnti di fede, ma non necessariamente opposizione alla fede.

Riguardo al punto b). Si è potuto osservare in molti momenti storici quanto la democratizzazione ed il funzionamento delle democrazie dipendevano dalle risorse culturali. Ho parlato in un libro sulla «svolta culturale» delle società della tarda modernità e ho indicato la dipendenza politica ed economica dalla cultura (si veda Andrei Marga, Kulturelle Wende. Philosophische Konsequenzen der Transformation, pp. 195-224). Qui voglio sottolineare un solo aspetto: la democrazia diventa democratura  quando le risorse culturali che alimentano l’autostima, la fiducia nella regola della reciprocità, il rispetto per gli altri, la solidarietà in nome di un destino comune sono carenti.
Il problema è stato osservato sotto altri aspetti veramente profondi. Habermas, per esempio, ha ridimostrato (più recentemente in Ein Bewusstsein von dem, was fehlt, 2007) che la «ragione», così come si concepiva in epoca moderna, come una eminentemente proceduralista, ha una «tendenza disfattista immanente»‚ (in Knut Wenzel, Hg., Die Religionen und die Vernunft, p. 47). Il filosofo attira l’attenzione sul fatto che insieme alla separazione tra stato e chiesa, politica e religione sono rimaste delle incertezze riguardanti il rapporto tra «la ragione secolare» e «la religione», anche se infatti «c’è una dialettica specifica» tra «l’autocomprensione illuminata della modernità e la comprensione di sé teologica delle religioni universali» (p. 48). Habermas parla oggi con forti argomenti della «complementarietà (Komplementarität)» delle due forme della coscienza e del bisogno che in entrambe abbiano luogo «processi di apprendimento (Lernprozesse)», dopo che le «sintesi» tradizionali della fede e della conoscenza, messe in moto da Agostino a Tommaso,  il vincolo del Gerusalemme e Atene si sono rotte. Oggi «il disfattismo immanente della ragione secolare è un grave problema che incontriamo tanto nelle affilature che vengono impresse sulle specializzazioni in scienze sociali e nella filosofia dei momenti della dialettica dell’Illuminismo», quanto nel naturalismo che si diffonde nelle scienze naturali. «Se però si mettono in moto processi di apprendimento simili nei quadri del mondo religioso e metafisico, allora entrambi i modi, la fede e la conoscenza, con le loro tradizioni originate a Gerusalemme e ad Atene, appartengono alla storia della formazione della ragione secolare, nel cui ambito s’intendono oggi i figli e le figlie della modernità su se stessi e sul loro posto nel mondo. Questa ragione moderna imparerà a comprendersi solo se chiarisce il suo posto relativo alla coscienza religiosa contemporanea diventata riflessiva...» (p. 50). La religione deve accettare l’autorità cognitiva della scienza, ma la scienza deve capire la circostanza che nella sua propria creazione la religione ha giocato un ruolo. Inoltre, da parte della teologia diventata riflessiva, la ragione secolare riceve oggi (si veda la discussione sulla motivazione democratica) impulsi fertili.
«La politica universale» in grado di garantire diritti e libertà uguali per tutti i membri di una società, rimane sempre indispensabile. Essa presuppone la convergenza degli interessi in nome delle regole che si lasciano universalizzare. Quello che è diventato chiaro nel frattempo è che «non è possibile costruire un modello appropriato di politica universale “neutralizzando” le visioni, sostantive, in particolare quelle religiose» (Angelo Scola, Buone ragioni per la vita in comune..., p. 16). Di conseguenza diventa necessario uno stato che assicura «in forma adeguata una società civile di natura plurale» al posto di uno stato «allontanato», anonimizzato e ignaro delle tradizioni di approccio umano. Con questo non s’intende un nuovo «stato confessionale», bensì «una nuova laicità» – cioè una nuova ricerca delle convergenze, al posto della separazione divenuta, nel frattempo, e non convincente, e anacronistica e rigida.
Prendiamo il tema della separazione nella formulazione divenuta classica della Costituzione francese: la repubblica (lo stato) è «laïque, démocratique et sociale. Elle assure l'égalité devant la loi de tous les citoyens, sans distinction d'origine, de race ou de religion. Elle respecte toutes les croyances». Questa tesi ha meriti che non possono essere ragionevolmente contestati: ogni concezione religiosa ha il diritto di esistere e la sua condivisione non può essere limitata da alcunché. Così come nessuno, nessuna forza al mondo può controllare tutte le opinioni della gente, come diceva Charles S. Peirce, allo stesso modo nessuno Stato può influenzare le convinzioni religiose delle persone. Il progetto «dell’umanesimo secolarizzato» di Paul Kurtz è solo uno degli errori che si verificano nell’età...delle informazioni, delle opinioni, delle soggettività, dal momento che non ha un supporto oggettivo. La religione rimane parte indispensabile dei singoli progetti di vita. Hanno bisogno di religione non solo i singoli progetti di vita, ma anche le società.
Non disponiamo neppure oggi di cinture di collegamento per le società umane più forti e più durevoli della religione. Il giovane Hegel, o il sociologo Durkheim, come molti altri (più recentemente Heidegger) hanno compreso la natura dei legami che provengono dalla religione per la costituzione di una società degna dell’uomo. Infatti i valori di reciprocità e di rispetto di sé e degli altri, che sono i presupposti della democrazia, non sono  possibili senza i valori derivanti dalla religione giudaico-cristiana, all’interno della quale si è formata la civiltà in cui viviamo. Per questo motivo generale non si può dire che lo stato è separato dalla religione, ma solo che lo stato non favorisce una religione piuttosto che un’altra, bensì permette la libera espressione religiosa delle persone.

Non possiamo dire che lo stato è separato dalla religione neanche da un altro punto di vista: in alcuni casi, proprio i cambiamenti dello stato verso la democratizzazione sono l’effetto di movimenti nati sotto il segno dell’ispirazione religiosa (come nel periodo 1980-1989 in Polonia e in altri paesi). La separazione postulata tra stato e religione non è stata confermata. Questa separazione non è stata confermata neppure sotto un altro aspetto: in nome della religione (vedi l’Islam) è avvenuto l’attacco di alcuni stati prima e dopo il 2001. Non ignoro la necessità di una discussione dettagliata sul coinvolgimento delle religioni nella alimentazione del terrorismo: l’Islam non è l’unica religione che ha alimentato il terrorismo e ogni religione ha risorse per separarsi dal terrorismo. L’ebraismo e il cristianesimo hanno attraversato un processo di razionalizzazione che le ha fatte diventare delle forze di grande peso nel veicolare i processi di democratizzazione. Tali processi sono da attendersi da parte di qualsiasi religione del mondo che vuole giocare un ruolo nel processo della democratizzazione. Ma lo stato non può essere indifferente alla religione praticata dal momento che questa alimenta il terrorismo e non si può separare dalla religione nella maniera rivendicata dalla tesi della separazione. In realtà, la tesi della separazione tra religione e politica può ancora funzionare solo come una indicazione di azione nelle condizioni in cui il cittadino secolarizzato e il cittadino religioso accettano di pretendere reciprocamente ragioni giustificative per le loro azioni e le producono.

Voglio trarre, nella formula più semplice possibile, una eventuale conclusione. Josè Casanova aveva ragione di affermare, nel 1996, che «das Problem des Verhältnisses von Religion und Politik lägt nicht einfach auf die Frage der verfassungsmäßig klar abgegrenzten Trennung von Kirche und Staat reduzieren. Gewiss ist diese Trennung unerläplich, um sicherzustellen Einmischung, der Staat frei von religiöser Bevormundung und die persönliche Gewissenfreiheit gegenüber beiden, Staat wie organisierter Religion, frei ist. Dach folgt daraus nicht, daß die Religion notwendig zur Privatangelegenheit werden muß, um diese Freiheiten zu garantieren» (pp. 188-189). Ma il noto analista si sbaglia quando crede che lo stato democratico liberale non potrà funzionare senza limitare la religione a fatto privato. Pertanto la sua conclusione – «Religion hat eine Privatsache zu bleiben» (p. 189) – non si può sostenere alla luce dei ragionamenti fin qui esposti. Infatti, la conclusione di Marc Lambert – quella che «l’adoption d’une sisteme pudique en la matière n’a pas semblé non plus satisfainte à nombre des partenaires de la reflexion»,  è quella che si tenta oggi nell’Europa alla ricerca di fondamenti culturali e di riferimento alla sua eredità definitoria giudaico-cristiana, e che dovrebbe mettere in movimento tutti gli spiriti attivi di oggi.


Andrei Marga
(n. 6, giugno 2013, anno III)

Bibliografia

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