Ricordare l’orrore: Arcipelago Gulag (I)

Alla metà degli anni Settanta il nome di uno scrittore russo ai insinuò nel dibattito letterario internazionale: Alexandr Solženicyn. La sua opera, il «saggio di inchiesta narrativa» intitolato Arcipelago GULag, si presentava, con le parole dello stesso autore, come «un monumento eretto da amici in memoria di tutti i martoriati e uccisi» nelle mostruose isole concentrazionarie dell’Unione Sovietica.
Lo scrittore ne era testimone diretto; militare coraggioso e pluridecorato, nel febbraio del 1945, mentre combatteva nei pressi del Mar Baltico, era stato arrestato e condannato a otto anni di lavoro forzato e tre di confino per aver formulato una critica a Stalin, contenuta in una lettera indirizzata a un ex compagno di scuola.
Il primo volume della trilogia uscì in Italia nel maggio 1974; nonostante l’ostentata freddezza, i giudizi negativi di matrice ideologica e persino la derisione di alcuni intellettuali (Umberto Eco su tutti), del libro si parlava eccome, ed io, cresciuto in una famiglia anticomunista e catturato dal dibattito sull’argomento, non attesi molto per comprarlo. Intanto, iniziavamo a conoscere meglio la figura dello scrittore e le drammatiche vicissitudini che avevano caratterizzato la sua vita.
Nel 1952, mentre era detenuto in un carcere del Kazakistan settentrionale, fu operato di cancro allo stomaco nell’infermeria del lager; durante i tre anni di confino, trascorsi in parte in un villaggio tartaro, viene nuovamente ricoverato per curare il suo male. Liberato nel 1956, l’anno successivo Solženicyn viene riabilitato e si stabilisce a Riazan, dove insegna matematica nella scuola media superiore. Nel 1962 pubblica Una giornata di Ivan Denisovič, opera in cui riflette la vera realtà dei campi di concentramento comunisti. Il libro fa scalpore, e l’autore acquista improvvisamente un’enorme popolarità. Tuttavia, l’anno seguente il Partito Comunista stringe di nuovo la morsa intorno ai dissidenti; oggetto di una crescente campagna denigratoria, nel maggio 1967 Solženicyn invia una lettera al Presidium del IV Congresso degli Scrittori Sovietici, denunciando la pesante censura politica che impediva agli scrittori di pronunciarsi «sulla vita morale dell’uomo e della società». La risposta è la condanna del nuovo libro di Solženicyn, Divisione cancro, che circolava in copie dattiloscritte; due anni dopo, nel 1969, l’autore viene espulso dall’Unione degli Scrittori.
Il riscatto arriva dal mondo letterario internazionale: nell’ottobre 1970 lo scrittore riceve il Premio Nobel per la letteratura; nel 1971, in Francia, viene pubblicato Agosto 1914 e nel dicembre 1973, sempre in Francia, vede la luce Arcipelago GULag, atto di feroce denuncia del sistema penitenziario creato e organizzato dal regime comunista.
La persecuzione contro lo scrittore si fa asfissiante: la polizia controlla la sua corrispondenza, ne ascolta le conversazioni, gli proibisce l’accesso alle biblioteche, lo accusa pubblicamente di immoralità. Nel febbraio 1974 lo scontro si acuisce; Solženicyn viene arrestato e infine espulso dall’Unione Sovietica.
Non mi sembrava vero di avere fra le mani un libro di quell’importanza, che aveva messo a soqquadro un’intera Nazione. L’inquietante copertina rosso sangue; il titolo misterioso; un brano della quarta di copertina: «questa trascinante fiumana narrativa e documentaria s’impone come un implacabile “j’accuse” corale contro la teorizzazione e la pratica del terrorismo di massa dall’ascesa al potere di Lenin alla lunga autocrazia di Stalin e oltre»; la nota introduttiva: «Un uomo solo non avrebbe potuto creare questo libro», con la precisazione dell’autore di aver utilizzato i racconti, i ricordi, le lettere di 227 ex prigionieri delle “isole” penali.
Io, mia sorella Loretta e altri amici iniziammo una forsennata lettura, e quando accadeva di confrontarci scoprivamo di avere le stesse impressioni: quasi si stentava a credere a tutto quell’orrore. Veniva voglia di incontrare l’autore per fargli mille domande, per ringraziarlo, e intanto un pensiero si insinuava nella testa, quello della fortuna di non essere nati in uno Stato dove aveva prosperato un simile regime, dove le parole libertà, diritto, giustizia, erano state ridotte a pura nomenclatura.
I nostri genitori ci avevano insegnato a metterci nei panni degli altri prima di giudicare; ma mettersi nei panni dei russi al tempo della disumana autocrazia che aveva dominato le loro vite significava domandarsi: «Che cosa avrei fatto io se mi fossi imbattuto in una di quelle palesi ingiustizie, se avessi saputo che i funzionari fucilati da Stalin non avevano commesso alcuna colpa, se mi avessero chiesto di riferire ciò che sapevo su un amico che aveva criticato il regime, o che aveva elogiato i governi democratici, o che aveva difeso il pensiero di uno scrittore occidentale»? Queste le considerazioni che ogni tanto ricorrevano fra me e mia sorella; nell’intimo, ci sentivamo privilegiati per il fatto che il destino ci avesse risparmiato di dover rispondere in una situazione concreta…
A mano a mano che leggevamo, il disegno si faceva sempre più chiaro: l’opera di Solženicyn si profilava come una colossale ricostruzione storica della creazione, dell’organizzazione e del funzionamento delle isole concentrazionarie sovietiche disseminate dalla Russia europea all’isola di Sakhalin, dalla Siberia nord-orientale alle steppe del Kazakistan. Ma soprattutto, cresceva lo stupore nel constatare che una parte rilevante del popolo russo avesse potuto essere torturata, umiliata, annientata da altri russi in nome di un’ideologia che prometteva il bene, l’uguaglianza, la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre, al contrario, seminava il terrore e rinunciava a ogni scrupolo morale, a ogni pietà umana.
Ogni tanto discutevamo dei brani che più ci colpivano, e di uno ho sempre avuto netta memoria, perché vi compariva il nome di Čechov. L’ho ritrovato facilmente nella rilettura di Solženicyn di una quindicina di anni fa: è l’incipit del capitolo intitolato L’istruttoria: «Se agli intellettuali di Čechov, sempre ansiosi di sapere cosa sarebbe avvenuto dopo venti-quarant’anni, avessero risposto che entro quarant’anni ci sarebbe stata in Russia un’istruttoria accompagnata da torture che avrebbero stretto il cranio con un cerchio di ferro, immerso un uomo in un bagno di acidi, tormentato altri, nudi e legati, con formiche e cimici, cacciato nell’ano una bacchetta arroventata su un fornello a petrolio, schiacciato lentamente i testicoli con uno stivale, e, come forma più blanda, suppliziato per settimane con l’insonnia, la sete, percosso fino a ridurre un uomo a polpa insanguinata, non uno dei drammi cechoviani sarebbe giunto alla fine, tutti i protagonisti sarebbero finiti in manicomio».
Quando torniamo ai libri letti in gioventù, può capitare di ritrovarli appassionanti come allora, o un po’ sciupati dal tempo e dal cambiamento avvenuto in noi, o addirittura deludenti al punto di chiedersi: «Ma come ho fatto a parlare in modo entusiasta, e per anni, di questo libro?».
La Recherche di Proust, i racconti di Kafka e di Čechov, le poesie di Emily Dickinson, Pascoli e Leopardi continuano a entusiasmarmi. Non ho mutato parere neppure sull’Ulisse di Joyce, di cui in gioventù parlavo con tutti; è certamente un caposaldo letterario del Novecento, ma come la sua lettura non mi procurò piacere a vent’anni, così non me ne ha dato quando rilessi l’opera anni fa, nell’edizione dei Meridiani.
Quanto ad Arcipelago GULag (l’acronimo sta per Glavnoe Upravlenie Lagerej, Amministrazione generale dei lager), la sua agghiacciante, nuda bellezza non è mutata ai miei occhi, a dispetto di qualche giudizio che tende a sminuirne il valore letterario, o ad accusare l’autore di aver fabbricato alcune menzogne, critica assurda se consideriamo che quando Arcipelago GULag fu pubblicato alcuni dei lager erano ancora esistenti, parecchi testimoni ancora vivi, e molti fatti storici riscontrabili ed eventualmente confutabili.
Sub iudice rimangono invece le cifre riportate da Solženicyn, per esempio quelle relative al numero totale dei prigionieri politici deportati e deceduti; è assodato, infatti, che per una valutazione del genere l’autore non poteva contare su fonti rigorose. Ma è un elemento trascurabile: Arcipelago GULag è il classico libro che tutti dovrebbero conoscere, un’opera che nasce dal bisogno di testimoniare, dove l’autore palpita in ogni riga, spinto dall’esigenza di finalizzare la narrazione alla verità. Il fatto è che uno scrittore offeso nel corpo e nell’animo non può aver riguardo per lo stile, non può sublimare il male che ha vissuto: deve espellerlo, sbatterlo in faccia a chi è alle origini dei torti subìti; così si spiegano alcuni dei brani più crudi e feroci dell’opera.
Nella rilettura, non mi stupivo di aver sottolineato con forza alcune pagine, per esempio quelle, di spaventosa efficacia rappresentativa, dell’Industria carceraria,capitolo iniziale del libro: «L’arresto!! Occorre dire che è lo scompiglio di tutta la vostra vita? Che è un vero fulmine che si abbatte su di voi? Che è uno sconvolgimento spirituale inimmaginabile al quale non tutti possono assuefarsi e che spesso fa scivolare nella follia? L’universo ha tanti centri quanti sono gli esseri viventi che contiene. Ognuno di noi è il centro dell’universo e il creato si spacca quando qualcuno vi sibila: SIETE IN ARRESTO! (…) E voi non troverete altro da rispondere che un belato da agnello: “I-io? Perché?” Ecco cos’è l’arresto: un lampo accecante, una folgorazione che respinge istantaneamente il presente nel passato e fa dell’impossibile un presente di pieno diritto».
La perquisizione della casa dell’arrestato non ha limiti: «Quando fu arrestato il macchinista di locomotive Inošin, la bara di un suo bambino appena morto era nella camera. I GIURISTI gettarono il bambino fuori dalla bara e si misero a cercare anche là dentro».
Come non rimanere sconvolti dalla lettura di Storia delle nostre fognature, il capitolo che riporta la «fiumana» di persone che gonfiarono le «fogne carcerarie» dell’Arcipelago in seguito alle grandi epurazioni degli anni ’29-30, ’37-38 e ’44-46? Già Lenin, osserva Solženicyn, aveva dichiarato di voler «purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi». E tali diventarono gli zemcy, i membri delle cooperative, tutti i proprietari di case, molti fra gli insegnanti ginnasiali, i membri dei consigli parrocchiali, i sacerdoti, i monaci e le monache, i tolstojani che accettando un impiego con i soviet «non prestavano giuramento scritto di difendere il potere sovietico con le armi in pugno», i socialisti rivoluzionari, i menscevichi, gli anarchici, i membri della piccola nobiltà, molti intellettuali e ingegneri, i kulaki e i contadini riluttanti a far parte di un kolchoz, i nazionalisti delle regioni baltiche, e in genere chiunque fosse accusato di aver infranto il famigerato art. 58 del Codice Penale in vigore dal 1926, diretto a reprimere ogni “attività controrivoluzionaria” e concepito con una tale ampiezza che, scrive l’autore, «non v’è trasgressione, pensiero, azione o inazione sotto il sole che non possa essere punita dalla mano dell’articolo cinquantotto».
Un altro passo – anch’esso ben evidenziato – non avevo dimenticato, perché oscilla tra il macabro e il grottesco. È quello dell’applauso per Stalin, che qui condenso cercando di serbare il più possibile le parole originarie.
Nella regione di Mosca si sta svolgendo una conferenza di partito, diretta dal nuovo segretario del comitato rionale. Alla fine dei lavori viene approvato un messaggio di fedeltà a Stalin. Naturalmente tutti si alzano in piedi e la sala si riempie di una tempesta di applausi. Tre minuti, quattro minuti, cinque minuti di chiassose ovazioni. Ma intanto le palme cominciano a indolenzirsi, le braccia alzate a formicolare, nei più anziani monta un certo affanno; però, chi oserà smettere per primo? Lo potrebbe fare il neo segretario del comitato rionale, che è in piedi sul podio, ma ha paura, perché in sala sono presenti alcuni membri dell'NKVD, la Polizia Politica... Gli applausi continuano per 6, 7, 8 minuti; in fondo al locale, nella calca, si può ancora fingere, battere le mani meno frequentemente o con minor forza, ma al tavolo della presidenza, in piena vista, non si può! Nove minuti, dieci minuti! I dirigenti del rione, gettandosi occhiate con residua, finta esultanza, applaudono fino a cadere sfiniti. All'undicesimo minuto il rettore della cartiera, uomo forte e indipendente, assume un'aria indaffarata e decide di sedersi; come per miracolo, tutti cessano di applaudire e lo imitano. Sono salvi! «Lo scoiattolo», scrive l’autore, «ha saputo schizzare fuori dalla gabbia con la ruota che gira! Tuttavia, proprio così si riconoscono gli uomini indipendenti, e proprio così si tolgono di mezzo. La stessa notte il direttore della cartiera è arrestato. Gli appioppano, per tutt'altro motivo, dieci anni».
Credo che non esista opera dove lo stupore per ciò che viene narrato sia invariabilmente accompagnato dall’incredulità, dalla riprovazione e dalla pena. Impossibile non dolersi nel leggere il brano allucinante e amarissimo dove l’autore mostra come qualsiasi risorsa intellettuale sia inservibile nel regno dell’ingiustizia e della menzogna. Solženicyn riproduce l’impari duello, che paragona al gioco del gatto col topo, fra il giudice istruttore e l’accusato, un’atroce schermaglia verbale in cui, paradossalmente, gli intellettuali si trovano in una posizione di svantaggio rispetto ad altri soggetti. «È proprio così», leggiamo, «un intellettuale non sa rispondere con la deliziosa incoerenza di un “malfattore” čechoviano. Cercherà immancabilmente di ricostruire tutta la storia di cui è accusato nella maniera più falsa, ma coerente. Ma l'istruttore-macellaio non cerca la coerenza, cerca soltanto due o tre brevi frasi. Lui sa benissimo cosa vuole. Noi invece siamo totalmente impreparati. Fin dall'adolescenza ci istruiscono e ci preparano per la nostra specialità: i doveri del cittadino, il servizio militare, la cura del proprio corpo, un comportamento decente, perfino qualche “cognizione del bello” (a dire il vero, non troppa). Ma né l'istruzione né l'educazione né l'esperienza ci preparano minimamente alla prova più temibile della nostra vita: l'arresto per nessuna colpa e l'istruttoria basata sul nulla».
Basata sul nulla… E tuttavia, precisa Solženicyn, incredibilmente densa di procedimenti atti a stroncare la volontà e la personalità del detenuto. I metodi psicologici e fisici annoveravano le notti, perché strappato al sonno il detenuto diventava più arrendevole; gli strategici voltafaccia, ovvero passare dalla cortesia all’improvvisa minaccia di ficcargli una pallottola nella nuca; le umiliazioni preventive, come costringere i prigionieri a sdraiarsi bocconi per ore senza alzare la testa o emettere un suono; la menzogna, per esempio mostrare un documento con firme falsificate di parenti e amici; la viltà di giocare sull’affetto per i familiari (una delle intimidazioni più efficaci) come accadde al tataro che aveva sopportato ogni supplizio, ma non resse quando il giudice istruttore minacciò di arrestargli la figlia e di metterla in cella con delle sifilitiche. O ancora, costringere il detenuto a stare in ginocchio, con la schiena eretta, per 12, 24 o 48 ore, o a sedere su uno sgabello in modo che non potesse né appoggiarvisi, né dormire né cadere, o in piedi in una nicchia senza poter fare alcun movimento, o mettere il malcapitato, denudato, in una buca piena di cimici pronte a succhiargli il sangue, o prenderlo per fame, o picchiarlo su ossa, articolazioni, plesso solare, testicoli…
In un crescendo spaventoso, Solženicyn passa in rassegna i primi processi celebrati sotto il regime bolscevico, come il Processo ecclesiastico di Mosca tenutosi fra il 26 aprile e il 7 maggio 1922. Scrive l’autore: «L’arciprete A.N. Zaozerskij AVEVA CONSEGNATO TUTTI I PREZIOSI DELLA SUA CHIESA, ma per principio difendeva l’appello del Patriarca, ritenendo sacrilega la confisca fatta con violenza. Diventa la figura centrale del processo e sarà subito FUCILATO».
Il capitolo intitolato Alla misura suprema è la trattazione della pena di morte, più volte abolita e poi ripristinata dal Governo sovietico. Rientrata in vigore nel 1927 per delitti contro lo Stato e l’apparato militare, e per il banditismo (vasta categoria in cui rientrava persino chi nel lager si ribellava) fu «accanitamente applicata» negli anni 1932-33 nei confronti di persone comuni e per i fatti più banali. «Per esempio», scrive Solženicyn, «vi erano i sei kolchoziani dei pressi di Carskoe Selo, colpevoli di essere tornati sul campo, già falciato (dalle stesse loro mani), per falciare altra erba per le proprie mucche. NESSUNO DEI SEI CONTADINI FU GRAZIATO DAL COMITATO ESECUTIVO CENTRALE, LA SENTENZA FU ESEGUITA.»
Nella descrizione di Solzenicyn, tutte le fasi successive all’arresto si colorano di tetri scenari. Per raggiungere le migliaia di isole penali venivano utilizzate navi d’acciaio, cellulari e altri convogli, tutti rigorosamente blindati. Nelle famigerate prigioni di transito, dove accadeva di essere stipati venti volte più del previsto, c’era carenza di buglioli, per cui si veniva accompagnati alle latrine una sola volta nelle ventiquattr’ore. È in questi luoghi che signoreggiavano i pridurki, criminali che sorvegliavano la disciplina a modo loro. In un brano inserito nel capitolo I porti dell’Arcipelago, il tono grottesco, affiancato alla brutale realtà, raggiunge il suo acme: «Ci perquisiscono invece dei carcerieri, e prima della perquisizione propongono di lasciar loro il denaro in custodia, compilano con tutta serietà un elenco, e addio soldi! “Abbiamo consegnato il denaro”. “A chi?”, si meraviglia l’ufficiale appena venuto. “C’era uno, qui…”. “Chi precisamente?” Nessuno dei pridurki ha visto nulla. “Perché glielo avete consegnato?” “Pensavamo…”. “Pensava anche il tacchino! Bisogna pensare meno!” Basta. Quelli ci propongono di lasciare gli abiti nell’ingresso della sauna. “Non ve li tocca nessuno, che ne farebbero?”. Li lasciamo, e nemmeno si possono portare nella sauna. Torniamo: mancano i maglioni, mancano i guanti di pelliccia. “Com’era il maglione?” “Grigio”. “Allora è andato a lavarsi”».
È in questo clima, dove nulla ha un ordine e una giustificazione, dove non esiste moralità, dove tutto appare assurdo, che Solženicyn scopre amaramente che anch’egli può macchiarsi di azioni codarde e ingiuste. Succede nella stazione di transito di Presnja. In cella, al detenuto Solženicyn tocca un posto sotto i pancacci, raggiungibile solo strisciando sul pavimento di asfalto. All’improvviso, nella penombra, avanzano «come tanti grossi ratti» dei ragazzi minorenni condannati per furto, che si avventano sui sacchetti di cibarie e li sottraggono ai detenuti, sdraiati e incapaci di reagire. Solženicyn, alzatosi, guarda il pachan, il maggiore dei ragazzi, al quale sono stati consegnati i sacchetti, e gli dice che avendogli tolto la sua razione di cibo, potrebbe almeno fargli posto sul pancaccio. Il pachan è d’accordo, si appropria definitivamente del lardo e intima a due detenuti di cedere il pancaccio vicino alla finestra; quelli obbediscono docilmente e Solženicyn e compagni prendono il loro posto. La consapevolezza della slealtà del gesto si fa strada più tardi: «Soltanto verso sera giunge a noi il sussurrio di rimprovero dei vicini: come abbiamo potuto chiedere protezione ai criminali e cacciare due dei nostri sotto i pancacci in nostra vece? E soltanto allora mi trafigge la consapevolezza della mia viltà, e mi copro di rossore (e arrossirò per molti anni a venire nel ricordarlo). Gli insignificanti detenuti sui pancacci inferiori erano i miei fratelli, 58-1-b, erano stati prigionieri. Quanto tempo è passato da quando avevo giurato di accettare come mio il loro destino?»
Così il GULag deformava anche gli individui più onesti, e questo perché, come rivela a Solženicyn un detenuto speciale, «nel lager ognuno cercherà di ingannarvi e derubarvi. (…) Bisogna pagare per tutto. Se vi offrono qualcosa disinteressatamente, sappiate che è un trucco, una provocazione. Cosa essenziale: evitate i lavori comuni (…) Vi lavora circa l’ottanta per cento dei detenuti. E crepano tutti. Fino all’ultimo».




Armando Santarelli
(n. 9, settembre 2024, anno XIV)