Il sentimento della morte nella poesia di Eminescu

Penso che non ci sia opera poetica più indagata, nella letteratura romena, di quella di Mihai Eminescu (1850-1889). Il perché è ovvio: Eminescu è assurto alla dignità di poeta nazionale, è il letterato romeno più conosciuto e amato. Inoltre, la sua produzione abbraccia più generi, e presenta, per alcune opere, una certa difficoltà di interpretazione. Perciò, l’apparato critico riguardante il poeta di Ipoteşti – nel quale assumono particolare importanza l’ormai classica monografia in cinque volumi di George Călinescu e, sul piano filologico, il lavoro sfociato nella cosiddetta edizione accademica – è copioso, e credo che poche siano le zone rimaste oscure ai suoi tanti e autorevoli esegeti.
Non diciamo nulla di nuovo quando individuiamo nell’amore per la donna, nella visione cosmica, nel patrimonio spirituale e folclorico del popolo romeno, nella natura come unica dispensatrice di pace, i topoi più ricorrenti nell’opera poetica di Eminescu.
Qui vogliamo trattare di un altro dei motivi di fondo della sua poesia: il sentimento della morte. Sentimento e non senso della morte, come pure si poteva concepire. Infatti, la morte costituisce nella produzione letteraria di Eminescu una presenza costante e angosciosa, vissuta con la stessa intensità e profondità con le quali il poeta canta i temi prima indicati.
In un noto passo degli Scritti di Estetica, Charles Baudelaire (1821-1867) osservava: «Per penetrare l’anima di un poeta, o perlomeno la sua principale preoccupazione, cerchiamo nelle sue opere quali siano le parole che ricorrono più di frequente». Se ciò è vero, l’incessante presenza della parola «morte» nelle poesie giovanili come in quelle della maturità, non lascia dubbi sulla pervasività di questo sentimento nell’animo di Eminescu.

È d’obbligo una premessa: pur avendo letto tutte le poesie di Eminescu tradotte in italiano, la monumentale monografia Mihai Eminescu o dell’Assoluto (1963) di Rosa Del Conte, e le pagine antologiche e critiche di alcuni dei più autorevoli eminescologi italiani, chi scrive non ha effettuato un confronto con l’esegesi romena, e dunque con gli studi che partendo da Titu Liviu Maiorescu arrivano a Ion Negoițescu, Ioana Em. Petrescu, Nicolae Manolescu, George Gană, Pompiliu Crăciunescu, Ioana Both Bican e altri; di conseguenza, questo contributo non può certamente ambire al rango di studio critico.
Sempre nella consapevolezza di esprimere un punto di vista eminentemente soggettivo, e volutamente agile, ho evitato di utilizzare le note a piè di pagina e non ho redatto una bibliografia, preferendo inserire nel testo i riferimenti agli autori e ai brani citati. Quanto alla versione italiana delle poesie, mi sono avvalso, in prevalenza, di quella di Ramiro Ortiz; quasi inutile aggiungere che l’opera di Eminescu attende, oggi, una nuova e più moderna traduzione nella lingua italiana.
Un’ultima precisazione: il sentimento della morte è presente nell’opera di moltissimi letterati di ogni tempo, e dei romantici in particolare. Per ovvie ragioni, in questo scritto mi sono limitato al confronto fra Eminescu e alcuni dei poeti che più si sono soffermati sul tema in argomento.

Parlando della morte in Eminescu, credo sia incontestabile che ci troviamo dinanzi ad un sentimento inseparabile dallo spirito e dalla travagliata esistenza del poeta; l’opera del genio romeno è il riflesso della storia di un’anima pervasa da un profondo malessere esistenziale, un’anima in perenne dissidio fra l’adesione alla vita e un’inesorabile consapevolezza della sua precarietà e finitezza. Vale, per Eminescu, ciò che scrisse Ugo Foscolo a proposito della sua giovinezza: «Io soffrivo la mestizia sin da fanciullo; la sventura, le riflessioni e le passioni l’hanno resa in me natura».
Non volendo perderci nell’annosa questione di quanto la biografia influisca nell’opera di un letterato, ci limitiamo ad un’osservazione che appare inoppugnabile: la vita di Eminescu rivela che l’equilibrio, la stabilità (intesa in ogni senso, da quello professionale a quello sentimentale) non si addicevano alla sua natura. Esprimendo un paradosso, è come se egli intuisse che un’esistenza sicura e tranquilla avrebbe sottratto alla sua poesia i temi forti e drammatici che ne costituiscono, insieme alla musicalità e alla padronanza del verso, la principale caratteristica. Non sono certo rari i momenti in cui la poesia di Eminescu si distende in note delicate, luminose, intrise di puro lirismo; ma persino in alcune di queste composizioni si insinua, come vedremo, il controcanto del dolore, l’incombere del nulla e della morte.
Anima elettivamente poetica, Eminescu, come Wordsworth – il grande poeta romantico inglese – non cerca le sensazioni, perché queste gli giungono naturalmente dal contatto con un mondo che percepisce, almeno originariamente, in senso mistico e panico. Ma questa fusione col tutto, che si riveste ogni tanto di una forte sensualità, è minacciata dal divenire insensato dell’esistenza, dalla finitudine, cui consegue una ricorrente volontà di autoannullamento.
Vedremo come Eminescu assuma la morte quale interlocutrice sin dalla gioventù. Perché? Io credo che si debba partire da un’innata inquietudine, dalla sua indole di ‘irregolare’ per elezione (Del Conte). Quando evita i giochi dei coetanei, quando vaga solitario nelle campagne intorno al suo villaggio (proprio come il giovane Wordsworth), quando fugge dalla scuola (la prima volta nel 1860, dunque a soli dieci anni, la seconda volta a tredici), l’adolescente di Ipoteşti sta già sperimentando le forze ctonie di un animo insofferente e inadattabile. Il dramma di Eminescu ha la sua apertura nelle precoci angosce giovanili e la sua chiusura nelle profonde lacerazioni che sperimenterà nel corso della vita: la perdita degli affetti e della fede, l’infrangersi degli ideali, l’esperienza contrastante dell’amore, che, se nel poeta rimane l’istanza esistenziale più autentica, non mancherà di riservargli cocenti delusioni.
Ma nel continuo dialogo di Eminescu con la morte è possibile rintracciare un’ulteriore motivazione; infatti, come escludere l’influenza dello spirito mioritico e di una tradizione folclorica e mistica in cui si esprime la sintonia con la terra madre, con l’anima dei defunti, e che ritroviamo nell’opera di tanti altri letterati romeni, da Vasile Alecsandri sino a Nichita Stănescu?
Invero, nel processo che vede il sentimento della morte irrompere nella sua opera, Eminescu non paga nessun tributo al Romanticismo; questo tema appare un destino già nelle composizioni più precoci. Nella sua prima poesia, composta nel gennaio 1866, a soli sedici anni, non è il mondo epico (come in Leopardi e in Hölderlin), non è l’amore (come in Byron), non è la lussuriosa descrizione di un’alba (come in Keats) a dettare i versi; lo studente Eminescu vuole commemorare la scomparsa di Aron Pumnul (1818-1866), filologo e storico transilvano che fu suo professore nel liceo di Cernăuţi (oggi Černivci, Ucraina). E’ un esordio profetico: il giovane ha già scoperto che non sono soltanto le religioni a poter dire parole significative sulla morte.
La poesia In morte di Aron Pumnul termina con questi versi:

Prosegui il tuo cammino, e la pietosa lacrima
che versan tutti i giovani sul tuo funereo cippo
ti segua nel tuo volo, fra canti di tristezza,
fra canti risonanti, sospiri armoniosi,
là nell’Eliso.

Il giovanissimo Eminescu vede il poeta come una creatura eroica, e la poesia come fonte di eterna consolazione e salvezza. Lo spirito dei letterati è atteso nell’Eliso, dove le anime elette continuano a coltivare gli studi e le delizie amate nella vita terrena. Ma a dispetto di questa convinzione, e della preziosa eredità culturale lasciata dal professore, la sua anima, nel viaggio verso i Campi Elisi, è accompagnata dalle lacrime e dai canti di tristezza degli alunni. La morte, ammette implicitamente Eminescu, vince sulla nostra capacità di interpretare in senso umanamente favorevole certi accadimenti.
È la prima manifestazione di uno stato d’animo che ritroveremo in molte liriche del poeta. Eminescu guarderà sempre alla morte, la interrogherà e si interrogherà, scoprendo dapprima che essa non ha alcun senso (per esempio in Mortua est!), per poi abbandonarsi a una vera e propria voluttà tanatologica.
Nello stesso anno 1866, sulla rivista Familia di Iosif Vulcan vengono pubblicate le prime poesie di Eminescu (Se avessi…, Viaggio mattinale, Dall’estero, Alla Bucovina, La Speranza). Pur rivelando delle indubbie qualità poetiche, sono più che altro delle esercitazioni giovanili, e lo stesso Eminescu ne è consapevole. Insieme alle prime lodi arrivano alcune, motivate critiche. Ma qui interessa considerare il soggetto di queste opere. E non può non sorprendere trovare più volte il tema della morte nelle poesie di un giovane votato sì ad un’istintiva malinconia, ma capace di aderire impetuosamente alla vita.
In Dall’estero, composta mentre Eminescu si trovava a Vienna, il poeta esprime lo struggente rimpianto della Patria. Vorrebbe rivedere la nativa «valletta bagnata dal cristallo del ruscelletto argenteo», «la tenebria del bosco, poetico labirinto», vorrebbe «salutar solo una volta le capanne della valle dormienti con espressioni di pace». E se potesse tornare nella terra dove sono nati i suoi sogni e i suoi ideali,

Persin la Morte, che terror diffonde fra gli umani
percorrendo vene tremanti dei suoi gelidi brividi,
persin la Morte lì m’addormenterebbe in dolce calma,
e tra sogni di felicità me n’andrei verso le nubi.

Oltre alla morte, compare in questa poesia un altro dei temi ricorrenti nell’opera di Eminescu, cui abbiamo già accennato: la Natura come madre che si offre all’uomo in tutta la sua umile e misteriosa semplicità. La distanza con la concezione che ne ha Leopardi – per il quale la natura è matrigna, empia, una potenza meccanica e fatale che non ha altro scopo se non la trasformazione perenne della materia – è evidente; eppure, l’approdo ultimo dei due poeti sarà lo stesso. Come vedremo, Eminescu arriverà alla conclusione che la liberazione dal dolore si può attingere solo nella morte. È l’esito leopardiano che troviamo nei Pensieri, nelle Operette Morali, in poesie come La quiete dopo la tempesta, Amore e Morte, A se stesso, e, in modo impressionante, nella lettera che chiude l’Epistolario, dove il poeta recanatese arriva ad invocare caldamente il riposo eterno.
E tuttavia, sul tema è ancora possibile rilevare una differenza: in Leopardi l’anelito alla morte è più temperato, più addolcito rispetto ad Eminescu; parallelamente, il pessimismo del romeno appare più costante e malinconico, quando invece nell’ultimo Leopardi il pessimismo ‘cosmico’ si fa ‘agonistico’, un invito alla solidarietà fra gli uomini, a stringersi in un patto fraterno per meglio resistere alle avversità della vita.

Nella poesia dal titolo La Speranza, virtù che il giovane Eminescu esalta perché «leggera conforta il cuor dei mortali», il senso della morte gravita sull’intero canto. Paraninfa del mondo, la Morte appare in una lunga veste nera al recluso in un carcere, ricordandogli che sperando in essa potrà lenire il dolore della privazione della libertà. Ancora, è il terrore della morte a chiamare la speranza nel cuore della madre che stringe al seno il bambino negli spasimi della sofferenza. La morte si insinua persino nell’animo dei virtuosi, perché questi hanno «speranza dolce di ricompensa in cielo, / che fa lor dimenticare della morte lo strazio / e chiude in pace le palpebre».
A questa prima produzione appartiene anche Sogni svaniti. Il giovane poeta è desolato, si rammarica di una vita che «scorre dimentica della sorgente», di una sorte che si trascina «come l’aquila trascina l’ala spezzata». La morte gli ride intorno, gli pare di aver già dimenticato i genitori, la fede, tutto. Ma ecco comparire la poesia, la sola forza capace di esorcizzare la morte e la sua pretesa di distruzione di ogni cosa:

Solo tu mi appari nel caos,
come tra i flutti vela di nave,
come tra le nubi gialla stella,
come faro nella notte nera.

Al cospetto della poesia, della sua «fronte serena come il pensiero di Dio», il poeta non vuole più morire. E se anche Dio lo avesse dimenticato, e per la sua anima non ci fosse più posto fra i mortali,

voglio, quando trasporteran gli angeli
l’ombra mia pallida al bianco monte,
che sii tu a posar la corona sulla mia fronte morta,
e ad appoggiar la lira al capezzale!

Evidenti sono le note ideali inserite in questa composizione. Ma Sogni svaniti ha già iniziato a tracciare il solco nel quale si incanalerà tanta parte della sua opera; la lirica rappresenta una delle prime rivelazioni del sostrato pessimistico del poeta, e contribuisce a confermare il giudizio di Rosa Del Conte, quando afferma che il pessimismo di Eminescu non origina da un ripiegamento meditativo, ma dalla sua eccezionale sensibilità.
Nel giugno 1867, sempre su Familia, viene pubblicata la poesia dedicata a Ion Heliade Rădulescu (1802-1872), insigne letterato, poeta, linguista, filologo, accademico di Romania e uomo politico. In quest’opera, l’accostamento fra la morte e la possibilità di redenzione donata dalla creazione artistica è palese. Ecco i versi che chiudono la poesia:

Tale il tuo canto suona, o vecchio Heliade,
qual suona la profezia di un Geremia
come infuria un uragano, volando di nembo in nembo.
Vorrei pregare Erato di darmi il tuo canto, o bardo,
se non tutta la mia vita, almeno in morte.
Ch’io canti la tua Maledizione… ch’io la canti e muoia.

Consapevole della grandezza di Rădulescu, Eminescu prega la musa della poesia di donargli l’ispirazione del letterato valacco almeno in articulo mortis, affinché conosca le altezze della creazione artistica. Dopo può anche morire: se la morte comporta il disfacimento del nostro corpo, il canto poetico ci sopravvive.
Siamo ancora nella fase esistenziale e creativa in cui Eminescu si concede una difesa possibile contro la morte. Ancora qualche anno e i suoi versi esprimeranno la convinzione che nessuna forza è in grado di misurarsi con la potenza distruttiva della morte.

Nel 1871 Eminescu compone Mortua est!, poesia che porta nel titolo il triste destino della morte di una fanciulla. Per Rosa Del Conte, questa composizione costituisce «la più alta espressione lirica mai raggiunta nel campo della meditazione elegiaca sul tema della morte precoce». La letterata italiana ne esalta le metafore, grazie alle quali la trasfigurazione delle immagini appare totale e le emozioni profondamente interiorizzate. Che le capacità espressive e il magistero poetico di Eminescu si situino qui ad un livello superiore rispetto a precedenti composizioni è fuori discussione; tuttavia, a versi in cui l’immagine terrifica della morte è resa in modo artisticamente perfetto, si alternano altri che a nostro parere appaiono un po’ artificiosi:

Qual lampada votiva su umidi sepolcri,
qual tocco di campana nelle ore sante,
qual sogno che bagna l’ala nel dolore,
così tu hai varcato i confini del mondo.

(…)

Vedo il candido
tuo spirto come passa per l’aria.
Guardo poi il tuo frale rimasto bianco e freddo,
steso nel feretro con la sua veste lunga,
guardo il tuo sorriso rimasto vivo ancora,

e domando al mio spirito ferito dal dubbio:
Perché sei morta, angelo dal candido viso?
Non fosti tu giovane? Non fosti tu bella?
O sei morta per spegnere una radiosa stella?

(…)

Oh, che la morte è un caos, un mare di stelle,
mentre la vita è una palude di sogni ribelli;
oh, che la morte è un secolo fiorito di soli,
mentre la vita è una fola arida e banale!

Ma forse… o cervello mio vuoto in preda all’uragano,
i pensieri miei cattivi soffocano i buoni…
quando i soli si spengono e cadono le stelle,
son tentato di credere che tutto è il nulla.

(…)

Ed allora, se così fosse… allora in eterno
Il tuo caldo respiro non tornerà a spirare,
allora la voce tua dolce è morta in eterno,
allora quest’angelo qui non era che argilla!

Eppure, o argilla bella e morta,
alla tua bara appoggio la mia arpa infranta,
e non piango la tua morte, ma ancora felicito
un raggio fuggito dal caos del mondo.

E poi chi sa qual sia meglio:
essere o non essere?... Ma tutti sanno
che ciò che non è non soffre dolore –
e molti sono i dolori, pochi i piaceri!

Essere? Follia triste e vuota:
l’orecchio ti mente e l’occhio ti inganna:
ciò che un secol proclama, un altro lo nega.
Piuttosto che un sogno insipido, oh, meglio il nulla!

Vedo sogni incarnati incalzare altri sogni,
finché cadon in sepolcri che aspettano aperti;
e non so in che cosa annegare il mio pensiero:
ridere come i pazzi? Bestemmiare? Piangere?

A che?... O non è follia ogni cosa?
La tua morte, angelo pallido, ha un senso?
C’è un senso nel mondo? Tu, volto sorridente,
sei forse vissuta solo per morire?

Se tutto ciò ha un senso, esso è a rovescio ed ateo;
sulla tua fronte pallida non vedo scritto: Dio.

Eminescu non è un poeta realista, ma questa lirica è di un realismo spietato. Nei versi Vedo sogni incarnati incalzare altri sogni, / finché cadon in sepolcri che aspettano aperti, vediamo infrangersi gli ideali, le illusioni, la stessa poesia: l’arte non è la soluzione dei mali del mondo e della coscienza.
Basil Munteanu, nell’ormai classica Storia della Letteratura Romena Moderna (1947), commenta: «Perché ha vissuto, se ha dovuto morire? Se almeno ci fosse concessa la speranza di un aldilà dove la morte fosse regina! Ma il cielo stesso forse si ridurrà in rovine. Passando così di volta in volta dalla speranza alla negazione, il poeta non comprende più niente, né la vita né il nulla, e neppure se debba riderne o piangere o maledire. E da queste tenebre si levano i gridi profondi della disperazione universale».
Dunque, è così ingiusta la scomparsa di chi muore nel fiore degli anni, che il poeta è tentato di credere che nessun alito divino sia stato infuso nell’argilla da cui siamo nati e che il nulla sia meglio di qualsiasi insipido sogno umano.
Anche Leopardi e Novalis hanno potuto vedere un bene nella morte, che ci libera da una vita colpevole di non adeguarsi ai nostri desideri. Ma la conclusione di Eminescu è più cupa e spietata. Come osserva Rosa Del Conte, il nulla della morte non può costituire una salvezza, non può diventare un senso; e se pure in tutto ciò ci fosse un senso, esso non potrebbe rivelarsi che empio ed assurdo.
Riguardo al verso finale, Eminescu, nella prima stesura della poesia, aveva scritto: Sul tuo livido viso non è scritto Dio. Nella versione definitiva, l’aggettivo livido è sostituito da pallido. Preservando una bellezza che nella morte non ha più senso, Eminescu annulla anche l’ultima speranza di consolazione, arrivando alla negazione di chi infonde in noi una vita destinata inesorabilmente a cadere. È la morte a vincere, a divorare la nostra umanità, e con essa l’illusione dello spirito divino, e in definitiva Dio stesso.
Eminescu non aderirà mai a una confessione religiosa. Ama il suo popolo e il fondamento morale che lo caratterizza, ma la sua religiosità non andrà oltre una mistica adesione alla spiritualità della Chiesa Ortodossa (cui riconoscerà anche il merito di aver diffuso la dottrina cristiana nell’idioma nazionale). L’Universo, per Eminescu, è una ierofania che il poeta aspira a cogliere in senso metafisico; ma questo Assoluto, come Mortua est ci rivela, è infine inafferrabile e misterioso, è l’arcano dove tutto muore eternamente. Questa poesia segna il momento dal quale il poeta non farà più pace con la morte; e quando scoprirà che essa è l’unica realtà, ne diventerà amico e paladino.

Malinconia (1876) è un’elegia lugubre e disperata. Non ascritta fra le poesie migliori di Eminescu, è invece, a parere di chi scrive, un gioiello che conserva tutto il suo splendore, grazie a una versificazione semplice, ma carica di suggestioni. L’ambientazione cimiteriale e il senso di tristezza che aleggia in ogni verso hanno portato alcuni commentatori ad accostarla alla notissima Elegy written in a country churchyard di Thomas Gray (1716-1771).
Ora, è vero che entrambe le liriche rappresentano una meditazione sul tema della morte, ed entrambe sono intrise di una profonda mestizia; ma il loro senso ultimo è molto diverso.
Paradossalmente, Malinconia di Eminescu è una poesia in cui l’atmosfera è ancor più greve che in Gray, che pure è uno dei principali esponenti di quella che è conosciuta in letteratura col nome di «poesia cimiteriale (o sepolcrale)». Ecco la cupa ambientazione di Eminescu (nella traduzione della poetessa Iuliana Olariu, che ho preferito a quella di Ortiz perché più moderna e musicale):

E il cimitero solo con croci storte veglia,
un gufo bigio su una si sistema;
il campanile scricchia, la toaca contro i pilastri batte,
il diafano demon, mentre per l’aria passa,
il bronzo sfiora con la dentata ala
lasciando dietro un gemito, uno stralunato pianto.
La chiesa in rovina
aspetta pia, triste, logora e deserta,
attraverso le porte e le finestre rotte
sussurra il vento
e par ti streghi, quando il suo insegnamento ascolti.
E dentro, muri,  colonne e icone
perpetuano tristi ombre e fragili figure;
il sacerdote grillo fila un canto fine e oscuro,
il sagrestano tarlo divora il devastato muro.

Qui Eminescu utilizza tutta la simbologia della morte: il cimitero, la tomba, il gufo, il demonio, una chiesa in rovina. Il messaggio della poesia è evidente: il passato, ricco di speranze e di fede nella vita, ristagna in un presente dove tutto è in decomposizione. Il campanile che scricchiola, la chiesa in rovina, le icone scolorite sono il segno dell’irrimediabile rovina del tempo, annunciata dal lamento luttuoso della toaca.

L’Elegia di Gray, invece, si apre con la contemplazione di un paesaggio rurale al crepuscolo, fatto di immagini che emanano sì una lieve malinconia, non disgiunta però da una certa serenità:

La campana della sera annuncia il rintocco del giorno che muore
la mandria che muggisce lentamente si snoda per il pascolo
l’aratore verso casa volge il suo stanco cammino
e lascia il mondo all’oscurità e a me.
Ora si dilegua il paesaggio luccicante alla vista
e tutta l’aia una solenne calma tiene
tranne là dove lo scarabeo rotea il suo volo ronzante
e sonnolenti tintinni cullano i distanti ovili.

Anche quando lo sguardo si posa sul piccolo cimitero, Gray non indugia nelle immagini iconiche della morte:

Sotto quegli ispidi olmi, all’ombra di quel tasso,
dove si solleva la zolla nei tanti tumuli che si sgretolano,
ciascuno nella sua stretta cella per sempre steso
i semplici antenati del villaggio dormono.

Vagando nel cimitero, il poeta si sofferma dinanzi alle tombe della gente che ha abitato il villaggio, ne ricorda la vita, i gesti quotidiani, e implora il passante di concedere il tributo di un sospiro ai resti mortali di quelle umili anime. Sulla tomba di un poeta giovane e sconosciuto, che visse segnato profondamente dalla malinconia, pensa che il Cielo gli abbia infine concesso il riposo cui anelava, mentre il retaggio della vita terrena dimora sicuro nel petto del suo Padre e del suo Dio.
Di tutt’altro tenore e senso è la conclusione della poesia di Eminescu:

Se penso alla mia vita, mi par che essa scorra
narrata in un sussurro da una lontana voce,
come se non fosse la mia vita, come se non ci fossi più.
Chi è costui che ne recita la trama,
che ruba il mio orecchio, e io rido di ciò che sento,
come fossero dolori altrui? A me par d’esser morto da secoli.

È una malinconia che non si affaccia su alcuna consolazione a dominare questa poesia, uno scenario desolante, sopportabile solo quando non si ha più la sensazione della vita. Per il poeta, è come se gli fosse stata estranea, è così lontana e incomprensibile che gli pare d’essere morto da secoli; rimane un vago, sinistro ricordo, narrato da una bocca sconosciuta che il poeta irride perché quello non è più nemmeno il suo dolore, che il nulla ha già assorbito.
I corsi universitari frequentati da Eminescu a Vienna dal 1869 al 1872, e a Berlino negli anni 1872-74, hanno depositato il loro lascito. E’ accertato che le preferenze di Eminescu si indirizzarono verso l’opera di Kant, Hegel, Schopenhauer, e il pensiero dei primi filosofi greci.
Eminescu sa che i greci avevano cercato la salvezza nella verità intesa come epistéme, e sa anche che un tale processo, come insegnano Eschilo ed Eraclito, conduce al polo opposto: è proprio la verità a convincerci dell’evidenza del fluire della vita verso il nulla dal quale proveniamo.
Rimane l’arte, la poesia. Ora, per Eminescu l’arte ha sì un valore gnoseologico, ma non può rappresentare la soluzione del problema di fondo dell’esistenza umana.
È opportuno, qui, fare una breve digressione sul valore che Eminescu attribuisce alla poesia nella vita dello Spirito. All’inizio della sua produzione, Eminescu non nutre dubbi nell’assegnare al poeta una missione eroica. La concezione della poesia come arte evocatrice, magica, come salvezza dalla finitudine emerge, come abbiamo visto, sin dal suo primo componimento, In morte di Aron Pumnul. Successivamente, il pensiero di Eminescu si fa più oscillante. Se in alcune liriche mostra di aderire alla concezione schopenhaueriana dell’arte come consolazione dal dolore e dal tedio della vita, in quelle della maturità artistica notiamo un sensibile allontanamento dalla fede in una poesia animatrice ed eroica.
Per comprendere l’inversione di tendenza, partiamo da un’osservazione di Rosa Del Conte: «Eminescu è poeta di struttura teleologica, ed è un tratto fondamentale della sua psiche questa capacità, oltreché questo bisogno, di ‘vivere e sperimentare in funzione di un fine’».
Il giudizio della studiosa appare giustificato; in effetti, Eminescu si dimostra costantemente proteso ad affermare la prevalenza dell’etico sull’estetico, e ripudia la concezione di un’arte descrittiva e soggettiva. Ma proprio per questo, quando prende coscienza della vanità della vita, quando vede cadere i suoi ideali e la storia gli rivela il suo volto tragico, l’epos mitico ed eroico non trova più lo spazio e l’adesione di un tempo.
L’ultimo Eminescu non si fa più illusioni: se la poesia rappresenta una possibilità di resistere alla distruzione operata dal tempo, essa però fallisce nella pretesa di universalità, nella capacità di dare all’esistenza un senso che questa non ha.

Nella Preghiera di un daco (1879) la morte, intesa come un vero e proprio annichilimento dell’io, incombe dal primo all’ultimo verso. Il poeta, benché solo ventinovenne, ha già eretto un solido recinto pessimistico intorno alla propria vita ferita.
Non c’è studioso di Eminescu che non abbia sentito l’urgenza di esprimere le sue impressioni su questa tragica, disperata poesia. Emil Cioran, nel 1943, scriveva: «Eminescu ha vissuto nell’invocazione del non essere. E questa invocazione si dispiega tra una sensazione materiale, che è il freddo della vita, e una sorta di preghiera, che ne è il compimento, la realizzazione. La Preghiera di un Daco, uno dei poemi più disperati di tutte le letterature, è un inno all’annullamento».
Molti anni dopo, in una lettera del dicembre 1988 indirizzata a Marin Mincu, Cioran tornava sulla poesia con un giudizio che appare legato all’antropologia di un intero popolo: «Questo Daco, evidentemente, parla in suo nome, ma la sua desolazione ha radici troppo profonde perché lo si possa ridurre a una fatalità individuale. In verità noi proveniamo sempre da Lui, noi perpetuiamo la sua amarezza e la sua rabbia, per sempre circondati dal nembo delle nostre disfatte. Non dimentichiamoci di rammentare che il poeta era giovane quando scrisse questa spaventosa ed esaltante messa in discussione dell’esistenza. Una tale apoteosi negativa non poteva avere un senso se non fosse stata l’emanazione di una vitalità intatta, di una pienezza che si rivolge contro se stessa. (…) Che Eminescu abbia capito tutto sin dall’inizio, la sua preghiera, la più chiaroveggente, la più impietosa che sia mai stata scritta, è là per provarlo».
La poesia è costruita su una drammatica frattura ontologica. Nella prima parte emerge quella che appare la necessità di un Principio trascendente, del Demiurgo il cui spirito creatore si rivela al poeta nell’aurora cosmica che ha visto irrompere la luce, i mondi, le genti:

Quando non c’era la morte e nulla era immortale,
neppur di luce il seme da cui vita si trae,
quando non c’era oggi, né domani, né ieri, né sempre,
perché il tutto era uno e l’uno era il tutto,
quando la terra, il cielo, l’aria e il mondo intero
avean l’ordine di ciò che mai non fu,
allora Tu solo esistevi, onde a me stesso chiedo:
Chi è dunque il Dio cui i nostri cuor s’inchinano?

Egli solo fu Dio, prima di ogni Dio,
e dall’acquoreo abisso accese la scintilla.
Egli dà vita agli dei e gioia al mondo,
e di salvezza agli umani è eterna fonte.
In alto levate i cuori! A lui si alzino i canti!
Egli è la morte della morte, la resurrezione della vita.

Egli mi ha dato gli occhi per contemplar la luce,
e di conforti pietosi mi ha colmato il cuore,
nel fremito dei venti ne ho riconosciuto il passo,
e nell’estasi di un canto il dolce accento.
Eppure, in più di tutto questo, un altro dono imploro,
che mi apra le porte della morte eterna.

Riassunto della concezione platonica relativa all’essere e il nulla, sono versi che paiono prefigurare l’istante che ha preceduto il big bang da cui tutto ha avuto inizio. Nulla esiste, solo il Demiurgo che accese la scintilla, che diede vita agli dei e gioia al mondo, la morte della morte, la resurrezione della vita. È il Dio che è fonte di eterna redenzione, che ha donato al daco gli occhi per vedere la luce del giorno, e riempito il suo cuore con l’incanto della pietà.
Eppure, a questo stesso Dio il poeta chiede un ultimo, decisivo dono: la morte, la morte eterna.
Ha inizio qui quella che Rosa Del Conte ha denominato la retractatio del Daco, la conversione in bestemmia dell’adorante preghiera:

Che egli maledica chi avrà pietà di me
e benedica chi mi colpirà,
ascolti ogni voce che mi deride
e dia vigore al braccio che mi ucciderà,
che sia il primo fra gli umani
chi dal mio capezzale toglierà la pietra!

Che discacciato da tutti io passi la mia vita
finché negli occhi mi resteranno lacrime,
ch’io senta in ogni uomo nascer per me un nemico,
e persino a me stesso diventi uno straniero.
Che il tormento e il dolore, impietriti i sensi,
mi facciano maledir la madre amata.
E quando l’odio più atroce mi parrà amore,
oblio avrà la mia pena e allor potrò perire.

E se morrò straniero e maledetto,
le mie indegne spoglie le gettino per strada!
E a chi aizzerà i cani a dilaniarmi il cuore
regala una preziosa corona, o Padre,
e a colui che il volto mi tempesterà di pietre,
donagli, o Signore, eterna vita!

Solo così, o Padre, potrò ringraziarti
d’avermi messo al mondo.
Per questi doni, né fronte né ginocchio piego,
io voglio costringerti alla bestemmia e all’odio,
sentir che nel tuo soffio si spezza il mio respiro
e che nel buio eterno senza traccia dileguo.

Nell’antologia poetica Il Genio della Morte (2000), il poeta toscano Sauro Albisani interpreta il desiderio di morte del daco come manifestazione dello spirito mioritico romeno. «Il daco di Eminescu», scrive Albisani, «invoca la morte come liberazione assoluta e possibilità di integrazione nella serenità cosmica».
Ma l’eterna estinzione anelata dal daco si traduce in un veemente grido di ribellione contro la suprema potenza del cosmo. Il daco ha visto naufragare la sua visione del mondo: l’essere era il nulla e il nulla tornerà ad essere. L’uomo è solo, perduto in un divenire cosmico di cui non afferra il senso. Consapevole di ciò, l’estremo dono che il daco chiede alla Divinità è una distruzione del sé, un annullamento totale del proprio essere.
«Negli accessi di disperazione, il solo ricorso salutare è l’appello a una disperazione ancora più grande»; così Cioran, nella lettera a Marin Mincu sopra citata. Nel crudo commento di Cioran leggiamo una precisa interpretazione: abbandonando la finzione del personaggio, Eminescu si identifica col daco. Il poeta ha già conosciuto le pesanti traversie e il dolore della vita, e inveisce contro la propria esistenza. Si sente egli stesso un daco, e come Decebalo vuole celebrare il proprio sacrificio con il dono di una morte dolorosa ed espiatrice. Il terribile anatema si estende alla madre amata, a ogni uomo, a ogni creatura. Siamo dinanzi a un cupio dissolvi che non risparmia niente e nessuno; solo se morrà straniero e scomunicato, solo se il suo cadavere verrà vilipeso, il daco potrà ringraziare Iddio per averlo messo al mondo.
La Preghiera maschera un deicidio: il daco vorrebbe costringere il Dio creatore a odiare e maledire l’uomo cui è stata concessa la vita, ma che ha visto la via della salvezza diventare una via di perdizione. Non c’è speranza per chi cercava nel sacro la verità dell’essere e ha trovato la sconfitta e il dolore, nel nulla di un divenire di cui non afferra il senso. Un creatore può generare il nulla? La risposta di Eminescu è in una metafisica aperta al senso cosmico del divino e indifferente a qualsiasi religione rivelata.

La lirica Un sol desio mi resta (1883) è una lenta, triste accumulazione di immagini che rimandano a una languida accettazione della morte e al sentimento di un’irrimediabile separazione dal mondo, che giunge al disfacimento del ricordo stesso della vita. Il tema della poesia, il suo timbro, il linguaggio, hanno una connotazione nettamente romantica; più di altre liriche di Eminescu, Un sol desio mi resta si presta ad affascinanti interpretazioni e parallelismi con altri capolavori della poesia di ogni tempo. Data l’importanza di questa composizione, ne riportiamo il testo integralmente:

Se fra non molto m’addormenterò
nella notte dell’oblio,
portatemi a seppellire in silenzio
sulla riva del mare.

Non voglio ricco feretro
fiaccole né bandiere,
ma intrecciatemi un letto
di giovani rami.

Mi sia lene il sonno,
e il bosco accanto,
risplenda un ciel sereno
sullo specchio dell’acque:
dell’acque che in profondo dolore
si ergono contro le sponde,
e appendersi vorrebbero agli scogli
con braccia di flutti;
e s’innalzano, ricadono
e mormorano sempre,
mentre sui boschi d’abete scivola la luna.

E che nessun superstite
mi pianga al capezzale,
dia voce la Morte al secco fogliame;
lieve passi nel vento
la Sapientissima
e il sacro tiglio versi
fiori su di me.

Poi che non sarò più ramingo
da quel giorno in poi,
e, pietosi, mi seppelliranno
i miei ricordi,
e gli astri d’argento, che sorgono
nell’ombra dei rami d’abete,
torneranno allora a sorridermi,
e ad essermi amici.

Poi che sapranno che non soffro più
del dolore del mondo,
mentre cresceran le liane
sul mio sepolcro ignoto.

Dal senso di esclusione di chi ramingo ha percorso il cammino della vita nasce uno stato d’animo di profonda afflizione, tendente all’elegia. E’ una solitudine, una cancellazione di se stesso che il poeta vuole protratta anche dopo la morte; non è nel ricordo degli uomini, ma nella fusione col cosmo e i suoi elementi che sarà ancora possibile ritrovare un sorriso, un anelito di vita.
Impossibile non fare il raffronto con la libido moriendi  e la volontà di dissoluzione che troviamo nella splendida Ode a un Usignolo di John Keats (1795-1821). Nell’opera di questo grandissimo poeta, che come è noto morì a soli 26 anni, due temi ricorrono costantemente: l’amore per la poesia e il pensiero della propria morte. E l’Ode a un usignolo fu composta da Keats nel 1819, quando il poeta, già abbattuto per la scomparsa del fratello Tom, si rese conto che non sarebbe sfuggito alla morte per tubercolosi.
La lirica incarna il dissidio fra il sogno (simboleggiato dal canto eterno dell’usignolo) e la realtà di una vita “dove il pensare stesso è riempirsi di dolore”e dalla quale il poeta vorrebbe distaccarsi per entrare voluttuosamente nelle braccia della morte:

Sparire lontano, dissolvermi, e dimenticare poi
ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
la stanchezza, la febbre e l’ansia
qui, dove gli uomini ascoltano il reciproco lamento,
dove il tremito scuote gli ultimi, tristi capelli grigi,
dove la gioventù diventa pallida, magra come uno spettro, e muore;
dove il pensare stesso è riempirsi di dolore…

Versi di un’altezza insuperabile, come quelli, successivi, dove Keats invoca la morte affinché si porti via il suo respiro nell’estasi del «requiem altissimo» dell’usignolo:

E mai come adesso m’è sembrato ricco il morire:
spegnersi a mezzanotte, senza dolore,
mentre tu butti fuori l’anima
in un’estasi stupenda!
Tu canteresti ancora: e invano avrei orecchi,
io diventato zolla dinanzi al tuo requiem altissimo.

Il canto dell’usignolo, che generazioni di uomini hanno ascoltato rapiti, è l’armonia e la bellezza della Natura, che però assiste impassibile alle vicende umane. Come Eminescu, Keats invoca ardentemente la morte; tuttavia, il poeta inglese si mostra più incline ad accettare la fine della sua labile esistenza, in nome di quella Bellezza che rimane la suprema istanza della sua poesia.

Un pacato, quasi gioioso abbandono al riposo eterno troviamo anche nel notissimo Anelito alla morte, il VI degli Inni alla Notte del poeta tedesco Novalis (1772-1801):

Sia lodata da noi l’eterna notte,
sia lodato il sonno eterno.
Ci ha riscaldati il torrido giorno,
ci ha fatti avvizzire il lungo affanno.
Non ci attraggono più terre straniere,
vogliamo tornare alla casa del Padre.

Come Eminescu, Novalis anela e loda l’oblio del sonno eterno. Ma il poeta tedesco è uno spirito religioso, e associa la morte al distacco dalle ‘terre straniere’ della vita, bramando il ritorno nella pace della dimora del Padre.

Altrettanto giustificato e suggestivo ci sembra l’accostamento di Un sol desio mi resta con il Sonetto 71 di Shakespeare, incentrato anch’esso sulla cancellazione del ricordo, anzi, della dimenticanza dello stesso nome dell’autore della lirica. Ecco i versi del poeta inglese:

Più a lungo non piangermi quando sarò morto,
del tempo che udrai la tetra lugubre campana
avvertire il mondo che io sono fuggito
da questo vile mondo ad abitare coi più vili vermi.
Anzi, se leggerai questi versi, non ricordare
la mano che li scrisse, perché io ti amo tanto
che dai tuoi dolci pensieri vorrei esser dimenticato,
se pensare a me allora dovesse addolorarti.

C’è in Shakespeare la stessa determinazione a voler essere dimenticato dalla persona amata, e definitivamente occultato agli occhi del mondo. E tuttavia nelle meravigliose composizioni di Shakespeare e di Eminescu non c’è ombra di nichilismo, di insensibilità, perché il loro senso ultimo si risolve in un atto d’amore. Il canto di Thanatos, infatti, sfocia nella philìa, se non nell’agape: entrambi i poeti conoscono il dolore dell’anima e non vogliono perpetuarlo nelle persone che li hanno amati.
Diverso è invece il timbro poetico: in Shakespeare cogliamo una maggiore dolcezza, mentre i versi di Eminescu comunicano un senso di vertigine. Il poeta si augura la totale dissoluzione, materiale e spirituale. È una tristezza cosmica, resa con parole semplici, ma terribilmente rivelatrici. Dal momento della morte avrà finito di andare randagio nel mondo senza capirlo e senza essere capito. Nella tomba, inizialmente, lo accompagnerà solo la pietà di chi è consapevole che il poeta non soffre più; infine, nessuno ricorderà più né lui né il suo dolore.
Assente il desiderio rabbioso di annullamento della Preghiera di un Daco, siamo però allo stesso livello nella volontà di sparire dalla memoria e dalla compassione degli uomini. A nulla valgono i riti che vorrebbero portare un residuo di vita là dove è subentrato il nulla: ‘eu voi fi pămȃnt’, ‘io diventerò terra’.
Sauro Albisani si dice convinto che Un sol desio mi resta «rappresenti un testo assolutamente centrale che è qualcosa di più di una dichiarazione di poetica perché è un credo ontologico (…) tutto racchiuso nell’ottativo iniziale ‘să mă lăsați să mor’, ‘che io possa morire’: una volta di più, come nella Miorița, l’autocancellazione dell’io postula una compenetrazione dello stesso nella coralità della realtà naturale».
A conferma dell’importanza di questa poesia, Giovanni Rotiroti, nel pregevole contributo Mai am un singur dor: Mihai Eminescu e l’anelito del Reale, pubblicato negli Annali – Sezione Romanza –  LVIII, 1, dell’Università partenopea «L’Orientale», scrive: «Mai am un singur dor (…) è un testo fondamentale per la strutturazione e la codifica di una nozione, quella del dor, che costituisce uno dei nuclei identitari della cultura romena». Suggellando la cifra misteriosa del dor, prosegue Rotiroti, «questa poesia testimonia il sogno o il desiderio di una reintegrazione cosmica, o, come scrive Ioana E. Petrescu, essa rappresenta la celebrazione ‘attraverso la morte della reintegrazione dell’essere ‘errante’ in una patria cosmica irrimediabilmente perduta’».
La conclusione dello studioso è che il dor emineschiano andrebbe inteso come anelito del Reale inattingibile in vita, come una pulsione all’immedesimazione col cosmo, con quell’Assoluto che costituisce per Rosa Del Conte l’ossessione di Eminescu. Una conclusione vicina a quella espressa, nel lontano 1935, dal poeta e filosofo Dan Botta nel saggio sul Bello romeno: Eminescu risente della concezione tracia dell’esistenza, per la quale il contatto dell’uomo con l’anima cosmica è possibile solo nella possessione sacra e infinita della morte.

Citando di passaggio altre poesie in cui si insinua il tema della morte (e ti guardo indifferente / con freddo occhio di morto, (Accanto ai pioppi dispari); come un sogno d’eterna morte è la vita dell’universo (Imperatore e proletario); Non avrei creduto mai d’imparare a morire (Ode in metro antico); l’anima mia sconsolata / cullando in un desiderio di morte (Dietro i picchi), arriviamo a Luceafărul, dai più considerato il vertice della produzione emineschiana. Come sottolinea la romenista Luisa Valmarin, in questo splendido poema, che richiese anni di perfezionamento, il poeta «rappresenta il suo stesso mito, trasfigurandovi il dramma della sua condizione umana». È altresì evidente che in Luceafărul sono riflessi alcuni dei motivi fondamentali della poesia universale: l’amore e la morte, il divino e l’umano, la dimensione onirica e quella reale, l’effimero e l’eterno.
Tutto questo, reso con una versificazione impareggiabile, un caleidoscopio ricco di vibrazioni, sfumature, variazioni ritmiche, godibili, ovviamente, solo nella lingua originaria, come non ha mancato di sottolineare George Călinescu: «È forse addirittura un errore inculcare in chi ignora la lingua che Luceafărul sia da solo un capolavoro (il che è vero) perché l’operazione della traduzione fa sì che scorrano via la linfa della lingua, l’ineffabilità del verso romeno, lasciando alcune arterie di idee che di per se stesse non hanno niente di originale, anzi possono sembrare luoghi comuni romantici» (Călinescu, Opere, 1936, IV: 254-255).
Ribadito che forma e contenuto sono sempre intimamente connessi, che per Eminescu la lingua (e dunque la poesia) è depositaria e custode dei tesori spirituali tipici di ogni popolo, è sicuramente possibile, specialmente in presenza di una buona traduzione, pronunciare giudizi di valore sensati su un’opera letteraria; se non fosse vero quanto affermo, dovremmo gettare alle ortiche migliaia di ottimi contributi critici su romanzi, poemi, saggi, poesie, racconti, prodotti da studiosi ben poco ferrati nella lingua dell’autore che commentavano.
Come precisato in Geografia e storia della civiltà letteraria romena nel contesto europeo, apprezzato saggio letterario curato da Bruno Mazzoni e Angela Tarantino, era stato lo stesso Eminescu, in una nota contenuta nel manoscritto 2275B, a indicare la fonte e il senso del poema: «Nel descrivere un viaggio nei paesi romeni, il tedesco K. (Richard Kunisch, autore della fiaba da cui Eminescu trasse ispirazione, n.d.a.) narra la leggenda di Espero. Questa è la fiaba. Ma il significato allegorico che le ho dato è che se il genio non conosce la morte e il suo nome sfugge alla notte dell’oblio, d’altra parte, qui sulla terra, né è capace di rendere felice qualcuno, né è capace di essere felice. Egli non conosce la morte, ma non ha neppure fortuna. Mi è parso che la sorte dell’astro della fiaba somigli molto alla sorte del genio sulla terra e le ho dato questo significato allegorico» (Eminescu, 1942, II).
Dunque, una Divinità immortale vuole morire per scambiare una destino di eternità, ma freddo e immateriale, con la carnale felicità terrena. Nella seconda sequenza del poema, Espero precipita in mare, e riemerge con le sembianze di un giovane principe; nella terza sequenza avviene la seconda metamorfosi di Espero, che si spegne e rinasce trasformato in una bella creatura. Avendo preso coscienza della natura demoniaca dell’astro, Catalina gli chiede di rinunciare alla sua natura fredda e immortale. Espero accetta e nella quinta sequenza chiede alla Divinità di essere liberato dall’immortalità, richiesta che non viene accolta. Perciò, Espero non avrà la vita che desidera; non morirà, ma non conoscerà l’amore dei mortali.
Scrive Marco Cugno: «I due mondi, che hanno tentato il contatto, nella visione emineschiana rimangono alla fine separati. L’opzione finale di Espero-Iperione sarà quella, schopenhaueriana, della solitudine contemplativa del genio».
Come indicato dallo stesso Eminescu, l’impossibilità del Genio di essere felice è il tema-principe di Luceafărul, che tuttavia reca con sé un convitato non meno regale, e antico quanto la stessa poesia: l’ineliminabile binomio Eros-Thanatos. Nel capolavoro di Eminescu muoiono anche gli Dei, e l’amore si identifica con la morte. Catalina possiede la vita e l’amore, ma è destinata alla morte eterna; Iperione possiede la vita eterna ma desidera la vita dell’amore, benché questa si consumi nella morte. «L’intuizione fondamentale di Eminescu», chiosa Sauro Albisani nell’antologia già citata, «doveva essere stata quella del substrato unanime della morte».
È un’osservazione che ci pare di poter estendere all’intera produzione del poeta. Nel vasto e magmatico universo poetico di Eminescu, solo la morte non ha nulla di indefinito e di misterioso; la morte è la realtà sovrana, l’unica realtà.
In un brano della più volte citata monografia emineschiana, Rosa Del Conte osserva che «sono le piccole morti sempre aperte sulla grande morte» ad opporsi ontologicamente all’inclinazione del poeta a proiettare i suoi ideali nell’infinito.
La «grande morte»: è questo l’Assoluto nel quale potremmo far convergere il pensiero della studiosa italiana. Eminescu è un’anima assetata di Assoluto, di una fusione spirituale col cosmo. Ma ciò non è alla nostra portata, e quando il poeta ne prende coscienza ripiega verso un altro Assoluto, ben altrimenti attingibile: la voluttà di un abbraccio con cui tutto ha termine, tutto si dissolve.
Come per altri autori, in Eminescu cogliamo la tristezza di chi è nato poeta; ma nel letterato romeno troviamo qualcosa di più tragico, il tormento di una persona che scrive come se la morte fosse sempre imminente. Vinta la battaglia per trovare la propria cifra poetica, Eminescu ingaggia un altro combattimento, una delle più drammatiche alternanze tra fede e scepsi riscontrabili nel mondo letterario. È nella natura-madre che si incarna la prima; ma è nella continua lotta contro la scepsi morale che Eminescu consumerà gran parte della sua vita. Il doloroso approdo è la brama del dissolvimento nel nulla, qualcosa di diverso da quel non voler esistere espresso da altri poeti romantici.
Nonostante i grandi esiti raggiunti nel campo poetico, rimane la sensazione che Eminescu dovesse ancora rivelarci qualcosa. La brevità della sua esistenza può spiegare questa nostra impressione. Leopardi ha rivelato, in prosa e poesia, l’intero mondo interiore. Il poeta recanatese è sempre incline alla riflessione, vigila continuamente su ciò che vede e che si riverbera nel suo animo. Eminescu sembra a volte inconsapevole di ciò che gli accade intorno, ed così che si spiega lo splendore delle sue metafore: ciò che viene rimosso dalla nostra psiche ritorna sotto forma di sogni, di immagini, di simboli, e non c’è attività umana che più della poesia possa captare certi segni e interpretarli.  
Nella poesia che nasce dalla lacerazione di un animo che ama la vita, ma che cammina costantemente a fianco della morte, non c’è alcuna retorica, nessun’astratta proclamazione di poetica. Piegato da un destino che non poteva interpretare, Eminescu è riuscito a salvare la sua essenza grazie a quel profondo senso di partecipazione alla condizione umana che è privilegio dei poeti più grandi.




Armando Santarelli
(n. 7-8 luglio-agosto 2019, anno IX)