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    Il sentimento della morte nella poesia di Eminescu 
       
     
     Penso che non ci  sia opera poetica più indagata, nella letteratura romena, di quella di Mihai  Eminescu (1850-1889). Il perché è ovvio: Eminescu è assurto alla dignità di poeta  nazionale, è il letterato romeno più conosciuto e amato. Inoltre, la sua produzione  abbraccia più generi, e presenta, per alcune opere, una certa difficoltà di  interpretazione. Perciò, l’apparato critico riguardante il poeta di Ipoteşti –  nel quale assumono particolare importanza l’ormai classica monografia in cinque  volumi di George Călinescu e, sul piano filologico, il lavoro sfociato nella  cosiddetta edizione accademica – è copioso, e credo che poche siano le zone rimaste  oscure ai suoi tanti e autorevoli esegeti. 
      Non diciamo  nulla di nuovo quando individuiamo nell’amore per la donna, nella visione  cosmica, nel patrimonio spirituale e folclorico del popolo romeno, nella natura  come unica dispensatrice di pace, i topoi più ricorrenti nell’opera poetica di Eminescu. 
      Qui vogliamo  trattare di un altro dei motivi di fondo della sua poesia: il sentimento della  morte. Sentimento e non senso della morte, come pure si poteva  concepire. Infatti, la morte costituisce nella produzione letteraria di  Eminescu una presenza costante e angosciosa, vissuta con la stessa intensità e  profondità con le quali il poeta canta i temi prima indicati. 
      In un noto passo  degli Scritti di Estetica, Charles  Baudelaire (1821-1867) osservava: «Per penetrare l’anima di un poeta, o perlomeno  la sua principale preoccupazione, cerchiamo nelle sue opere quali siano le  parole che ricorrono più di frequente». Se ciò è vero, l’incessante presenza  della parola «morte» nelle poesie giovanili come in quelle della maturità, non  lascia dubbi sulla pervasività di questo sentimento nell’animo di Eminescu.
    
 È d’obbligo una  premessa: pur avendo letto tutte le poesie di Eminescu tradotte in italiano, la  monumentale monografia Mihai Eminescu o  dell’Assoluto (1963) di Rosa Del Conte, e le pagine antologiche e critiche  di alcuni dei più autorevoli eminescologi italiani, chi scrive non ha  effettuato un confronto con l’esegesi romena, e dunque con gli studi che  partendo da Titu Liviu Maiorescu arrivano a Ion Negoițescu, Ioana Em. Petrescu,  Nicolae Manolescu, George Gană, Pompiliu Crăciunescu, Ioana Both Bican e altri;  di conseguenza, questo contributo non può certamente ambire al rango di studio critico. 
      Sempre nella  consapevolezza di esprimere un punto di vista eminentemente soggettivo, e volutamente  agile, ho evitato di utilizzare le note a piè di pagina e non ho redatto una  bibliografia, preferendo inserire nel testo i riferimenti agli autori e ai brani  citati. Quanto alla versione italiana delle poesie, mi sono avvalso, in  prevalenza, di quella di Ramiro Ortiz; quasi inutile aggiungere che l’opera di Eminescu  attende, oggi, una nuova e più moderna traduzione nella lingua italiana. 
      Un’ultima precisazione:  il sentimento della morte è presente nell’opera di moltissimi letterati di ogni  tempo, e dei romantici in particolare. Per ovvie ragioni, in questo scritto mi sono  limitato al confronto fra Eminescu e alcuni dei poeti che più si sono  soffermati sul tema in argomento. 
    Parlando della  morte in Eminescu, credo sia incontestabile che ci troviamo dinanzi ad un  sentimento inseparabile dallo spirito e dalla travagliata esistenza del poeta;  l’opera del genio romeno è il riflesso della storia di un’anima pervasa da un profondo  malessere esistenziale, un’anima in perenne dissidio fra l’adesione alla vita e  un’inesorabile consapevolezza della sua precarietà e finitezza. Vale, per  Eminescu, ciò che scrisse Ugo Foscolo a proposito della sua giovinezza: «Io  soffrivo la mestizia sin da fanciullo; la sventura, le riflessioni e le passioni  l’hanno resa in me natura». 
      Non volendo  perderci nell’annosa questione di quanto la biografia influisca nell’opera di  un letterato, ci limitiamo ad un’osservazione che appare inoppugnabile: la vita  di Eminescu rivela che l’equilibrio, la stabilità (intesa in ogni senso, da  quello professionale a quello sentimentale) non si addicevano alla sua natura. Esprimendo  un paradosso, è come se egli intuisse che un’esistenza sicura e tranquilla  avrebbe sottratto alla sua poesia i temi forti e drammatici che ne costituiscono,  insieme alla musicalità e alla padronanza del verso, la principale caratteristica.  Non sono certo rari i momenti in cui la poesia di Eminescu si distende in note  delicate, luminose, intrise di puro lirismo; ma persino in alcune di queste  composizioni si insinua, come vedremo, il controcanto del dolore, l’incombere  del nulla e della morte. 
      Anima  elettivamente poetica, Eminescu, come Wordsworth – il grande poeta romantico  inglese – non cerca le sensazioni, perché queste gli giungono naturalmente dal  contatto con un mondo che percepisce, almeno originariamente, in senso mistico  e panico. Ma questa fusione col tutto, che si riveste ogni tanto di una forte  sensualità, è minacciata dal divenire insensato dell’esistenza, dalla  finitudine, cui consegue una ricorrente volontà di autoannullamento. 
      Vedremo come Eminescu  assuma la morte quale interlocutrice sin dalla gioventù. Perché? Io credo che  si debba partire da un’innata inquietudine, dalla sua indole di ‘irregolare’ per elezione (Del Conte).  Quando evita i giochi dei coetanei, quando vaga solitario nelle campagne  intorno al suo villaggio (proprio come il giovane Wordsworth), quando fugge  dalla scuola (la prima volta nel 1860, dunque a soli dieci anni, la seconda  volta a tredici), l’adolescente di Ipoteşti sta già sperimentando le forze  ctonie di un animo insofferente e inadattabile. Il dramma di Eminescu ha la sua  apertura nelle precoci angosce giovanili e la sua chiusura nelle profonde  lacerazioni che sperimenterà nel corso della vita: la perdita degli affetti e  della fede, l’infrangersi degli ideali, l’esperienza contrastante dell’amore,  che, se nel poeta rimane l’istanza esistenziale più autentica, non mancherà di  riservargli cocenti delusioni. 
      Ma nel continuo  dialogo di Eminescu con la morte è possibile rintracciare un’ulteriore  motivazione; infatti, come escludere l’influenza dello spirito mioritico e di una  tradizione folclorica e mistica in cui si esprime la sintonia con la terra  madre, con l’anima dei defunti, e che ritroviamo nell’opera di tanti altri  letterati romeni, da Vasile Alecsandri sino a Nichita Stănescu?  
      Invero, nel processo  che vede il sentimento della morte irrompere nella sua opera, Eminescu non paga  nessun tributo al Romanticismo; questo tema appare un destino già nelle composizioni  più precoci. Nella sua prima poesia, composta nel gennaio 1866, a soli sedici  anni, non è il mondo epico (come in Leopardi e in Hölderlin), non è l’amore  (come in Byron), non è la lussuriosa descrizione di un’alba (come in Keats) a  dettare i versi; lo studente Eminescu vuole commemorare la scomparsa di Aron  Pumnul (1818-1866), filologo e storico transilvano che fu suo professore nel  liceo di Cernăuţi (oggi Černivci, Ucraina). E’ un esordio profetico: il giovane  ha già scoperto che non sono soltanto le religioni a poter dire parole  significative sulla morte. 
      La poesia In morte di Aron Pumnul termina con  questi versi: 
    Prosegui il tuo cammino, e la pietosa lacrima 
        che versan tutti i giovani sul tuo funereo cippo 
        ti segua nel tuo volo, fra canti di tristezza, 
        fra canti risonanti, sospiri armoniosi, 
        là nell’Eliso. 
    Il giovanissimo Eminescu  vede il poeta come una creatura eroica, e la poesia come fonte di eterna  consolazione e salvezza. Lo spirito dei letterati è atteso nell’Eliso, dove le  anime elette continuano a coltivare gli studi e le delizie amate nella vita  terrena. Ma a dispetto di questa convinzione, e della preziosa eredità  culturale lasciata dal professore, la sua anima, nel viaggio verso i Campi  Elisi, è accompagnata dalle lacrime e dai canti di tristezza degli alunni. La  morte, ammette implicitamente Eminescu, vince sulla nostra capacità di  interpretare in senso umanamente favorevole certi accadimenti. 
      È la prima  manifestazione di uno stato d’animo che ritroveremo in molte liriche del poeta.  Eminescu guarderà sempre alla morte, la interrogherà e si interrogherà, scoprendo  dapprima che essa non ha alcun senso (per esempio in Mortua est!), per poi abbandonarsi a una vera e propria voluttà  tanatologica.  
      Nello stesso  anno 1866, sulla rivista Familia di  Iosif Vulcan vengono pubblicate le prime poesie di Eminescu (Se avessi…, Viaggio mattinale, Dall’estero,  Alla Bucovina, La Speranza). Pur rivelando delle indubbie qualità poetiche,  sono più che altro delle esercitazioni giovanili, e lo stesso Eminescu ne è  consapevole. Insieme alle prime lodi arrivano alcune, motivate critiche. Ma qui  interessa considerare il soggetto di queste opere. E non può non sorprendere trovare  più volte il tema della morte nelle poesie di un giovane votato sì ad  un’istintiva malinconia, ma capace di aderire impetuosamente alla vita. 
      In Dall’estero, composta mentre Eminescu si  trovava a Vienna, il poeta esprime lo struggente rimpianto della Patria.  Vorrebbe rivedere la nativa «valletta bagnata dal cristallo del ruscelletto  argenteo», «la tenebria del bosco, poetico labirinto», vorrebbe «salutar solo  una volta le capanne della valle dormienti con espressioni di pace». E se  potesse tornare nella terra dove sono nati i suoi sogni e i suoi ideali, 
    Persin la Morte, che terror diffonde fra  gli umani 
        percorrendo vene tremanti dei suoi  gelidi brividi, 
        persin la Morte lì m’addormenterebbe in  dolce calma, 
        e tra sogni di felicità me n’andrei  verso le nubi. 
    Oltre alla  morte, compare in questa poesia un altro dei temi ricorrenti nell’opera di  Eminescu, cui abbiamo già accennato: la Natura come madre che si offre all’uomo  in tutta la sua umile e misteriosa semplicità. La distanza con la concezione  che ne ha Leopardi – per il quale la natura è matrigna, empia, una  potenza meccanica e fatale che non ha altro scopo se non la trasformazione  perenne della materia – è evidente; eppure, l’approdo ultimo dei due poeti sarà  lo stesso. Come vedremo, Eminescu arriverà alla conclusione che la liberazione  dal dolore si può attingere solo nella morte. È l’esito leopardiano che  troviamo nei Pensieri, nelle Operette Morali, in poesie come La quiete dopo la tempesta, Amore e Morte, A se stesso, e, in modo impressionante, nella lettera che chiude l’Epistolario, dove il poeta recanatese  arriva ad invocare caldamente il riposo eterno. 
      E tuttavia, sul  tema è ancora possibile rilevare una differenza: in Leopardi l’anelito alla  morte è più temperato, più addolcito rispetto ad Eminescu; parallelamente, il  pessimismo del romeno appare più costante e malinconico, quando invece nell’ultimo  Leopardi il pessimismo ‘cosmico’ si fa ‘agonistico’, un invito alla solidarietà  fra gli uomini, a stringersi in un patto fraterno per meglio resistere alle avversità  della vita. 
    Nella poesia dal  titolo La Speranza, virtù che il  giovane Eminescu esalta perché «leggera conforta il cuor dei mortali», il senso  della morte gravita sull’intero canto. Paraninfa  del mondo, la Morte appare in una lunga veste nera al recluso in un  carcere, ricordandogli che sperando in essa potrà lenire il dolore della privazione  della libertà. Ancora, è il terrore della morte a chiamare la speranza nel  cuore della madre che stringe al seno il bambino negli spasimi della  sofferenza. La morte si insinua persino nell’animo dei virtuosi, perché questi  hanno «speranza dolce di ricompensa in  cielo, / che fa lor dimenticare della morte lo strazio / e chiude in pace le  palpebre». 
      A questa prima  produzione appartiene anche Sogni svaniti.  Il giovane poeta è desolato, si rammarica di una vita che «scorre dimentica  della sorgente», di una sorte che si trascina «come l’aquila trascina l’ala  spezzata». La morte gli ride intorno, gli pare di aver già dimenticato i  genitori, la fede, tutto. Ma ecco comparire la poesia, la sola forza capace di  esorcizzare la morte e la sua pretesa di distruzione di ogni cosa: 
    Solo tu mi appari nel caos, 
        come tra i flutti vela di nave, 
        come tra le nubi gialla stella, 
        come faro nella notte nera. 
    Al cospetto  della poesia, della sua «fronte serena come il pensiero di Dio», il poeta non  vuole più morire. E se anche Dio lo avesse dimenticato, e per la sua anima non  ci fosse più posto fra i mortali,  
    voglio, quando trasporteran gli angeli 
        l’ombra mia pallida al bianco monte, 
        che sii tu a posar la corona sulla mia  fronte morta, 
        e ad appoggiar la lira al capezzale!  
    Evidenti sono le  note ideali inserite in questa composizione. Ma Sogni svaniti ha già iniziato a tracciare il solco nel quale si  incanalerà tanta parte della sua opera; la lirica rappresenta una delle prime  rivelazioni del sostrato pessimistico del poeta, e contribuisce a confermare il  giudizio di Rosa Del Conte, quando afferma che il pessimismo di Eminescu non  origina da un ripiegamento meditativo, ma dalla sua eccezionale sensibilità. 
      Nel giugno 1867,  sempre su Familia, viene pubblicata  la poesia dedicata a Ion Heliade Rădulescu (1802-1872), insigne letterato,  poeta, linguista, filologo, accademico di Romania e uomo politico. In  quest’opera, l’accostamento fra la morte e la possibilità di redenzione donata dalla  creazione artistica è palese. Ecco i versi che chiudono la poesia: 
    Tale il tuo canto suona, o vecchio Heliade, 
        qual suona la profezia di un Geremia 
        come infuria un uragano, volando di nembo in nembo. 
        Vorrei pregare Erato di darmi il tuo canto, o bardo, 
        se non tutta la mia vita, almeno in morte. 
        Ch’io canti la tua Maledizione… ch’io la canti e muoia. 
    Consapevole  della grandezza di Rădulescu, Eminescu prega la musa della poesia di donargli  l’ispirazione del letterato valacco almeno in  articulo mortis, affinché conosca le altezze della creazione artistica.  Dopo può anche morire: se la morte comporta il disfacimento del nostro corpo,  il canto poetico ci sopravvive. 
      Siamo ancora nella  fase esistenziale e creativa in cui Eminescu si concede una difesa possibile  contro la morte. Ancora qualche anno e i suoi versi esprimeranno la convinzione  che nessuna forza è in grado di misurarsi con la potenza distruttiva della morte. 
    Nel 1871  Eminescu compone Mortua est!, poesia  che porta nel titolo il triste destino della morte di una fanciulla. Per Rosa  Del Conte, questa composizione costituisce «la più alta espressione lirica mai  raggiunta nel campo della meditazione elegiaca sul tema della morte precoce».  La letterata italiana ne esalta le metafore, grazie alle quali la  trasfigurazione delle immagini appare totale e le emozioni profondamente  interiorizzate. Che le capacità espressive e il magistero poetico di Eminescu  si situino qui ad un livello superiore rispetto a precedenti composizioni è  fuori discussione; tuttavia, a versi in cui l’immagine terrifica della morte è  resa in modo artisticamente perfetto, si alternano altri che a nostro parere  appaiono un po’ artificiosi:  
    Qual lampada votiva su umidi sepolcri, 
        qual tocco di campana nelle ore sante, 
        qual sogno che bagna l’ala nel dolore, 
        così tu hai varcato i confini del mondo. 
    (…) 
    Vedo il candido 
        tuo  spirto come passa per l’aria. 
        Guardo  poi il tuo frale rimasto bianco e freddo, 
        steso  nel feretro con la sua veste lunga, 
        guardo  il tuo sorriso rimasto vivo ancora, 
    e  domando al mio spirito ferito dal dubbio: 
        Perché  sei morta, angelo dal candido viso? 
        Non  fosti tu giovane? Non fosti tu bella? 
        O sei  morta per spegnere una radiosa stella? 
    (…) 
    Oh, che  la morte è un caos, un mare di stelle, 
        mentre  la vita è una palude di sogni ribelli; 
        oh, che  la morte è un secolo fiorito di soli, 
        mentre  la vita è una fola arida e banale! 
    Ma  forse… o cervello mio vuoto in preda all’uragano, 
        i  pensieri miei cattivi soffocano i buoni… 
        quando i  soli si spengono e cadono le stelle, 
        son  tentato di credere che tutto è  il nulla. 
    (…) 
    Ed  allora, se così fosse… allora in eterno 
        Il tuo  caldo respiro non tornerà a spirare,  
        allora  la voce tua dolce è morta in eterno, 
        allora  quest’angelo qui non era che argilla! 
    Eppure,  o argilla bella e morta, 
        alla tua  bara appoggio la mia arpa infranta, 
        e non  piango la tua morte, ma ancora felicito 
        un  raggio fuggito dal caos del mondo. 
    E poi  chi sa qual sia meglio: 
        essere o  non essere?... Ma tutti sanno 
        che ciò  che non è non soffre dolore –  
        e molti  sono i dolori, pochi i piaceri! 
    Essere?  Follia triste e vuota: 
        l’orecchio  ti mente e l’occhio ti inganna: 
        ciò che  un secol proclama, un altro lo nega. 
        Piuttosto  che un sogno insipido, oh, meglio il nulla! 
    Vedo  sogni incarnati incalzare altri sogni, 
        finché  cadon in sepolcri che aspettano aperti; 
        e non so  in che cosa annegare il mio pensiero: 
        ridere  come i pazzi? Bestemmiare? Piangere? 
    A  che?... O non è follia ogni cosa? 
        La tua  morte, angelo pallido, ha un senso? 
        C’è un  senso nel mondo? Tu, volto sorridente, 
        sei  forse vissuta solo per morire? 
    Se tutto  ciò ha un senso, esso è a rovescio ed ateo; 
        sulla  tua fronte pallida non vedo scritto: Dio. 
    Eminescu non è un poeta realista, ma questa  lirica è di un realismo spietato. Nei versi Vedo sogni incarnati incalzare altri sogni, / finché  cadon in sepolcri che aspettano aperti,  vediamo infrangersi gli ideali, le illusioni, la stessa poesia: l’arte non è la  soluzione dei mali del mondo e della coscienza. 
      Basil Munteanu, nell’ormai classica Storia della  Letteratura Romena Moderna (1947), commenta: «Perché ha vissuto, se ha  dovuto morire? Se almeno ci fosse concessa la speranza di un aldilà dove la  morte fosse regina! Ma il cielo stesso forse si ridurrà in rovine. Passando  così di volta in volta dalla speranza alla negazione, il poeta non comprende  più niente, né la vita né il nulla, e neppure se debba riderne o piangere o  maledire. E da queste tenebre si levano i gridi profondi della disperazione  universale».  
      Dunque, è così  ingiusta la scomparsa di chi muore nel fiore degli anni, che il poeta è tentato  di credere che nessun alito divino sia stato infuso nell’argilla da cui siamo  nati e che il nulla sia meglio di qualsiasi insipido sogno umano. 
      Anche Leopardi e  Novalis hanno potuto vedere un bene nella morte, che ci libera da una vita  colpevole di non adeguarsi ai nostri desideri. Ma la conclusione di Eminescu è  più cupa e spietata. Come osserva Rosa Del Conte, il nulla della morte non può costituire  una salvezza, non può diventare un senso; e se pure in tutto ciò ci fosse un  senso, esso non potrebbe rivelarsi che empio ed assurdo. 
      Riguardo al  verso finale, Eminescu, nella prima stesura della poesia, aveva scritto: Sul tuo livido viso non è scritto Dio.  Nella versione definitiva, l’aggettivo livido è sostituito da pallido. Preservando  una bellezza che nella morte non ha più senso, Eminescu annulla anche l’ultima  speranza di consolazione, arrivando alla negazione di chi infonde in noi una  vita destinata inesorabilmente a cadere. È la morte a vincere, a divorare la  nostra umanità, e con essa l’illusione dello spirito divino, e in definitiva  Dio stesso. 
      Eminescu non  aderirà mai a una confessione religiosa. Ama il suo popolo e il fondamento morale  che lo caratterizza, ma la sua religiosità non andrà oltre una mistica adesione  alla spiritualità della Chiesa Ortodossa (cui riconoscerà anche il merito di  aver diffuso la dottrina cristiana nell’idioma nazionale). L’Universo, per  Eminescu, è una ierofania che il poeta aspira a cogliere in senso metafisico; ma  questo Assoluto, come Mortua est ci  rivela, è infine inafferrabile e misterioso, è l’arcano dove tutto muore  eternamente. Questa poesia segna il momento dal quale il poeta non farà più pace  con la morte; e quando scoprirà che essa è l’unica realtà, ne diventerà amico e  paladino. 
    Malinconia (1876) è  un’elegia lugubre e disperata. Non ascritta fra le poesie migliori di Eminescu,  è invece, a parere di chi scrive, un gioiello che conserva tutto il suo  splendore, grazie a una versificazione semplice, ma carica di suggestioni. L’ambientazione  cimiteriale e il senso di tristezza che aleggia in ogni verso hanno portato  alcuni commentatori ad accostarla alla notissima Elegy written in a country churchyard di Thomas Gray (1716-1771). 
      Ora, è vero che entrambe  le liriche rappresentano una meditazione sul tema della morte, ed entrambe sono  intrise di una profonda mestizia; ma il loro senso ultimo è molto diverso. 
      Paradossalmente, Malinconia di Eminescu è una poesia  in cui l’atmosfera è ancor più greve che in Gray, che pure è uno dei principali  esponenti di quella che è conosciuta in letteratura col nome di «poesia  cimiteriale (o sepolcrale)». Ecco la cupa ambientazione di Eminescu (nella  traduzione della poetessa Iuliana Olariu, che ho preferito a quella di Ortiz  perché più moderna e musicale):  
    E il cimitero solo con croci storte veglia, 
        un gufo bigio su una si sistema; 
        il campanile scricchia, la toaca contro  i pilastri batte, 
        il diafano demon, mentre per l’aria  passa, 
        il bronzo sfiora con la dentata ala 
        lasciando dietro un gemito, uno  stralunato pianto. 
        La chiesa in rovina 
        aspetta pia, triste, logora e deserta, 
        attraverso le porte e le finestre rotte 
        sussurra il vento 
        e par ti streghi, quando il suo  insegnamento ascolti. 
        E dentro, muri,  colonne e icone 
        perpetuano tristi ombre e fragili  figure; 
        il sacerdote grillo fila un canto fine e  oscuro, 
        il sagrestano tarlo divora il devastato  muro. 
    Qui Eminescu utilizza  tutta la simbologia della morte: il cimitero, la tomba, il gufo, il demonio,  una chiesa in rovina. Il messaggio della poesia è evidente: il passato, ricco  di speranze e di fede nella vita, ristagna in un presente dove tutto è in  decomposizione. Il campanile che scricchiola, la chiesa in rovina, le icone  scolorite sono il segno dell’irrimediabile rovina del tempo, annunciata dal  lamento luttuoso della toaca. 
    L’Elegia di Gray, invece, si apre con la  contemplazione di un paesaggio rurale al crepuscolo, fatto di immagini che  emanano sì una lieve malinconia, non disgiunta però da una certa serenità: 
    La campana della sera annuncia il  rintocco del giorno che muore 
        la mandria che muggisce lentamente si  snoda per il pascolo 
        l’aratore verso casa volge il suo stanco  cammino 
        e lascia il mondo all’oscurità e a me. 
        Ora si dilegua il paesaggio luccicante  alla vista 
        e tutta l’aia una solenne calma tiene 
        tranne là dove lo scarabeo rotea il suo  volo ronzante 
        e sonnolenti tintinni cullano i distanti  ovili. 
    Anche quando lo  sguardo si posa sul piccolo cimitero, Gray non indugia nelle immagini iconiche  della morte: 
    Sotto quegli ispidi olmi, all’ombra di  quel tasso, 
        dove si solleva la zolla nei tanti  tumuli che si sgretolano, 
        ciascuno nella sua stretta cella per  sempre steso 
        i semplici antenati del villaggio  dormono. 
    Vagando nel  cimitero, il poeta si sofferma dinanzi alle tombe della gente che ha abitato il  villaggio, ne ricorda la vita, i gesti quotidiani, e implora il passante di  concedere il tributo di un sospiro ai resti mortali di quelle umili anime. Sulla  tomba di un poeta giovane e sconosciuto, che visse segnato profondamente dalla malinconia,  pensa che il Cielo gli abbia infine concesso il riposo cui anelava, mentre il  retaggio della vita terrena dimora sicuro nel  petto del suo Padre e del suo Dio. 
      Di tutt’altro  tenore e senso è la conclusione della poesia di Eminescu: 
    Se penso alla mia vita, mi par che essa scorra 
        narrata in un sussurro da una lontana  voce, 
        come se non fosse la mia vita, come se  non ci fossi più. 
        Chi è costui che ne recita la trama, 
        che ruba il mio orecchio, e io rido di ciò  che sento, 
        come fossero dolori altrui? A me par  d’esser morto da secoli. 
    È una malinconia  che non si affaccia su alcuna consolazione a dominare questa poesia, uno  scenario desolante, sopportabile solo quando non si ha più la sensazione della  vita. Per il poeta, è come se gli fosse stata estranea, è così lontana e  incomprensibile che gli pare d’essere morto da secoli; rimane un vago, sinistro  ricordo, narrato da una bocca sconosciuta che il poeta irride perché quello non  è più nemmeno il suo dolore, che il nulla ha già assorbito. 
      I corsi  universitari frequentati da Eminescu a Vienna dal 1869 al 1872, e a Berlino  negli anni 1872-74, hanno depositato il loro lascito. E’ accertato che le  preferenze di Eminescu si indirizzarono verso l’opera di Kant, Hegel, Schopenhauer,  e il pensiero dei primi filosofi greci. 
      Eminescu sa che  i greci avevano cercato la salvezza nella verità intesa come epistéme, e sa anche che un tale  processo, come insegnano Eschilo ed Eraclito, conduce al polo opposto: è  proprio la verità a convincerci dell’evidenza del fluire della vita verso il  nulla dal quale proveniamo. 
      Rimane l’arte,  la poesia. Ora, per Eminescu l’arte ha sì un valore gnoseologico, ma non può  rappresentare la soluzione del problema di fondo dell’esistenza umana. 
      È opportuno,  qui, fare una breve digressione sul valore che Eminescu attribuisce alla poesia  nella vita dello Spirito. All’inizio della sua produzione, Eminescu non nutre  dubbi nell’assegnare al poeta una missione eroica. La concezione della poesia  come arte evocatrice, magica, come salvezza dalla finitudine emerge, come  abbiamo visto, sin dal suo primo componimento, In morte di Aron Pumnul. Successivamente, il pensiero di Eminescu  si fa più oscillante. Se in alcune liriche mostra di aderire alla concezione  schopenhaueriana dell’arte come consolazione dal dolore e dal tedio della vita,  in quelle della maturità artistica notiamo un sensibile allontanamento dalla  fede in una poesia animatrice ed eroica. 
      Per comprendere  l’inversione di tendenza, partiamo da un’osservazione di Rosa Del Conte: «Eminescu  è poeta di struttura teleologica, ed è un tratto fondamentale della sua psiche  questa capacità, oltreché questo bisogno, di ‘vivere e sperimentare in funzione  di un fine’». 
      Il giudizio  della studiosa appare giustificato; in effetti, Eminescu si dimostra  costantemente proteso ad affermare la prevalenza dell’etico sull’estetico, e  ripudia la concezione di un’arte descrittiva e soggettiva. Ma proprio per  questo, quando prende coscienza della vanità della vita, quando vede cadere i  suoi ideali e la storia gli rivela il suo volto tragico, l’epos mitico ed  eroico non trova più lo spazio e l’adesione di un tempo. 
      L’ultimo  Eminescu non si fa più illusioni: se la poesia rappresenta una possibilità di  resistere alla distruzione operata dal tempo, essa però fallisce nella pretesa  di universalità, nella capacità di dare all’esistenza un senso che questa non  ha. 
    Nella Preghiera di un daco (1879) la morte,  intesa come un vero e proprio annichilimento dell’io, incombe dal primo all’ultimo  verso. Il poeta, benché solo ventinovenne, ha già eretto un solido recinto  pessimistico intorno alla propria vita ferita. 
      Non c’è studioso  di Eminescu che non abbia sentito l’urgenza di esprimere le sue impressioni su  questa tragica, disperata poesia. Emil Cioran, nel 1943, scriveva: «Eminescu ha  vissuto nell’invocazione del non essere. E questa invocazione si dispiega tra  una sensazione materiale, che è il freddo della vita, e una sorta di preghiera,  che ne è il compimento, la realizzazione. La  Preghiera di un Daco, uno dei poemi più disperati di tutte le letterature,  è un inno all’annullamento». 
      Molti anni dopo,  in una lettera del dicembre 1988 indirizzata a Marin Mincu, Cioran tornava  sulla poesia con un giudizio che appare legato all’antropologia di un intero  popolo: «Questo Daco, evidentemente, parla in suo nome, ma la sua desolazione  ha radici troppo profonde perché lo si possa ridurre a una fatalità  individuale. In verità noi proveniamo sempre da Lui, noi perpetuiamo la sua  amarezza e la sua rabbia, per sempre circondati dal nembo delle nostre  disfatte. Non dimentichiamoci di rammentare che il poeta era giovane quando  scrisse questa spaventosa ed esaltante messa in discussione dell’esistenza. Una  tale apoteosi negativa non poteva avere un senso se non fosse stata l’emanazione  di una vitalità intatta, di una pienezza che si rivolge contro se stessa. (…)  Che Eminescu abbia capito tutto sin dall’inizio, la sua preghiera, la più  chiaroveggente, la più impietosa che sia mai stata scritta, è là per provarlo». 
      La poesia è  costruita su una drammatica frattura ontologica. Nella prima parte emerge  quella che appare la necessità di un  Principio trascendente, del Demiurgo il cui spirito creatore si rivela al poeta  nell’aurora cosmica che ha visto irrompere la luce, i mondi, le genti: 
       
      Quando non c’era la morte e nulla era  immortale, 
      neppur di luce il seme da cui vita si trae, 
      quando non c’era oggi, né domani, né ieri, né  sempre, 
      perché il tutto era uno e l’uno era il tutto, 
      quando la terra, il cielo, l’aria e il mondo intero 
      avean l’ordine di ciò che mai non fu, 
      allora Tu solo esistevi, onde a me stesso chiedo: 
      Chi è dunque il Dio cui i nostri cuor s’inchinano? 
    Egli solo fu Dio, prima di ogni Dio, 
        e dall’acquoreo abisso accese la scintilla. 
        Egli dà vita agli dei e gioia al mondo, 
        e di salvezza agli umani è eterna fonte. 
        In alto levate i cuori! A lui si alzino i canti! 
        Egli è la morte della morte, la resurrezione della  vita. 
    Egli mi ha dato gli occhi per contemplar la luce, 
        e di conforti pietosi mi ha colmato il cuore, 
        nel fremito dei venti ne ho riconosciuto il passo, 
        e nell’estasi di un canto il dolce accento. 
        Eppure, in più di tutto questo, un altro dono  imploro, 
        che mi apra le porte della morte eterna. 
    Riassunto della  concezione platonica relativa all’essere e il nulla, sono versi che paiono  prefigurare l’istante che ha preceduto il big bang da cui tutto ha avuto  inizio. Nulla esiste, solo il Demiurgo che accese la scintilla, che diede vita agli dei e gioia al mondo, la morte della morte, la resurrezione della  vita. È il Dio che è fonte di eterna redenzione, che ha donato al daco gli  occhi per vedere la luce del giorno, e riempito il suo cuore con l’incanto  della pietà. 
      Eppure, a questo  stesso Dio il poeta chiede un ultimo, decisivo dono: la morte, la morte eterna. 
      Ha inizio qui  quella che Rosa Del Conte ha denominato la retractatio del Daco, la conversione in bestemmia dell’adorante preghiera: 
    Che egli maledica chi avrà pietà di me 
        e benedica chi mi colpirà, 
        ascolti ogni voce che mi deride  
        e dia vigore al braccio che mi ucciderà, 
        che sia il primo fra gli umani 
        chi dal mio capezzale toglierà la pietra! 
    Che discacciato da tutti io passi la mia vita 
        finché negli occhi mi resteranno lacrime, 
        ch’io senta in ogni uomo nascer per me un nemico, 
        e persino a me stesso diventi uno straniero. 
        Che il tormento e il dolore, impietriti i sensi, 
        mi facciano maledir la madre amata. 
        E quando l’odio più atroce mi parrà amore, 
        oblio avrà la mia pena e allor potrò perire. 
    E se morrò straniero e maledetto, 
        le mie indegne spoglie le gettino per strada! 
        E a chi aizzerà i cani a dilaniarmi il cuore 
        regala una preziosa corona, o Padre, 
        e a colui che il volto mi tempesterà di pietre, 
        donagli, o Signore, eterna vita! 
    Solo così, o Padre, potrò ringraziarti 
        d’avermi messo al mondo. 
        Per questi doni, né fronte né ginocchio piego, 
        io voglio costringerti alla bestemmia e all’odio, 
        sentir che nel tuo soffio si spezza il mio respiro 
        e che nel buio eterno senza traccia dileguo.  
    Nell’antologia  poetica Il Genio della Morte (2000),  il poeta toscano Sauro Albisani interpreta il desiderio di morte del daco come  manifestazione dello spirito mioritico romeno. «Il daco di Eminescu», scrive  Albisani, «invoca la morte come liberazione assoluta e possibilità di integrazione  nella serenità cosmica». 
      Ma l’eterna estinzione  anelata dal daco si traduce in un veemente grido di ribellione contro la  suprema potenza del cosmo. Il daco ha visto naufragare la sua visione del mondo:  l’essere era il nulla e il nulla tornerà ad essere. L’uomo è solo, perduto in  un divenire cosmico di cui non afferra il senso. Consapevole di ciò, l’estremo  dono che il daco chiede alla Divinità è una distruzione del sé, un annullamento  totale del proprio essere. 
      «Negli accessi  di disperazione, il solo ricorso salutare è l’appello a una disperazione ancora  più grande»; così Cioran, nella lettera a Marin Mincu sopra citata. Nel crudo commento  di Cioran leggiamo una precisa interpretazione: abbandonando la finzione del  personaggio, Eminescu si identifica col daco. Il poeta ha già conosciuto le pesanti traversie e il dolore della  vita, e inveisce contro la propria esistenza. Si sente egli stesso un daco, e  come Decebalo vuole celebrare il proprio sacrificio con il dono di una morte  dolorosa ed espiatrice. Il terribile anatema si estende alla madre amata, a  ogni uomo, a ogni creatura. Siamo dinanzi a un cupio dissolvi che non risparmia niente e nessuno; solo se morrà  straniero e scomunicato, solo se il suo cadavere verrà vilipeso, il daco potrà  ringraziare Iddio per averlo messo al mondo. 
      La Preghiera maschera un deicidio: il daco  vorrebbe costringere il Dio creatore a odiare e maledire l’uomo cui è stata  concessa la vita, ma che ha visto la via della salvezza diventare una via di  perdizione. Non c’è speranza per chi cercava nel sacro la verità dell’essere e  ha trovato la sconfitta e il dolore, nel nulla di un divenire di cui non  afferra il senso. Un creatore può generare il nulla? La risposta di Eminescu è  in una metafisica aperta al senso cosmico del divino e indifferente a qualsiasi  religione rivelata. 
    La lirica Un sol desio mi resta (1883) è una  lenta, triste accumulazione di immagini che rimandano a una languida  accettazione della morte e al sentimento di un’irrimediabile separazione dal  mondo, che giunge al disfacimento del ricordo stesso della vita. Il tema della  poesia, il suo timbro, il linguaggio, hanno una connotazione nettamente  romantica; più di altre liriche di Eminescu, Un sol desio mi resta si  presta ad affascinanti interpretazioni e parallelismi con altri capolavori  della poesia di ogni tempo. Data l’importanza di questa composizione, ne  riportiamo il testo integralmente: 
    Se fra non molto m’addormenterò 
        nella notte dell’oblio, 
        portatemi a seppellire in silenzio 
        sulla riva del mare. 
    Non voglio ricco feretro 
        fiaccole né bandiere, 
        ma intrecciatemi un letto 
        di giovani rami. 
    Mi sia lene il sonno, 
        e il bosco accanto, 
        risplenda un ciel sereno 
        sullo specchio dell’acque: 
        dell’acque che in profondo dolore 
        si ergono contro le sponde, 
        e appendersi vorrebbero agli scogli 
        con braccia di flutti; 
        e s’innalzano, ricadono  
        e mormorano sempre, 
        mentre sui boschi d’abete scivola la  luna. 
    E che nessun superstite 
        mi pianga al capezzale, 
        dia voce la Morte al secco fogliame; 
        lieve passi nel vento 
        la Sapientissima 
        e il sacro tiglio versi 
        fiori su di me. 
    Poi che non sarò più ramingo 
        da quel giorno in poi, 
        e, pietosi, mi seppelliranno 
        i miei ricordi, 
        e gli astri d’argento, che sorgono 
        nell’ombra dei rami d’abete, 
        torneranno allora a sorridermi, 
        e ad essermi amici. 
    Poi che sapranno che non soffro più 
        del dolore del mondo, 
        mentre cresceran le liane 
        sul mio sepolcro ignoto.  
    Dal senso di  esclusione di chi ramingo ha percorso  il cammino della vita nasce uno stato d’animo di profonda afflizione, tendente  all’elegia. E’ una solitudine, una cancellazione di se stesso che il poeta  vuole protratta anche dopo la morte; non è nel ricordo degli uomini, ma nella fusione  col cosmo e i suoi elementi che sarà ancora possibile ritrovare un sorriso, un  anelito di vita. 
      Impossibile non  fare il raffronto con la libido moriendi  e la volontà di dissoluzione che troviamo  nella splendida Ode a un Usignolo di  John Keats (1795-1821). Nell’opera di questo grandissimo poeta, che come è noto  morì a soli 26 anni, due temi ricorrono costantemente: l’amore per la poesia e  il pensiero della propria morte. E l’Ode  a un usignolo fu composta da Keats nel 1819, quando il poeta, già abbattuto  per la scomparsa del fratello Tom, si rese conto che non sarebbe sfuggito alla  morte per tubercolosi. 
      La lirica  incarna il dissidio fra il sogno (simboleggiato dal canto eterno dell’usignolo)  e la realtà di una vita “dove il pensare stesso è riempirsi di dolore”e dalla  quale il poeta vorrebbe distaccarsi per entrare voluttuosamente nelle braccia  della morte: 
    Sparire lontano, dissolvermi, e dimenticare poi 
        ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto: 
        la stanchezza, la febbre e l’ansia 
        qui, dove gli uomini ascoltano il reciproco lamento, 
        dove il tremito scuote gli ultimi, tristi capelli  grigi, 
        dove la gioventù diventa pallida, magra come uno  spettro, e muore; 
        dove il pensare stesso è riempirsi di  dolore… 
    Versi di  un’altezza insuperabile, come quelli, successivi, dove Keats invoca la morte affinché  si porti via il suo respiro nell’estasi del «requiem altissimo» dell’usignolo: 
    E mai come adesso m’è sembrato ricco il  morire: 
        spegnersi a mezzanotte, senza dolore, 
        mentre tu butti fuori l’anima 
        in un’estasi stupenda! 
        Tu canteresti ancora: e invano avrei orecchi, 
        io diventato zolla dinanzi al tuo  requiem altissimo. 
    Il canto dell’usignolo,  che generazioni di uomini hanno ascoltato rapiti, è l’armonia e la bellezza della  Natura, che però assiste impassibile alle vicende umane. Come Eminescu, Keats  invoca ardentemente la morte; tuttavia, il poeta inglese si mostra più incline  ad accettare la fine della sua labile esistenza, in nome di quella Bellezza che  rimane la suprema istanza della sua poesia. 
    Un pacato, quasi  gioioso abbandono al riposo eterno troviamo anche nel notissimo Anelito alla morte, il VI degli Inni alla Notte del poeta tedesco  Novalis (1772-1801): 
    Sia lodata da noi l’eterna notte, 
        sia lodato il sonno eterno. 
        Ci ha riscaldati il torrido giorno, 
        ci ha fatti avvizzire il lungo affanno. 
        Non ci attraggono più terre straniere, 
        vogliamo tornare alla casa del Padre. 
    Come Eminescu, Novalis  anela e loda l’oblio del sonno eterno. Ma il poeta tedesco è uno spirito  religioso, e associa la morte al distacco dalle ‘terre straniere’ della vita,  bramando il ritorno nella pace della dimora del Padre. 
    Altrettanto giustificato  e suggestivo ci sembra l’accostamento di Un  sol desio mi resta con il Sonetto 71 di Shakespeare, incentrato anch’esso sulla cancellazione del ricordo, anzi,  della dimenticanza dello stesso nome dell’autore della lirica. Ecco i versi del  poeta inglese: 
    Più a lungo non piangermi quando sarò morto, 
        del tempo che udrai la tetra lugubre campana 
        avvertire il mondo che io sono fuggito  
        da questo vile mondo ad abitare coi più vili vermi. 
        Anzi, se leggerai questi versi, non ricordare 
        la mano che li scrisse, perché io ti amo tanto 
        che dai tuoi dolci pensieri vorrei esser  dimenticato, 
        se pensare a me allora dovesse addolorarti. 
    C’è in  Shakespeare la stessa determinazione a voler essere dimenticato dalla persona  amata, e definitivamente occultato agli occhi del mondo. E tuttavia nelle meravigliose  composizioni di Shakespeare e di Eminescu non c’è ombra di nichilismo, di  insensibilità, perché il loro senso ultimo si risolve in un atto d’amore. Il  canto di Thanatos, infatti, sfocia nella philìa, se non nell’agape: entrambi i poeti conoscono il  dolore dell’anima e non vogliono perpetuarlo nelle persone che li hanno amati. 
      Diverso è invece  il timbro poetico: in Shakespeare cogliamo una maggiore dolcezza, mentre i  versi di Eminescu comunicano un senso di vertigine. Il poeta si augura la totale  dissoluzione, materiale e spirituale. È una tristezza cosmica, resa con parole  semplici, ma terribilmente rivelatrici. Dal momento della morte avrà finito di andare  randagio nel mondo senza capirlo e senza essere capito. Nella tomba, inizialmente,  lo accompagnerà solo la pietà di chi è consapevole che il poeta non soffre più;  infine, nessuno ricorderà più né lui né il suo dolore. 
      Assente il desiderio  rabbioso di annullamento della Preghiera di  un Daco, siamo però allo stesso livello nella volontà di sparire dalla  memoria e dalla compassione degli uomini. A nulla valgono i riti che vorrebbero  portare un residuo di vita là dove è subentrato il nulla: ‘eu voi fi pămȃnt’,  ‘io diventerò terra’.  
      Sauro Albisani  si dice convinto che Un sol desio mi  resta «rappresenti un testo assolutamente centrale che è qualcosa di più di  una dichiarazione di poetica perché è un credo ontologico (…) tutto racchiuso  nell’ottativo iniziale ‘să mă lăsați să  mor’, ‘che io possa morire’: una  volta di più, come nella Miorița,  l’autocancellazione dell’io postula una compenetrazione dello stesso nella coralità  della realtà naturale». 
      A conferma  dell’importanza di questa poesia, Giovanni Rotiroti, nel pregevole contributo Mai am un singur dor: Mihai Eminescu e l’anelito del Reale, pubblicato  negli Annali – Sezione Romanza –  LVIII, 1, dell’Università partenopea «L’Orientale»,  scrive: «Mai am un singur dor (…) è  un testo fondamentale per la strutturazione e la codifica di una nozione,  quella del dor, che costituisce uno  dei nuclei identitari della cultura romena». Suggellando la cifra misteriosa  del dor, prosegue Rotiroti, «questa  poesia testimonia il sogno o il desiderio di una reintegrazione cosmica, o,  come scrive Ioana E. Petrescu, essa rappresenta la celebrazione ‘attraverso la  morte della reintegrazione dell’essere ‘errante’ in una patria cosmica  irrimediabilmente perduta’». 
      La conclusione  dello studioso è che il dor emineschiano andrebbe inteso come anelito del Reale inattingibile in vita, come  una pulsione all’immedesimazione col cosmo, con quell’Assoluto che costituisce  per Rosa Del Conte l’ossessione di Eminescu. Una conclusione vicina a quella  espressa, nel lontano 1935, dal poeta e filosofo Dan Botta nel saggio sul Bello romeno: Eminescu risente della  concezione tracia dell’esistenza, per la quale il contatto dell’uomo con  l’anima cosmica è possibile solo nella possessione sacra e infinita della  morte. 
       
      Citando di  passaggio altre poesie in cui si insinua il tema della morte (e ti guardo indifferente / con freddo  occhio di morto, (Accanto ai pioppi dispari); come un sogno d’eterna morte è la vita dell’universo (Imperatore e  proletario); Non avrei creduto mai d’imparare  a morire (Ode in metro antico); l’anima  mia sconsolata / cullando in un desiderio di morte (Dietro i picchi),  arriviamo a Luceafărul, dai più considerato  il vertice della produzione emineschiana. Come sottolinea la romenista Luisa  Valmarin, in questo splendido poema, che richiese anni di perfezionamento, il  poeta «rappresenta il suo stesso mito, trasfigurandovi il dramma della sua condizione  umana». È altresì evidente che in Luceafărul sono riflessi alcuni dei motivi fondamentali della poesia universale: l’amore e  la morte, il divino e l’umano, la dimensione onirica e quella reale, l’effimero  e l’eterno. 
      Tutto questo, reso  con una versificazione impareggiabile, un caleidoscopio ricco di vibrazioni,  sfumature, variazioni ritmiche, godibili, ovviamente, solo nella lingua  originaria, come non ha mancato di sottolineare George Călinescu: «È forse  addirittura un errore inculcare in chi ignora la lingua che Luceafărul sia da solo un capolavoro (il  che è vero) perché l’operazione della traduzione fa sì che scorrano via la  linfa della lingua, l’ineffabilità del verso romeno, lasciando alcune arterie  di idee che di per se stesse non hanno niente di originale, anzi possono  sembrare luoghi comuni romantici» (Călinescu, Opere, 1936, IV: 254-255). 
      Ribadito che  forma e contenuto sono sempre intimamente connessi, che per Eminescu la lingua  (e dunque la poesia) è depositaria e  custode dei tesori spirituali tipici di ogni popolo, è sicuramente possibile,  specialmente in presenza di una buona traduzione, pronunciare giudizi di valore  sensati su un’opera letteraria; se non fosse vero quanto affermo, dovremmo  gettare alle ortiche migliaia di ottimi contributi critici su romanzi, poemi,  saggi, poesie, racconti, prodotti da studiosi ben poco ferrati nella lingua dell’autore  che commentavano. 
      Come precisato  in Geografia e storia della civiltà  letteraria romena nel contesto europeo, apprezzato saggio letterario curato  da Bruno Mazzoni e Angela Tarantino, era stato lo stesso Eminescu, in una nota  contenuta nel manoscritto 2275B, a indicare la fonte e il senso del poema: «Nel  descrivere un viaggio nei paesi romeni, il tedesco K. (Richard Kunisch, autore  della fiaba da cui Eminescu trasse ispirazione, n.d.a.) narra la leggenda di  Espero. Questa è la fiaba. Ma il significato allegorico che le ho dato è che se  il genio non conosce la morte e il suo nome sfugge alla notte dell’oblio,  d’altra parte, qui sulla terra, né è capace di rendere felice qualcuno, né è  capace di essere felice. Egli non conosce la morte, ma non ha neppure fortuna.  Mi è parso che la sorte dell’astro della fiaba somigli molto alla sorte del  genio sulla terra e le ho dato questo significato allegorico» (Eminescu, 1942,  II). 
      Dunque, una  Divinità immortale vuole morire per scambiare una destino di eternità, ma  freddo e immateriale, con la carnale felicità terrena. Nella seconda sequenza  del poema, Espero precipita in mare, e riemerge con le sembianze di un giovane  principe; nella terza sequenza avviene la seconda metamorfosi di Espero, che si  spegne e rinasce trasformato in una bella creatura. Avendo preso coscienza  della natura demoniaca dell’astro, Catalina gli chiede di rinunciare alla sua  natura fredda e immortale. Espero accetta e nella quinta sequenza chiede alla  Divinità di essere liberato dall’immortalità, richiesta che non viene accolta.  Perciò, Espero non avrà la vita che desidera; non morirà, ma non conoscerà  l’amore dei mortali. 
      Scrive Marco  Cugno: «I due mondi, che hanno tentato il contatto, nella visione emineschiana  rimangono alla fine separati. L’opzione finale di Espero-Iperione sarà quella,  schopenhaueriana, della solitudine contemplativa del genio». 
      Come indicato  dallo stesso Eminescu, l’impossibilità del Genio di essere felice è il  tema-principe di Luceafărul, che  tuttavia reca con sé un convitato non meno regale, e antico quanto la stessa  poesia: l’ineliminabile binomio Eros-Thanatos.  Nel capolavoro di Eminescu muoiono anche gli Dei, e l’amore si identifica con  la morte. Catalina possiede la vita e l’amore, ma è destinata alla morte  eterna; Iperione possiede la vita eterna ma desidera la vita dell’amore, benché  questa si consumi nella morte. «L’intuizione fondamentale di Eminescu», chiosa Sauro  Albisani nell’antologia già citata, «doveva essere stata quella del substrato  unanime della morte». 
      È un’osservazione  che ci pare di poter estendere all’intera produzione del poeta. Nel vasto e  magmatico universo poetico di Eminescu, solo la morte non ha nulla di  indefinito e di misterioso; la morte è la realtà sovrana, l’unica realtà. 
      In un brano  della più volte citata monografia emineschiana, Rosa Del Conte osserva che «sono  le piccole morti sempre aperte sulla grande morte» ad opporsi ontologicamente  all’inclinazione del poeta a proiettare i suoi ideali nell’infinito. 
      La «grande morte»:  è questo l’Assoluto nel quale potremmo far convergere il pensiero della  studiosa italiana. Eminescu è un’anima assetata di Assoluto, di una fusione  spirituale col cosmo. Ma ciò non è alla nostra portata, e quando il poeta ne  prende coscienza ripiega verso un altro Assoluto, ben altrimenti attingibile: la  voluttà di un abbraccio con cui tutto ha termine, tutto si dissolve. 
      Come per altri autori,  in Eminescu cogliamo la tristezza di chi è nato poeta; ma nel letterato romeno troviamo  qualcosa di più tragico, il tormento di una persona che scrive come se la morte  fosse sempre imminente. Vinta la battaglia per trovare la propria cifra poetica,  Eminescu ingaggia un altro combattimento, una delle più drammatiche alternanze  tra fede e scepsi riscontrabili nel mondo letterario. È nella natura-madre che  si incarna la prima; ma è nella continua lotta contro la scepsi morale che  Eminescu consumerà gran parte della sua vita. Il doloroso approdo è la brama del  dissolvimento nel nulla, qualcosa di diverso da quel non voler esistere espresso da altri poeti romantici. 
      Nonostante i  grandi esiti raggiunti nel campo poetico, rimane la sensazione che Eminescu dovesse  ancora rivelarci qualcosa. La brevità della sua esistenza può spiegare questa  nostra impressione. Leopardi ha rivelato, in prosa e poesia, l’intero mondo  interiore. Il poeta recanatese è sempre incline alla riflessione, vigila  continuamente su ciò che vede e che si riverbera nel suo animo. Eminescu sembra  a volte inconsapevole di ciò che gli accade intorno, ed così che si spiega lo  splendore delle sue metafore: ciò che viene rimosso dalla nostra psiche ritorna  sotto forma di sogni, di immagini, di simboli, e non c’è attività umana che più  della poesia possa captare certi segni e interpretarli.    
      Nella poesia che  nasce dalla lacerazione di un animo che ama la vita, ma che cammina  costantemente a fianco della morte, non c’è alcuna retorica, nessun’astratta  proclamazione di poetica. Piegato da un destino che non poteva interpretare, Eminescu  è riuscito a salvare la sua essenza grazie a quel profondo senso di  partecipazione alla condizione umana che è privilegio dei poeti più grandi. 
     
       
    
  
        Armando Santarelli 
      (n. 7-8 luglio-agosto 2019,  anno IX)        | 
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