Un segreto ben tenuto: il romanzo antico

Dare una definizione precisa del genere letterario che chiamiamo «romanzo» e fornire una datazione condivisa circa la sua nascita è impresa proibitiva, forse impossibile. Tuttavia, gli studi sul romanzo, e in particolare quelli relativi alla sua genesi e alla sua continuità storica, hanno segnato negli ultimi decenni un progresso notevole, che ci consente di fornire risposte plausibili a tali questioni.
Più agevole affrontare la prima: gli studiosi di teoria della letteratura concordano in modo significativo sulla definizione del romanzo come un’opera di fantasia (sebbene possa contenere elementi realistici) espressa in prosa e di una certa lunghezza. Sono criteri di classificazione decisamente accettabili; la poesia, per esempio, si discosta molto nelle tecniche e nei tropi dal genere che abbiamo appena delineato.
Detto questo, è necessario sgombrare il campo da un’annosa e ormai superata distinzione: quella tra romance e novel. Com’è noto, è stata la tradizione anglosassone a creare il termine romance, con l’intento di identificare, piuttosto che un genere, una narrazione fantasiosa, leggera, lontana dal modello del realismo in auge nel Diciottesimo secolo. Oggi la maggior parte dei teorici della letteratura rigetta una tale classificazione: romance e novel sono una cosa sola. «La separazione tra loro», scrive la filologa canadese Margaret Doody, «è parte di un problema, non di una soluzione».

Più difficile, fonte di accese e interminabili controversie, la seconda questione: quando è nato il romanzo? Ancor oggi su alcuni testi di storia della letteratura leggiamo che il romanzo sarebbe nato in Inghilterra con l’avvento del Protestantesimo e l’ascesa della nuova borghesia capitalistica. I sostenitori di questa tesi (cioè soprattutto il mondo anglofono) fanno riferimento a opere come Robinson Crusoe (1719) e Moll Flanders (1722) di Daniel Defoe, I Viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, Pamela (1740) di Samuel Richardson, Tom Jones (1749) di Henry Fielding e altri.
Ora, questi studiosi potrebbero aver ragione se inquadrassimo il romanzo nell’ottica di una ‘moderna epopea borghese’, per dirla con Hegel. Ma per molti critici e teorici della letteratura un tale limite storiografico esprime una visione settoriale, che non regge a una valutazione allargata ad altre epoche storiche. Infatti, come escludere dal genere romanzo capolavori antecedenti il Settecento inglese e provenienti da ogni regione d’Europa, come, L’Astrée (1607) di Honoré d’Urfé, L’avventuroso Simplicissimus (1669) del tedesco Hans Jakob von Grimmelshausen, La principessa di Clèves (1678) di Madame de La Fayette, Le avventure di Telemaco (1699) dell’arcivescovo Fénelon?
E che dire del Siglo de Oro spagnolo, epoca che vede la pubblicazione di quello che diversi studiosi considerano il primo romanzo moderno, il Don Chisciotte (1605-1615) di Miguel de Cervantes, e di opere come Guzmán de Alfarache (1599-1604) di Mateo Alemán e la Vita del Pitocco (1626) di Francisco de Quevedo?

In realtà, gli incessanti studi critici e filologici del secolo scorso hanno permesso di arrivare a conclusioni ancor più rigorose e inclusive. Per il filosofo e critico letterario Mihail Bachtin è nel Rinascimento che possiamo collocare la data di inizio del genere «romanzo», grazie a opere come Arcadia (1501) dell’italiano Jacopo Sannazaro, Pantagruel (1532) e Gargantua (1534) di François Rabelais, Lazarillo de Tormes (1554, anonimo), La Diana (1559) di Jorge de Montemayor.
Ma secondo altri studiosi la retrodatazione potrebbe andare ben oltre: infatti, in quale genere letterario inserire le opere in prosa del secolo XII di Chrétien de Troyes, come Il Cavaliere della carretta (1177-1181), primo testo a mettere in scena Lancillotto e l’amante Ginevra, e il Parsifal o Racconto del Graal, collocabile intorno al 1190?
Pur essendosi fermato al Rinascimento, Bachtin non ignorava gli studi filologici sulle opere classiche. In Estetica e Romanzo (volume pubblicato postumo nel 1975) il russo aveva esteso la sua indagine critica ai romanzi dell’antichità, ritenendo di non poterli inserire nel genere letterario «romanzo» in quanto privi di un vero potenziale di evoluzione, oltre che della necessaria introspezione psicologica. In questi romanzi, osservava Bachtin, è il caso a determinare gli eventi; il punto di partenza è il primo incontro del protagonista con una fanciulla e lo scoppio improvviso della passione; il punto d’arrivo è la loro felice unione in matrimonio. Una cornice – concludeva – entro la quale rimangono indefiniti sia i necessari indici umani di misura sia il tempo storico in cui la vicenda si svolge.
La disamina del romanzo antico da parte di Bachtin è senz’altro lucida e in parte condivisibile; e tuttavia oggi incontra il disaccordo di quasi tutta la moderna critica filologica. Il motivo principale è insito, paradossalmente, nella stessa concezione bachtiniana del romanzo. È stato, infatti, il critico russo a vedere nel romanzo una forma aperta e dalle potenzialità plastiche, a sottolinearne la capacità di un inesauribile rinnovamento, di essere sempre giovane e in divenire. Ma allora – obietta la critica moderna – perché non convenire sul fatto che tale forma plastica esistesse anche nell’antichità e sia stata modellata da mani che agivano sulla stessa materia che un giorno, lavorata più finemente, avrebbe dato origine al romanzo moderno?

Una delle più sottili interpreti dell’epopea del romanzo è senz’altro Margaret Doody, autrice del notevole The true story of the novel, opera pubblicata nel 1996 (trad. La vera storia del romanzo, Sellerio, 2009). «Il romanzo», scrive la Doody, «offre segretamente – ma non impone – una terapia con lunghe radici e un lungo rituale. Le sue origini mitiche sono così profonde che il romanzo è molto meno suscettibile alla moda e ai fenomeni transitori di quanto non sembri, essendo in sé stesso un modo meraviglioso per incorporare e interpretare la cultura corrente». Ecco svelato, dunque, quel «segreto molto ben tenuto» cui la Doody ha dedicato il suo magistrale studio analitico. Il romanzo – sostiene la studiosa – non è una forma letteraria dei tempi moderni, né un genere solo occidentale. Il romanzo ha una storia continua di oltre duemila anni; affermare ciò equivale ad avallare un mutamento storiografico che non deve stupire, perché i legami del romanzo antico col nostro sono dimostrabili.
In effetti, quanto più si studia il genere romanzo tanto più si comprende quanto siano profonde le sue radici e quanto sia giustificato retrodatare questa forma letteraria nell’antichità. Ma in quale antichità? La Doody e altri importanti esegeti collocano la genesi del romanzo nel mondo greco-latino. Non nutre dubbi, in questo senso, l’autorevole classicista americano Ben Edwin Perry, che in The ancient romances (1967) ha sostenuto con forza l’essenziale grecità della letteratura, condensandola in una formula divenuta famosa: «Il romance greco è essenzialmente teatro ellenistico in forma narrativa». Successivamente, è stato Arthur Ray Heiserman, in The Novel before the Novel (1977, opera postuma) a indagare gli intrecci, il contenuto, il senso del romanzo classico, mostrandone i legami con quello moderno.

Ma quali sono le opere dell’antichità che più hanno influito sulla formulazione della tesi di cui parliamo? Per quanto riguarda il mondo greco abbiamo quattro testi completi: Il romanzo di Calliroe (50 a.C. – 140 d.C.), opera di Caritone di Afrodisia, vissuto tra il I e il II secolo; Le avventure di Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio (150 – 200 d.C.); Gli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (II secolo d.C.); Le Etiopiche di Eliodoro (250 – 380 d.C. circa). In riferimento al mondo latino possediamo due opere di grande importanza, il Satyricon di Petronio (I secolo d.C.) e Le metamorfosi (o L’asino d’oro) di Apuleio (160 d.C. circa).
Il punto di vista della Doody, di Perry, di Heiserman e di chi colloca la nascita del romanzo nel mondo greco-latino ha diversi alleati. Uno dei più importanti è costituito dall’elemento psicologico. La Doody sottolinea con forza come l’affermazione di Bachtin relativa all’assenza di introspezione nel romanzo antico incontri delle sicure smentite. Un esempio lo troviamo nelle Metamorfosi di Apuleio; Lucio è al contempo un io e, nelle sembianze dell’asino, un io alienato dal proprio. Non minore rilevanza ha lo sfondo psicologico in cui si muovono i personaggi quando emergono in situazioni particolari; anche qui possiamo fare riferimenti precisi, per esempio al Romanzo di Calliroe di Caritone, con le riflessioni egoistiche e ansiose di Dionisio con sé stesso. Come giustamente osserva la studiosa canadese, le idee di vita interiore, di io e di profondità psicologica variano considerevolmente da un’epoca all’altra. I caratteri e la psicologia dei personaggi dei romanzi ottocenteschi non sono certamente assimilabili a ciò che riscontriamo nei protagonisti delle opere moderne e contemporanee. Se nei personaggi del romanzo antico non troviamo la profonda introspezione del romanzo moderno, c’è però in essi una forte dose di erotiká pathémata, di sofferenza amorosa che non di rado sfocia nel sensazionale, nel dramma, ma anche nel comico. La tendenza del romanzo greco, ad esempio, è quella di descrivere una persona che è al di fuori della struttura di potere e allo stesso tempo immerso nell’amore o in esperienze vissute spiritualmente e intensamente.

Sostegno importante per la tesi della continuità storica del romanzo è la considerazione degli archetipi e dei tropi, quei simboli narrativi che da tempo immemore i narratori si trovano a ripetere in maniera più o meno consapevole. Eros – che rimane fra i tropi fondamentali della letteratura di ogni tempo – è uno di questi. L’amore romantico e i concetti poetici che ne derivano, che molti collegano alla letteratura medievale, rinascimentale e romantica, è in realtà molto più antico di queste epoche, e lo troviamo in tutte o quasi le opere classiche citate. In Leucippe e Cletofonte di Achille Tazio leggiamo queste parole: «Non appena la vidi fui subito perduto; perché la bellezza ferisce più profondamente di una freccia, e attraverso gli occhi penetra nell’anima: l’occhio è la strada per la ferita d’amore». In Dafni e Cloe, Eros dice a Fileta “sappi che fiori e alberi qui sono così belli perché innaffiati dall’acqua in cui mi bagno”. Questo splendido romanzo contempla l’ingenuità dell’amore giovanile, ma anche le inquietudini che esso ingenera, comprese quelle sessuali; il sentimento che lega Dafni e Cloe si evolve in armonia con la natura e le stagioni, e contribuisce a dare senso al Tempo della vita. Ancora, nella meravigliosa storia di Cupido e Psiche, raccontata nei libri IV-VI dell’Asino d’oro, troviamo tutte le manifestazioni di Eros, comprese quelle più sconcertanti e dolorose.
Insieme a Eros, è il tropo della sacralità a caratterizzare la narrativa di ogni tempo. Sulla scia delle intuizioni del critico francese Pierre Daniel Huet (di cui tratteremo più avanti), il filologo e studioso di mitologia Károly Kerényi, in Die Griechisch-Orientalische Romanliterature in religionsgeschichtlicher Beleuchtung (Il romanzo greco alla luce della storia delle religioni - 1927) evidenzia l’influenza della letteratura religiosa egiziana e orientale sui romanzi antichi; la ricorrenza di Iside e i progressi dell’anima al servizio di un dio o una dea rappresentano sicure conferme di questa interpretazione. Accogliendo le idee di Kerényi, il filologo Reinhold Merkelbach, in Roman und Mysterium in der Antike (1962) sviluppa la tesi del legame fra i romanzi antichi e le religioni misteriche; il mondo del mito e della religione – afferma lo studioso tedesco – ha costituito il terreno più fertile per ospitare figure e situazioni simboliche e allegoriche estese al mondo letterario. Nessun dubbio che il tropo di cui parliamo percorra l’intera storia del romanzo. Senza scomodare la fitta schiera di romanzieri che hanno posto la Divinità, i miti, i simboli sacri al centro delle loro opere, vogliamo ricordare che persino in scrittori come Proust – sostanzialmente un agnostico – troviamo traslati di una religiosità che la superficie esterna dei sensi e della ragione non riesce a velare. Le tante immagini bibliche ed evangeliche presenti nella Recherche, la metafora eucaristica della madeleine – come ha ben messo in evidenza il francesista Alberto Beretta Anguissola – ne costituiscono prove evidenti.
Uno dei tropi più ricorrenti nella narrativa di ogni tempo è la riva, che include l’approccio alla riva stessa. La riva e la spiaggia, poste tra acqua e terra, rappresentano una soglia, la necessità o la difficoltà di passare da uno stato a un altro. Onnipresente nei romanzi e nei poemi dell’antichità, ritroviamo il tropo della riva in romanzi come Lazarillo de Tormes, Il mulino sulla Floss, Grandi speranze, Leducazione sentimentale, Cuore di tenebra, Gita al faro, La veglia dei Finnegan, Alla ricerca del tempo perduto e moltissimi altri.

Ma la tesi che il romanzo come genere letterario abbia una storia di duemila anni ha molti altri argomenti a suo favore. I romanzi antichi sono opere scritte da autori consapevoli delle loro capacità e della natura della scrittura. Nell’Asino d’oro, il narratore Lucio dialoga col lettore ed esalta l’importanza dei libri. Questi lavori, scrive la Doody, «hanno dignità e forma letteraria, sono pieni di allusioni ad altre opere e affollati da personaggi che leggono e scrivono». Sappiamo anche che erano destinati a un pubblico «colto», ma proprio per questo capace di gustare il piacere estetico, di riflettere su un’esperienza artistica e condividerla. I romanzi antichi offrono una sorprendente varietà stilistica; se Clitofonte, Encolpio e Lucio hanno prodotto interi romanzi in prima persona, in Eliodoro e Caritone vediamo sbocciare il racconto autoriale in terza persona.    
È sempre la Doody a mettere in evidenza il realismo di contenuto e di rappresentazione dei romanzi classici. Solo per fare un esempio, Longo Sofista, in Dafni e Cloe, descrive egregiamente il paesaggio pastorale, facendone un importante elemento di distinzione del suo romanzo.
Altri esegeti hanno sottolineato la portata innovativa del romanzo greco quando propone un’eguaglianza sociale ed emotiva fra gli amanti, che spesso devono affrontare i disagi di un mondo fondato sulla disparità. Sempre nel romanzo di Caritone, i personaggi principali si rifiutano di vivere sotto lo straniero – l’Impero Romano – e mostrano di amare la libertà e di voler combattere contro ogni tipo di tirannia.

Un ultimo elemento a favore della tesi che esponiamo è costituito dalla considerazione del tempo. Il ricorso a un passato mitico (l’Odissea è citata in tutti i romanzi dell’antichità) e quindi l’uso di un tempo rituale, non ha impedito ai romanzieri greci e latini di trattare con sufficiente cura lo sviluppo e la durata del tempo reale.
Nel mondo della cultura a volte sono le prove indirette a decretare la plausibilità di una tesi. Come non tenere in considerazione la massiccia influenza del romanzo antico sulla letteratura delle epoche posteriori? In questo senso i riscontri sono evidenti e numerosi. Nel Decamerone di Boccaccio ci sono chiari riferimenti all’Asino d’oro, a Leucippe e Clitofonte e alle Etiopiche. Nel Don Chisciotte troviamo episodi in palese sintonia con temi presenti in Eliodoro e nel romanzo sull’Asino. Se Rabelais ha attinto elementi da Achille Tazio, Sir Philip Sidney è influenzato sicuramente da Eliodoro. Il Satyricon di Petronio è presente in Robert Burton e in Laurence Sterne. L’inizio di Clélie di Madeleine de Scudéry imita la struttura delle Etiopiche; ma Eliodoro è presente anche nella Clarissa di Richardson. Quanto ai moderni – solo per fare un esempio – possiamo riferirci a Salman Rushdie e ai noti Versetti satanici. Così scrive la Doody: «Nel suo tentativo di trovare un luogo di compromesso tra le fedi e le culture, il romanzo di Rushdie manifesta il suo forte legame con il romanzo antico».
La conclusione della studiosa canadese è chiara: «Il legame tra il romanzo antico e quello moderno è fondamentalmente inevitabile… È nella propria forma e natura che il romanzo moderno – romanzo storico, giallo gotico, o tranquillo resoconto di vita quotidiana – riprende e incorpora il romanzo dell’antichità, che è sempre stato la fonte e il nutrimento della nostra narrativa in prosa occidentale in modo pacifico, seguendo correnti nascoste. (…) Sono i classicisti a pensare che la natura del romanzo sia definita, che esso sia una forma canonica, stabile e soprattutto realistica, esente da tutte le stravaganze che circondano il romanzo antico. Ma in realtà tutte le questioni relative al romanzo di ogni epoca sono oggi suscettibili di discussione». 
Invero, il laboratorio di discussione di cui parla la Doody, che prosegue alacremente ancor oggi, ha radici secolari. Già nel Seicento l’erudito francese Claude de Saumaise (Salmasius) inizia a tracciare una storia del romanzo, delineando una chiara linea di trasmissione di questo genere letterario. Nella Praefatio dedicatoria alla sua edizione di Le avventure di Clitofonte e Leucippe (1640), Salmasius afferma che il romanzo ebbe origine tra i persiani, per poi transitare nell’Asia Minore, proseguire con i Mori sino alla Spagna e successivamente diffondersi nell’intera Europa. Sempre nel Seicento, il vescovo e critico francese Pierre-Daniel Huet, influenzato da Cervantes e Salmasius, orienta i suoi studi verso l’individuazione di una storia continua del romanzo. Nel Traité de l’origine des romans (1670, trad. Trattato sull’origine dei romanzi, Einaudi – PBE, 1977)) Huet afferma con decisione che la storia del romanzo non è iniziata né in Francia né in Spagna. «Gli inizi di questo genere letterario», scrive, «bisogna andare a cercarli in più lontani Paesi, e nell’antichità più remota». Ma lo studioso francese va oltre questa premessa e in un passo memorabile del Traité (edizione 1711), anticipa specialisti che arriveranno alle stesse conclusioni trecento anni dopo: «Occorre cercare la loro prima origine nella natura dell’intelletto umano, inventivo, amante delle novità e delle finzioni, desideroso di conoscere e di comunicare quanto ha inventato e quanto ha appreso; e che questa inclinazione è comune a tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo; ma che a essa gli Orientali sono apparsi sempre più soggetti degli altri; e il loro esempio ha tanto impressionato le più ingegnose e civili nazioni dell’Occidente, che a loro si può a buon diritto attribuirne l’invenzione. Quando dico gli Orientali, intendo gli Egiziani, gli Arabi, i Persiani, gli Indiani e i Siriani”. Sempre secondo Huet, furono gli Ioni a favorire la penetrazione in terra greca delle narrazioni orientali (lo studioso francese ricorda la straordinaria diffusione delle Favole Milesie), e i Sibariti a diffonderli nella latinità.

Dovranno passare due secoli prima di avere un altro testo standard sulle origini e lo sviluppo del romanzo antico; nel 1876, con il fondamentale Der griechische Roman und seine Vorläufer, il classicista tedesco Erwin Rohde dà il via alla moderna discussione accademica sull’argomento. (È opportuno precisare che Rohde colloca il romanzo di Caritone nel V-VI secolo d.C., e dunque molto più avanti rispetto all’epoca in cui furono composti i romanzi antichi giunti fino a noi).
In seguito, la retrodatazione del romanzo proposta da Huet e da Rohde sarà condivisa da critici e filologi del calibro dei già citati Kerényi e Merkelbach, e più di recente, come abbiamo visto, da Perry, da Bryan Peter Reardon e dalla Doody. Quest’ultima è molto esplicita: «Come Huet, io indico il Medio Oriente antico, la Siria e l’Egitto, oltre all’Europa antica, come matrice del romanzo occidentale. È inutile, come dice Huet, cercare le origini del romanzo nei tempi moderni».
Coerentemente, la studiosa canadese auspica una convinta collaborazione tra i filologi d’Oriente e d’Occidente, alla ricerca delle componenti fondamentali del romanzo al di là del Medio Oriente. «Esistono», osserva, «straordinarie somiglianze con le storie dei romanzi, antichi e moderni, nel teatro giavanese delle ombre e nelle opere messe in scena dal Teatro dell’Opera di Pechino… Chi può dubitare che le storie dell’Occidente abbiano viaggiato allo stesso modo sino all’Oriente?»
Gli studi di esegeti come il compianto Walter Burkert, e più di recente James Tatum stanno chiudendo il cerchio intorno a una verità difficilmente contestabile: il mondo orientale, quello occidentale e la stessa Africa hanno avuto perenni contatti nel corso della storia. Le genti, le merci, gli usi, le tradizioni orali e quelle scritte hanno viaggiato costantemente dall’Oriente verso l’Occidente e viceversa. E da sempre il romanzo ha rappresentato uno degli strumenti privilegiati per far circolare il Mito, la Storia, le convinzioni religiose, la realtà e la fantasia, il passato e il presente dell’essere umano.



Armando Santarelli
(n. 12, decembre 2021, anno XI)