I romeni al Monte Athos. Uno sguardo storico

Si può essere cristiani ortodossi, cattolici, protestanti, o fedeli di un’altra religione, e persino agnostici o atei, ma chiunque abbia maturato una sufficiente conoscenza del Monte Athos non può ignorarne la bellezza, l’unicità, la sacralità.
La Santa Montagna dell’Ortodossia è l’ultima grande oasi della Cristianità, e rappresenta ancor oggi un modello di vita monastica. Come usano ripetere i monaci haghioriti, «all’Athos comanda la tradizione», una tradizione spirituale millenaria che ha fatto dell’Agion Oros il baluardo della fede ortodossa.
Pur non essendo una vera e propria Repubblica monastica (perché fa parte dello Stato greco), il Monte Athos gode di una grande autonomia amministrativa. Le norme che definiscono il suo status giuridico sono contenute nella Carta Costituzionale della Santa Montagna, approvata nel 1924 e oggi incorporata nella Costituzione dello Stato Greco del 1975, un articolo della quale dispone: «La Santa Montagna è governata, conformemente al suo regime, dai venti Sacri Monasteri tra i quali è suddivisa la penisola athonita (…) Non è permesso alcun mutamento nel sistema di governo, nel numero dei monasteri, nel loro ordine gerarchico e nelle loro relazioni con le fondazioni subordinate».
Come risulta evidente, questa norma cristallizza la seguente situazione: il territorio del Monte Athos è governato da venti Sacri Monasteri; di questi, 17 sono nelle mani dei greci, 1 (San Panteleimon) appartiene ai russi, 1 (Chilandari) ai serbi, e un altro ancora (Zographou) ai bulgari. Impossibile non porsi una domanda elementare: perché i greci, i serbi, i bulgari e i russi devono avere all’Athos un loro monastero, e i romeni no?
Mi rendo conto che una tale questione assume un valore relativo se la si inquadra in un contesto religioso. Inoltre, il Monte Athos si pone da sempre come il centro dell’ecumenismo ortodosso, e sin dall’inizio della sua storia vi dimorano monaci provenienti da ogni angolo del mondo. Ma la disparità rimane: a differenza di altre Nazioni, la Romania – Paese di comprovata osservanza religiosa, con 20 milioni di cittadini, l’87% dei quali di fede ortodossa – non ha all’Athos un monastero di governo, e di conseguenza è priva di rappresentanza nella Iera Kinòtis (la Sacra Comunità), l’organo amministrativo più importante dell’Agion Oros.
Più volte i romeni hanno chiesto di vedere elevata al rango di monastero una delle loro skite, la skiti Prodromu (Sfȃntului Ioan Botezătorul), che dipende dal monastero della Grande Lavra; tuttavia, le reiterate istanze romene sono tutte cadute nel vuoto.
Ora, io penso che in casi di tale importanza ed evidenza appellarsi alla tradizione e alle norme giuridiche esistenti risulti insufficiente e ingiusto. Infatti, le regole che governano l’Athos dal punto di vista amministrativo sono state redatte da esseri umani, e come tali possono non essere più condivise, o non più attuali, o non più adeguate.
C’è un’altra questione riguardante i romeni che per anni ha destato le perplessità di chi frequenta ed ama il Monte Athos. Come tutti sanno, la Romania possiede sul proprio territorio numerosi e splendidi monasteri, dove nuove leve del monachesimo continuano ad affluire con regolarità. È comprensibile che alcuni di questi novizi e monaci desiderino vivere (o proseguire) al Monte Athos la loro vocazione; è accaduto, però, che all’assenso pronunciato dai Monasteri athoniti e dalla Iera Kinòtis facesse riscontro il diniego da parte del Governo Greco.

In riferimento alle questioni accennate, già nel 1993, in una riflessione pubblicata sulla rivista teologica Sobornost, il Vescovo Kallistos Ware, indiscussa Autorità nell’ambito dell’Ortodossia, si chiedeva: «Perché i romeni dovrebbero essere trattati in questo modo? Quale minaccia possono rappresentare per il Governo greco?» Ricordando l’esemplare comportamento dei monaci romeni nel corso della millenaria esistenza dell’Athos, e gli eccellenti rapporti fra la skiti Prodromu e la Grande Lavra (il monastero da cui dipende), il Vescovo Kallistos puntualizzava fermamente: «Un fatto è al di là di ogni disputa. L’esclusione dei non greci è senz’altro contraria ai trattati che governano la Santa Montagna, alla Carta Costituzionale del Monte Athos e ai princìpi della Comunità Europea, di cui la Grecia fa parte. È contraria, soprattutto, all’ideale che ha ispirato la repubblica monastica dell’Athos sin dalla sua fondazione avvenuta più di un migliaio di anni fa».
L’ingiusto trattamento riservato alla Romania appare ancor più criticabile alla luce di un dato di enorme rilevanza. Tutti gli studi storici relativi al Monte Athos dimostrano con chiarezza che non esiste cenobio della Santa Montagna alla cui ricostruzione, restauro o mantenimento non abbia contribuito un principe o un dignitario ecclesiastico romeno. Il costante sostegno della terra romena si rivelò particolarmente importante nei secoli successivi alla caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453), perché i regnanti moldavi e valacchi rimasero il principale scudo protettivo della cultura bizantina e della religione ortodossa.
A Karyes, la capitale del Monte Athos, sorge la chiesa del Protaton, la costruzione più antica della Santa Montagna e la madre di tutte le chiese athonite. Edificato nel X secolo, il Protaton fu completamente rinnovato nell’anno 1508 grazie all’intervento del voivoda di Moldavia Bogdan III cel Orb, figlio di Ştefan cel Mare. Il monastero della Grande Lavra, il più antico dell’Athos e primo nella gerarchia, fu interamente ricostruito all’inizio del XVI secolo dal principe valacco Neagoe Basarab, che riedificò, fra il 1512 e il 1515, anche il monastero di Dionysiou. Il monastero di Vatopedi, secondo nella gerarchia athonita, venne parzialmente ricostruito nel 1526 dal voivoda di Valacchia Radu di Afumați, e alla fine del XVII secolo, il principe Constantine Voda Brȃncoveanu, canonizzato dalla Chiesa Ortodossa, donò al monastero 21.000 aspri, (monete d’argento turche), somma enorme per quei tempi. Il cenobio dei georgiani, Iviron, terzo nella gerarchia athonita, nel 1505 ricevette una donazione di 15.000 aspri da parte del re di Valacchia Radu Şerban. Il monastero di Koutloumousiou fu letteralmente rifondato nel XIV secolo dall’igumeno Chariton (futuro Metropolita valacco) grazie al supporto finanziario del voivoda di Valacchia Nicholas Alexander Basarab. Per il monastero bulgaro di Zographou entrano in scena alcuni dei più grandi principi moldavi, fra i quali Alexandru cel Bun, benefattore del cenobio nei primi decenni del XV secolo, e Ştefan cel Mare, che assicurò un concreto sostegno verso la fine del XV secolo. Dochiariou fu ricostruito e affrescato nella seconda metà del XVI secolo a spese del principe moldavo Alexandru Lăpuşneanu. Anche Karakalou fu completamente riedificato da un voivoda moldavo, Petru IV Rareş, e così Grigoriou, di nuovo per iniziativa di Ştefan cel Mare. Considerando che anche Xenophontos, San Panteleimon, Philotheou, Aghiou Pavlou, Stavronikita ed Esphigmenou hanno beneficiato di donazioni monetarie e territoriali da parte di diversi regnanti romeni, si può affermare senza tema di smentita che nessun Paese ortodosso ha supportato la Santa Montagna più generosamente della Romania.
Se da un lato la secolare Storia athonita è stata irrispettosa di questi meriti, da un altro ha voluto diversamente, perché le due skite romene dell’Athos (la già citata Prodromu e la skiti Sfȃntul Dimitrie (denominata anche Schitul Lacu) hanno delle peculiarità che le rendono davvero straordinarie.
La skiti Lacu dipende dal monastero di Aghiou Pavlou e prende il nome dal fatto di essere localizzata in una gola naturale (lakkos) che dal Mar Egeo sale impervia e ombrosa verso il Monte Athos. La cosa stupefacente è che le dimore monastiche della skiti (quattordici in tutto) che si susseguono a mano a mano che ci si innnalza, sono immerse in un ambiente selvaggio e incontaminato che ricorda moltissimo i paesaggi e le gole carpatine care a qualsiasi romeno.
Quanto alla skiti Prodromu, comincio col dire che la sua bellezza regge il confronto con qualsiasi grande cenobio athonita. In effetti, ha l’aspetto di un monastero e un’amenità che si apprezza dal primo sguardo. La facciata simmetrica e bianchissima, i tetti di ardesia sui quali svettano i dolci cipressi, la solenne torre campanaria, le cupole cilestrine del kyriakon (la chiesa principale) sormontate da croci dorate, l’azzurro dell’Egeo sullo sfondo, gli orti e i giardini che fiancheggiano gli edifici sul lato sud, il Monte Athos, nella sua intera estensione, ad ovest. Intorno, più di mille specie vegetali, sentori di latifoglie centenarie e di macchia mediterranea; all’interno del monastero, silenzio, pace, preghiera.
L’atmosfera di spiritualità e lo splendore dell’architettura monastica di Timiu Prodromu si rendono evidenti a qualsiasi pellegrino del Monte Athos; ma un altro fattore contribuisce a fondare il privilegio di cui gode la skiti del Precursore. Farà piacere a tutti gli amici romeni sapere che Prodromu è l’insediamento monastico più vicino ai due luoghi più sacri dell’intero Monte Athos. Infatti, a soli cinque minuti di cammino dalla skiti è situata la grotta in cui visse Sant’Atanasio, il fondatore del cenobitismo athonita, colui che nell’anno 963 d.C. edificò con le proprie mani il primo monastero della Santa Montagna, la Grande Lavra. E prendendo un sentiero boscoso che si diparte a un centinaio di metri dalla skiti e punta verso ovest, si raggiunge in una quarantina di minuti un altro dei luoghi-simbolo dell’Athos, Agios Petros, il sito in cui, nella seconda metà del IX secolo, visse San Pietro l’Athonita, il primo eremita di cui abbiamo sicure notizie storiche. Dunque, i romeni hanno la loro massima comunità monastica nel vero cuore della Santa  Montagna dell’Ortodossia.

Ma in quale epoca si colloca la prima presenza di romeni al Monte Athos? Alcuni studiosi ipotizzano che assieme ai «Valacchi del Nord», insediatisi nei pressi della penisola athonita nel IX secolo, siano giunti all’Athos anche dei monaci, desiderosi di una piena vita ascetica; tuttavia, non esistono documenti in grado di confermare questa tesi. È accertata invece, intorno al 1360, la presenza di monaci romeni nel monastero di Koutloumousiou, appena rifondato (come abbiamo già visto) grazie alla munificenza di Nicholas Alexander Basarab.
E’ altresì documentato che intorno al 1750 alcuni romeni, sotto la guida spirituale dello ieromonaco Makarios, conducevano una vita semi eremitica intorno alla cappella del Precursore San Giovanni il Battista, sita nella Vigla, cioè la punta della penisola athonita. Sappiamo anche che ai primi dell’800 nella cella di San Giovanni dimoravano tre monaci romeni: lo ieronda Iustin e i suoi discepoli Grigorie e Patapie. Alla morte di Iustin, avvenuta nel 1816, Grigorie e Patapie chiesero al monastero della Grande Lavra di poter fondare una skiti dedicata al Precursore. Qualche anno dopo, nel 1820, la Lavra stese un atto di assenso, in cui precisava le condizioni da osservare per la nascita della skiti, fra le quali assumevano rilievo la dipendenza dalla stessa Lavra e l’adozione del regime cenobitico. Purtroppo, l’anno seguente (1821) segnò l’inizio della Guerra di Indipendenza Greca, e i progetti per la fondazione della skiti dovettero essere abbandonati.
Da questo momento, la storia di Timiu Prodromu assume caratteri quasi romanzeschi. I monaci Grigorie e Patapie, tornati in Patria con il preliminare di fondazione della skiti, entrarono nel monastero di Neamț, dove morirono prima che il conflitto greco-turco avesse termine.
Quasi trent’anni dopo, nel 1850, Nifon e Nectarie, due monaci provenienti dal monastero moldavo di Horaița e stanziati al Monte Athos a Kerasia, furono informati dell’esistenza del documento riguardante la fondazione di una skiti sul sito della cappella del Precursore. Partiti immediatamente per il monastero di Neamț, i monaci moldavi ritrovarono il preliminare e tornarono al Monte Athos. La Grande Lavra confermò la decisione presa nel 1820, e nel 1851 Nifon e Nectarie rilevarono la cella di San Giovanni il Battista da alcuni monaci greci, dietro il pagamento di 7.000 lei. Ora occorrevano i fondi necessari per l’edificazione della skiti; fu Nifon a tornare di nuovo in Patria, dove ricevette le generose donazioni di molti conterranei, in primis la somma di 3.000 galbeni offerta da Grigorie Alexandru Ghica, Governatore della Moldavia.
Nel 1856 arrivò la concessione del sigillo da parte del Patriarcato di Costantinopoli e l’anno seguente fu posata la prima pietra della chiesa, che venne solennemente consacrata dieci anni dopo, il 21 maggio 1866, e dedicata al Battesimo del Signore. La scelta del primo dikaios (l’abate, o priore) non poteva che cadere su Nifon, il quale guidò la skiti per quattro anni. Nel 1870, coronata pienamente la sua missione, Nifon si ritirò con alcuni discepoli in una cella vicina alla grotta di Sant’Atanasio, dove visse in santità sino alla morte. I suoi resti mortali, dinanzi ai quali arde perennemente una lampada, sono conservati nella cripta posta sotto l’altare maggiore del kyriakon di Prodomu.
A Nifon subentrò lo ieromonaco bucarestino Damian, abate sino al 1890, che continuò il buon governo spirituale della skiti, senza trascurare quello materiale, che vide la costruzione dell’arsanas (il porticciolo) e di nuove celle per monaci e pellegrini.
Santi uomini e grandi amministratori furono anche i due successivi abati, gli ieromonaci Ghedeon e Antipas, entrambi originari del distretto di Prahova. Il dikaios Ghedeon è ricordato per la profonda religiosità e umiltà; celebrava la liturgia, personalmente, ogni giorno. Terminato il mandato, anch’egli si ritirò in solitudine in una piccola cella, vivendo nell’esichia sino alla fine dei suoi giorni. Il quarto abate, Antipas, dotò la skiti di nuove strutture, fra le quali i laboratori per la pittura, per la lavorazione del legno e del marmo, e creò persino un piccolo museo. Mostrò tutta la sua energia quando dovette affrontare le urgenti riparazioni della chiesa e degli altri edifici gravemente danneggiati dal terremoto del 1904.
Nei decenni successivi, la skiti Prodromu conobbe altre traversie: il mutamento del calendario nell’anno 1924, le Guerre Balcaniche, le due Guerre Mondiali e l’avvento del regime comunista. Quest’ultimo si rivelò particolarmente rovinoso: al mancato invio di nuovi monaci si aggiunse la confisca delle proprietà possedute dalla skiti, con il conseguente depauperamento delle risorse necessarie al suo mantenimento. Dalle cento e più presenze registrate al tempo dell’abate Antipas, Timiu Prodromu si ritrovò ad essere abitata, nel 1976, da soli 10 monaci, quasi tutti vecchi e malati. Più di vent’anni dopo, nel 1998, il giornalista e critico letterario Christopher Merrill trovò a Timiu Prodromu lo stesso numero di monaci, e un ambiente piuttosto depresso. Nell’ottimo Things of the Hidden God, Merrill testimonia che il kyriakon era chiuso al momento della liturgia; la funzione religiosa venne celebrata in una piccola cappella, alla presenza di pochi monaci e di un paio di laici.
Ma il Monte Athos ha sempre saputo risorgere dai momenti di crisi che hanno segnato la sua storia. Alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, grazie agli aiuti dell’intera Romania, iniziarono i lavori di ristrutturazione, che hanno riguardato ogni struttura di Prodromu, e che continuano ancor oggi con la sistemazione della strada di accesso e degli edifici esterni. Arrivando dalla Lavra, e scorgendo all’improvviso la skiti, si ha l’impressione, e poi la certezza, di trovarsi dinanzi ad un raro gioiello architettonico. Quanto alla popolazione monastica, dai primi anni del Duemila è gradualmente aumentata e oggi Prodromu è abitata da una quarantina di monaci.

Essendo una delle fondazioni monastiche più recenti, non sono molte le testimonianze dei pellegrini-scrittori relative alla skiti del Precursore. Una di queste, però, riveste un carattere eccezionale. E’ quella dell’inglese Athelstan Riley (1858-1945), scrittore e autore di inni sacri, che visitò l’Athos nel 1883, lasciando un accurato resoconto della sua esperienza athonita, Athos or the Mountain of the Monks, opera pubblicata a Londra nel 1887.
Dopo aver visitato la Grande Lavra, Riley percorre il sentiero, orlato da odorosi arbusti, che conduce a Timiu Prodromu. L’accoglienza da parte dei monaci romeni è calorosa, il cibo ottimo, le stanze per gli ospiti si rivelano fra le più comode e pulite del Monte Athos. Assente l’abate Damian, è lo ieronda Esaias a farne le veci, dimostrando una squisita cortesia (one of the politest man I have ever met, scrive Riley). Entrato nella chiesa, l’inglese nota una splendida icona della Vergine; i monaci precisano subito che è un’icona miracolosa, al che l’ospite non può evitare di obiettare che ha tutta l’apparenza di un’icona moderna.
«Lo è», replica Esaias, «è stata dipinta nell’anno 1860. Per di più, abbiamo tentato più volte di farne una copia, perché molta gente in Romania vorrebbe vederla, ma nessuno vi riesce». A questo punto, Riley e compagni diventano curiosissimi di ascoltare la storia dell’icona dalle labbra di Esaias, che è tra i fondatori della skiti e ne conosce tutte le vicende.
Il racconto del monaco, come raccolto da Riley, non coincide perfettamente con ciò che le odierne pubblicazioni riportano nelle loro pagine; opero dunque una sintesi, come segue.
Quando la costruzione della chiesa di Prodromu fu ultimata, il dikaios Nifon si mise in cerca di un’icona della Vergine. Poiché nessuna chiesa athonita voleva privarsi delle proprie, l’abate decise di recarsi nella sua terra natale, e commissionò l’opera al miglior artista che poté trovare. Era un vecchio monaco di Iaşi, Iordache Nicolau, il quale si mise subito al lavoro, onorato di donare un’opera al Monte Athos. Dopo un po’, tuttavia, il monaco tornò dal dikaios, dicendogli che temeva di dover abbandonare il compito affidatogli, perché si era scoperto incapace di dipingere appropriatamente i volti della Vergine e del Bambino. Il dikaios rassicurò l’iconografo, invitandolo a recitare il canone e a pregare.
Assecondando il consiglio dell’abate, il vecchio monaco coprì la pittura con un panno di lino, chiuse lo studio e si ritirò in preghiera, implorando la Vergine di aiutarlo ad ultimare l’opera. Il giorno seguente, entrato nello studio, il pittore si prostrò dinanzi all’icona, sollevò il panno con cui l’aveva coperta e vide che essa recava i volti del Bambino e della Madre di Dio, splendidamente dipinti.
A seguito di questo miracolo, l’icona della Vergine Prodromița è annoverata fra le pochissime icone acheropite (non fatte da mano d’uomo), e come tale oggetto di una profonda e costante venerazione da parte di tutto il popolo ortodosso.

Per quanto riguarda la Prodromu odierna, ne ho diretta esperienza, perché dagli inizi del Duemila vi sono stato ospitato per tre volte. La skiti comunica immediatamente l’impressione di un centro pulsante di vitalità ed efficienza; ma soprattutto, a Prodromu ho colto un clima di crescente fervore religioso, in virtù del buon governo dell’abate Atanasie Floroiu e della guida spirituale da parte dell’abate stesso e dello ieronda padre Iulian.
Nel 2017, dopo la liturgia mattutina, mi sono intrattenuto con due novizi. Le domande che ricorrono più spesso fra pellegrini e monaci non tardarono ad arrivare. Quasi all’unisono, i due giovani mi chiesero il motivo che mi aveva spinto al Monte Athos; a mia volta, domandai perché avessero abbracciato il monachesimo, e perché avessero scelto di viverlo nella Santa Montagna.
La mia risposta fu piuttosto vaga e, presumo, deludente: dissi che era stata la curiosità, unita alla ricerca di una pace e di un equilibrio che non avevo ancora trovato.
Le loro risposte, annunciate da lievi sorrisi, furono non meno sincere, e molto più pregnanti. Il primo confessò che nel mondo viveva male, e che anch’egli aveva cercato la pace interiore, che a differenza di me aveva trovato.
Il secondo, dopo avermi fissato bonariamente, disse: «Io ero fidanzato, con la mia ragazza parlavamo già di matrimonio. Poi, all’improvviso, Dio mi ha chiamato qui. Sì, è un mistero. Ma tutta la nostra vita è un mistero, no?»
Annuii, e iniziammo a parlare d’altro. Ma durante il cammino verso la Lavra, un pensiero mi ossessionava. Io – riflettevo – mi aggiro per il mondo sempre indaffarato, frenetico, facendo mille cose, ma rimango una persona insoddisfatta e inquieta. Questi giovani fanno ogni giorno le stesse cose, che all’Athos si ripetono in modo uguale da migliaia di anni, eppure il loro spirito prorompe di gioia e serenità.
Poi, all’improvviso, tutto mi fu più chiaro. No, la parabola spirituale di quei giovani non era un mistero. Nella loro vocazione, e nella rifioritura di Timiu Prodromu si era certamente manifestata la volontà del Signore. Ma come non pensare che essa si fosse innestata sul fondamento cristiano che ha sempre caratterizzato il popolo romeno?
























Armando Santarelli
(marzo 2019, anno IX)