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    Biblioteca Tesi Cioran:  «Ogni parola è una parola di troppo», di Alessandro Seravalle 
       
     
     Accingersi ad elaborare un testo il cui titolo è Ogni parola è una parola di troppo [1]  suona decisamente paradossale. È pur vero che lo stesso Cioran prosegue in  questi termini: «Eppure si deve scrivere:  scriviamo…illudiamoci a vicenda» [2]. 
      Ciò  che appare certo è che lo svolgimento di un esame puntiglioso intorno all’opera  di questo grande maestro di terribile lucidità, intorno a colui che se da un  lato esorta all’illusione, dall’altro si configura come una sorta di gran  cerimoniere della de-lusione [3], costituisce un vero e proprio «tradimento» del  pensiero più intimo di Cioran [4]. 
      «Eppure  si deve scrivere…», con la costante consapevolezza di doversi ritagliare uno  spazio interno al nostro tradimento di un uomo che aborriva sopra ogni cosa la  pedante sistematicità di tanti filosofi, da Cioran sovente chiamati «uomini  astratti», denunciando l’assoluta incapacità di qualunque analisi formale di  penetrare verso il nucleo profondo ed essenziale del problema esistenziale.  Così il romeno: «L’esercizio  filosofico non è fecondo; è solo onorevole. Si è filosofi sempre impunemente:  un mestiere senza destino che riempie di pensieri voluminosi le ore neutre e  vacanti, le ore refrattarie al Vecchio Testamento, a Bach e a Shakespeare. E si  sono mai materializzati, questi pensieri, in una sola pagina equivalente a  un’esclamazione di Giobbe, a un terrore di Macbeth o alla magnificenza di una  cantata? Non si discute l’universo;  lo si esprime. E la filosofia non lo  esprime» [5]. 
       
      Gli  aforismi di Cioran sono fulminanti, spesso del tutto indifferenti nei confronti  del principio di non-contraddizione (ascendenza di uno dei pochi «filosofi di  professione» che Cioran ha veramente amato, l’ucraino Lev Sestov); ed è proprio  attraverso la lente deformante della sua scrittura, figlia della sua corsa  verso il silenzio, che tenterò un approccio ad alcuni dei temi-chiave  riscontrabili nel pensiero di colui che mi piace chiamare «l’amico romeno».  Cioran stesso, in una considerazione apparsa nei Quaderni, chiarifica l’accezione da dare al termine «amico»: «Qualche  anno fa ho comprato una vecchia edizione di Marco Aurelio, che recava la dedica  di una donna: “Possa esserle amico nei momenti difficili e sostenerla come ha  fatto con me”. Non c’è elogio più bello, per un libro, di questo “amico nei  momenti difficili”»; e un po’ più avanti «A proposito del Demiurgo Beckett mi scrive: “Nelle sue rovine mi sento al sicuro”» [6]. Proprio un  evento a prima vista non troppo filosofico come una gozzoviglia tra amici è  all’origine della mia improvvisa infatuazione per Emil Cioran; il suo stile  laconico ma, al contempo, efficace ed evocativo, poetico fin quasi all’eccesso,  la sua terribile lucidità, così potente e intensa, hanno immediatamente creato  un ponte, una sorta di forza vibrante in grado di sincronizzare i movimenti  della mente di chi scrive e di chi legge, qualcosa di molto simile ad  un’armonizzazione in ambito musicale, arte che lui amava e considerava «la sola  che possa dare un senso alla parola assoluto»  [7]. Impossibile  non «innamorarsi»… tradiamo dunque. 
       
      Il  mio intendimento è l’individuazione di alcune tematiche forti, decisive nel  funzionamento del pensiero di Cioran e il tentativo, il più possibile attento a  non sfociare in un tradimento troppo smaccato, in un troppo soggettivo commento  [8], di  articolarle in qualche modo tra loro. Naturalmente nessuna pretesa di coerenza  può essere ammessa; è indispensabile mantenere l’elemento suggestivo degli  scritti di Cioran piuttosto che avventurarsi in un dire circostanziato e  preciso. La potenza e l’evocatività (suggestione appunto) del linguaggio di  Cioran nascono da un movimento di «andata e ritorno» tra contrari, di  espansione e contrazione, di respiro, di reciproca interazione tra elementi in  apparente radicale contraddizione come il silenzio [9] e l’esplosione, la  lucidità e l’incoerenza, l’illusione e la delusione. Cioran parla di una «imitazione del  silenzio» [10] in uno dei suoi aforismi più illuminanti e fecondi; sarà tenendo  sempre vicina questa affermazione che proverò a far interagire il tema del  silenzio e dell’espressione (con un particolare occhio di riguardo per  l’espressione musicale), quello dell’articolazione tra illusione e delusione  alla luce della lucidità, l’asistematicità dell’approccio cioraniano e le sue  relazioni con la filosofia ufficiale e tutta una serie di altre istanze che  faranno la loro comparsa sulla scena di volta in volta. 
      Un  altro elemento sarà sempre un compagno di viaggio: lo stile [11] di Cioran e i  suoi rapporti obbligati con le sue ossessioni, l’uso spesso illuminante  dell’umorismo, capace, trovandoci indifesi e con la bocca spalancata dal riso,  di trasformarsi in veicolo per le terribili «verità» dettate a  Cioran dalla sua stessa lucidità, dal suo demone. 
      Sia  che faccia ricorso ad una scrittura umoristica per aprirsi la via, sia che ci  rinunci a vantaggio del lirico o del tragico, Cioran colpisce sempre grazie  alla sua poesia, riesce nell’arduo intento di lasciar trasparire, di far  intravedere il «non-so-che» essenziale, il silenzio o la follia; mette, magari per un istante  infinitesimo, nella condizione di prendere contatto con l’altro dal mondo, a  cui lo stesso pensatore romeno obbligatoriamente ritorna seguendo un movimento  parabolico di andata e ritorno.  
      Lo  stesso peculiare doppio movimento di espansione-contrazione, di evocazione e  nascondimento torna in azione nel suo costante passare dalla delusione  (garantita, mediata dalla lucidità) al bisogno vitale dell’illusione che in  Cioran prende ora i contorni di un qualche rapporto con il divino ora quelli  più umani dell’amore. Questo doppio movimento, che si estrinseca anche nella  contrapposizione tra coscienza e vita, questione che mette in contatto due  spiriti, per stessa ammissione del filosofo rumeno, molto prossimi, Cioran  appunto e Giacomo Leopardi (il quale, nello Zibaldone,  afferma che «…ragione e vita sono due cose  incompatibili…»), si rende necessario allorquando si consideri che «la lucidità  assoluta è incompatibile con la realtà degli organi» [12] o, ancora, con «l’atto del  respiro» [13]. 
Nel  secondo capitolo tenterò di mettere a fuoco il peculiare rapporto con il divino  nel quale si dibatte Cioran. È possibile affermare che Cioran si muove lungo la  propria orbita subendo l’attrazione della componente più nichilista del  buddismo [14], tema che sarà alla base del terzo capitolo, non senza provare una  certa fascinazione, soprattutto nei suoi primi scritti, per lo gnosticismo come  ben testimonia l’intitolare una propria opera Il funesto demiurgo. Credo che proprio la sua vicinanza, il  continuo commercio con alcune tematiche gnostiche, su tutte il problema della  creazione, del Dio come abisso e dell’ineffabilità dello stesso, possano  fornire stimoli adatti ad essere articolati con gli altri nodi del suo pensiero.  È per questa ragione che ci soffermeremo in modo prevalente sullo gnosticismo  tentando di scoprire ascendenze e punti di contatto tra Cioran e il pensiero  gnostico. I filosofi in senso stretto, ad eccezione del già citato Sestov, di  Pascal (che adorava, ma sul quale non ha mai scritto nulla di organico), di  Marco Aurelio e di una passione giovanile per Nietzsche, esercitano su di lui  un’influenza decisamente minore. Volendosi attenere alle sue dichiarazioni  esplicite dobbiamo considerare quali «mentori più stabili» di Cioran, William  Shakespeare, Fedor Dostoevskij, Blaise Pascal e Johann Sebastian Bach [15]. Per forza di  cose, e per simpatia con i movimenti zigzaganti del suo pensiero, ogni  tentativo di contestualizzare Cioran dovrebbe per forza di cose essere  caratterizzato da continui salti sulla base delle sue, peraltro non  frequentissime, concessioni in materia. Una necessità deve sempre essere ben  presente e chiara nel porsi innanzi al pensiero di Cioran: bisogna rifuggire  con attenzione da ogni tentazione sistematizzante. Essa costituirebbe un  tradimento eccessivo dei modi di Cioran, sarebbe un tentativo votato in  partenza al fallimento. Su questo punto Cioran stesso, ne La tentazione di esistere è stato lapidario: «Nulla è più irritante  di quelle opere in cui si cerca di coordinare le idee esuberanti di un ingegno  che ha tutto ha mirato, tranne che al sistema». 
    Il  terzo capitolo verterà intorno all’influenza che il mondo indiano, ed  evidentemente il buddhismo in particolare, ha esercitato su Cioran. L’anelito  impossibile verso il raggiungimento della «pienezza nel vuoto» costituisce un  punto fermo, tra i pochi, di tutta la ricerca umana e spirituale del filosofo romeno.  Le posizioni del buddhismo hanno costantemente attirato Cioran in modo alquanto  potente sebbene egli non abbia, peraltro, mai aderito sino in fondo alla  religiosità insita nei pur forti richiami indiani. Agisce sempre in Cioran  l’inestirpabile elemento della impossibilità, uno scoglio insormontabile gli si para innanzi   impedendogli in maniera perentoria un accesso compiuto alla dimensione  mistica senza la quale sia le tentazioni buddhiste che i suoi intricati  rapporti con la divinità possono trovare una realizzazione definitiva. Cioran  rimane sospeso tra la tentazione aerea e un sangue più pesante del piombo, il  suo colpo d’ala è si sufficiente a consentirgli di curare, o quantomeno di  mitigare il nostalgico dolore per il mondo precedente all’individuazione, gli  permette di non andare rovinosamente alla deriva e di mantenersi nello «scandalo del  respiro», tuttavia non è potente abbastanza da proiettarlo definitivamente in  una dimensione spirituale dalla quale il dolore stesso sia stato completamente  drenato. 
      Eredità  del buddhismo è il paradossale rapporto tra illusione e delusione così centrale  nella filosofia di Cioran. Il «motore» dell’attività de-ludente è la lucidità,  la sua azione viene perseguita in modo maniacale dal pensatore di Rasinari il  quale nel momento stesso in cui ne decanta le virtù non smette mai di ammonire  sul terribile veleno che essa può instillare e sulla assoluta e imprescindibile  necessità di trovare di che respirare nell’abbraccio dell’illusione. Ecco un  passo in cui si esprime la contrapposizione tra lucidità ed esistenza, tra  lucidità e respiro: «…la lucidità assoluta è incompatibile con l’esistenza, con l’esercizio  del respiro. E, bisogna pur riconoscerlo, uno spirito disingannato, quale che  sia il grado della sua emancipazione dal mondo, vive più o meno  nell’irrespirabile» [16]. La nostra condizione sarebbe quindi qualcosa di simile a una trappola  molto ben congegnata, sembrerebbe implicare una forma immanente e inevitabile  di paradossalità che ci costringe costantemente a vivere da stranieri, senza  punti di riferimento o patrie metafisiche alle quali affidarci per trovare  riposo; una condizione, suggerisce Cioran, di non appartenenza, di  inadeguatezza, priva di appigli sicuri che possano dare una qualche concretezza  al nostro bisogno di illuderci. Una condizione di impossibilità [17].  
      La  paradossalità di questa come di altre situazioni tipiche del pensiero di Cioran  si manifesta spesso con l’utilizzo di espressioni prossime all’ossimoro (cosa  tra l’altro che si ritrova, come vedremo, in diversi testi gnostici), da qui la  continua sensazione di trovarci di fronte a un poeta oltre che a un pensatore  terribilmente acuto e sempre preda di una qualche sorta di sommovimento  tellurico interno. 
      Guido  Ceronetti, nel breve saggio Cioran, lo  squartatore misericordioso,  insiste, oltre che sul tema dell’amicizia, sull’efficacia estrema  dell’espressione cioraniana; proprio in apertura: «Qualcosa di Cioran, fa  subito subodorare un miracolo: il suo linguaggio. Una densità concettuale  imprevedibile cala in figura di folgore sulla mente che ascolta, lasciando sui  lembi di luogo comune carbonizzati una lenta eco di melodia notturna che  svanisce planare»  [18].    
    Proprio  la relazione tra stile, espressione, terapia e silenzio, è il tema del quarto e  ultimo capitolo, quello intorno a cui orbitano gli altri che si sofferma sulla  questione del percorso «spirituale» di Cioran: la sua corsa verso il silenzio. Dagli esordi in lingua romena  di Al culmine della disperazione alla  fine della sua attività letteraria, avvenuta diversi anni prima della morte, si  assiste a una sorta di progressivo indebolirsi dell’irruenza devastatrice degli  anni «giovanili» [19], al subentrare di una sorta di «saggezza» pur sempre inesorabilmente  scettica e lucida  ma più pacata, fino ad  arrivare alle dichiarazioni rilasciate a Sylvie Jaudeau nel corso di  un’intervista in cui la filosofa francese chiede se la verità di Cioran risieda  nel silenzio. Laconica e «spaesante» la replica: «Può darsi, me se non scrivo più è perché ne ho abbastanza di calunniare  l’universo!» [20]. È insomma possibile dare una lettura «iperbolica» del pensiero  filosofico (o artistico? Guido Ceronetti sostiene che Cioran appartiene alla  specie dei filosofi-artisti) cioraniano, un’iperbole che segna l’approssimarsi  del pensatore di Rasinari al livello zero del linguaggio, al suo consapevole  avvicinarsi all’Incomunicabile in un moto spirituale che lo porta in maniera  irresistibile verso il silenzio, unica istanza, assieme forse a una sorta di Ur-schrei dal sapore espressionista [21], in grado se  non di esprimere quanto meno di fornire una rappresentazione possibile  dell’Incomunicabile e dell’Intollerabile che abitano il fondo più nascosto ed  inaccessibile dell’animo di Cioran. 
    Accanto ed  insieme al movimento iperbolico, e come sorta di sua componente «interna», cercherò di  individuarne un altro, questa volta «parabolico», un moto che si muove dal silenzio, percorre una  traiettoria a esso esterna e ci si riapprossima secondo, appunto, un andamento  iperbolico di cui il silenzio costituirebbe l’asintoto; nel descriverne le  caratteristiche aprirò una parentesi sulla musica e sui suoi rapporti con il  silenzio (che ne costituisce al medesimo tempo la condizione essenziale,  l’origine ma anche, in qualche modo, il contrario, l’opposto). Cioran ha  coltivato una profonda passione per Bach. La mia intenzione è tuttavia di  prendere in considerazione alcuni musicisti contemporanei di Cioran, anche se è  assolutamente evidente che il discorso sul silenzio, sulle strutture nascoste e  quindi inudibili della musica di Bach sarebbe certamente di grande interesse.  Nella musica del XX secolo il silenzio è divenuto senza alcun dubbio un  elemento fondante della composizione e, nel contempo, un’istanza con la quale  molti musicisti si sono trovati a dover fare i conti. In questa digressione  musicale faranno la loro comparsa Luigi Nono, György Ligeti e Morton Feldman e  tenterò di cogliere le segrete consonanze tra il loro pensiero musicale e lo «sviluppo» dell’idea di  silenzio in Cioran. I tre musicisti che entreranno sulla scena hanno posizioni  teoriche spesso estremamente divergenti riguardo alla musica, una divergenza di  vedute che fungerà da stimolo nell’individuazione di «scorci» diversi del  silenzio in Cioran. 
      Fin  da questo capitolo introduttivo ho scelto di utilizzare massicce dosi di  citazioni allo scopo di ridurre al minimo il «grado di tradimento» della tesi nei  riguardi del pensiero di Cioran. I vari paragrafi avranno per titolo degli  aforismi particolarmente pregnanti del pensatore rumeno.  
      In  conclusione desidero chiudere il cerchio aperto nella premessa: perché Cioran? Lascio  rispondere il pensatore romeno citando un passo tratto dalla prefazione che ha  scritto per il libro di Mario Andrea Rigoni Il  pensiero di Leopardi  e che riprende  un aforisma presente su L’inconveniente  di essere nati (dedicato nell’occasione a Baudelaire e Pascal):  
    «Non contano  tanto per noi gli autori che abbiamo letto molto quanto quelli ai quali non  abbiamo mai smesso di pensare, che ci sono stati presenti nei momenti essenziali e che, con il loro martirio, ci  hanno aiutato a sopportare il nostro. Non posso vantarmi di aver frequentato  molto Leopardi, ma mi arrogo il diritto di considerarlo un compagno e un  benefattore, che mi ha sempre soccorso permettendomi – quale sollievo! – di  commisurare le mie miserie alle sue» [22]. Se non fosse che le  mie frequentazioni con Cioran sono state «molto frequenti» ci sarebbe da  sottoscrivere in toto ogni parola!  
      Desidero  inoltre ribadire che il fatto che la letteratura critica esistente intorno  all’opera di Cioran sia relativamente scarsa se da un lato dovrebbe consentire,  almeno il linea ipotetica, maggiori spazi di manovra, dall’altro impone  l’obbligo a chi scrive di andare davvero con i piedi di piombo. Cioran stesso,  ancora nella prefazione al libro di Rigoni, dichiara la sua estrema difficoltà  a «parlare  come si dovrebbe di qualcuno che ho tanti motivi di ammirare quanti di amare».  Muoversi in modo circospetto di fronte a  un’opera così mirabile e affascinante è precondizione necessaria al tentativo  di non annichilirne la potentissima carica poetica.        
     
      Il  contenuto integrale della tesi si può leggere cliccando qui. 
     
     
        Alessandro Seravalle 
(n. 10,   ottobre 2014,  anno IV) 
           
 
NOTE 
   
  1. E.M. Cioran, La tentation d’exister, Gallimard, Paris, 1956  (trad. it. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti, La tentazione di esistere, Adelphi, Milano, 1984, pag. 97). 
  2. 
  Ibid.
   
  3.
  «La sorte di chi si è ribellato troppo è di non aver più energie se non  per la delusione», da E.M. Cioran, Le mauvais démiurge, Gallimard, Paris, 1969 (trad. it. di Diana Grange  Fiori, Il funesto demiurgo, Adelphi,  Milano, 2002). Il termine delusione va inteso nell’originario senso etimologico  di «uscita dal gioco». 
  4. 
  La questione diventa lampante qualora  si prenda in esame la seguente considerazione di Cioran: «Non appena si analizza qualcosa, la si profana» (corsivo  dell’autore). E.M. Cioran, Cahiers 1957-1972,  Gallimard, Paris, 1997 (trad. it. di Tea Turolla, Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano, 2001); o, ancora più  esplicitamente, «la cosa per me più umiliante sarebbe avere il successo del tale o del  talaltro, veder pubblicare studi, libri su di me». Ibid. pag. 473. 
  5. E.M. Cioran, 
  Précis de décomposition, Gallimard, Paris,  1949 (trad. it. di Mario Andrea Rigoni e Tea Turolla, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano, 1996, pag. 68). I  corsivi sono dell’autore. 
  6. 
  Il tema dell’amicizia in relazione  ad un misantropo apparente come Cioran sarebbe, a nostro avviso, di un certo  interesse. Così si esprime Guido Ceronetti in un breve saggio intitolato Cioran, lo squartatore misericordioso: «Un metafisico.  Ma non distante, non eterico, non enigmatico: un amico. Un antidoto contro le  stregonerie, contro le intossicazioni del secolo. Leggerlo è avvertire la  presenza di una mano tesa, afferrare una corda gettata senza timidezza, avere  alla propria portata una medicina non sospetta». In E.M. Cioran, Squartamento, Adelphi, Milano, 1981,  pag. 18. 
  7. 
  E.M. Cioran, Entretiens avec Sylvie Jaudeau, suivis  d'une analyse des œuvres, José Corti, 1990  (trad. it. di Leopoldo Carra in Sylvie Jaudeau, Conversazioni con Cioran, Ugo Guanda, Parma, 1993, pag. 30). 
  8. 
  «Perché ricamare su ciò che esclude il commento? Un testo spiegato non è  più un testo. Con un’idea si vive, non la si disarticola; si lotta con essa,  non se ne descrivono le tappe…». E.M. Cioran, De  l’inconvénient d’être né, Gallimard, Paris, 1973 (trad. it. di Luigia  Zilli,  L’inconveniente di essere nati, Adelphi, Milano, 1991). Ci troviamo  e sempre ci troveremo, nel corso dell’esposizione, a dover camminare sul filo  del rasoio tra pedissequa citazione e tradimento del pensiero di Cioran. 
  9. 
  Silenzio che si configura come il  collante di tutta la trattazione oltre che la questione su cui più di ogni  altra si poserà la mia attenzione.
   
  10. 
  «Non c’è  salvezza se non nell’imitazione del silenzio.  Ma la nostra loquacità è prenatale. Razza di parolai, di spermatozoi verbosi,  noi siamo chimicamente legati alla  parola» (corsivi dell’autore). E.M. Cioran, Syllogismes  de l’amertume, Gallimard, Paris, 1952 (trad. it. di Cristina Rognoni, Sillogismi dell’amarezza, Adelphi,  Milano, 1993, pag. 20). 
  11. 
  Termine peraltro non molto amato da Cioran, nei Quaderni (op. cit.) infatti si legge: «Tutto ciò che è stile mi stanca oltre l’immaginabile.  Quando penso che anch’io mi sono prosternato così a lungo davanti a questo idolo!» (corsivo  dell’autore). 
  12. 
  E.M. Cioran, La tentation d’exister,  Gallimard, Paris, 1956 (trad.  it. cit. pag 183). 
  13. 
  E.M. Cioran, Exercise d’admiration. Essais  et portraits, Gallimard, Paris, 1986 (trad. it. di  Mario Andrea Rigoni, Esercizi di  ammirazione. Saggi e ritratti, Adelphi, Milano, 1988, pag. 221). 
  14. 
  In particolare del buddhismo Mahayana, detto anche Grande Veicolo,  dottrina che, a grandi linee, dichiara che ogni essere senziente va aiutato a  superare la propria sofferenza, ancora una volta una posizione che appare in  aperto contrasto con l’immagine misantropa di Cioran. Il punto di contatto più  evidente del Grande Veicolo con il pensiero di Cioran risiede nella  dichiarazione di «vacuità» del reale. «Per colui che vede, nulla resta» è la citazione  del Buddha più frequente ed emblematica. 
  15. 
  «Ho cambiato  idea su tutti, fuorchè su Shakespeare, Bach e Dostoevskij. Dei tre le mie  preferenze andrebbero a Bach. Di lui si può dire: “quello non delude mai”» (corsivo dell’autore). E.M. Cioran, Cahiers  1957-1972, Gallimard, Paris, 1997 (trad. it cit.). Per Cioran la musica è «superiore alla  Vita e alla Morte». (Aveux et anathèmes,  Gallimard, Paris, 1987). In un altro luogo dei Quaderni, quasi a voler sottolineare l’instabilità di qualsiasi punto di riferimento in Cioran, egli ci  fa sapere che «non ho avuto che due maestri: il Buddha e  Pirrone». Poco più avanti infatti: «Ieri guardavo, dal letto, le nuvole che passavano  con una rapidità allarmante. E mi dicevo che è con questo stesso ritmo che i  nostri pensieri si susseguono, annullandosi l’un l’altro proprio per la loro  stessa instabilità». 
  16. 
  E.M. Cioran, Exercises d’admiration. Essais  et portraits, Gallimard, Paris, 1986 (trad. it. cit.  pag. 90). 
  17. 
  «Non ho ucciso  nessuno, ho fatto di più: ho ucciso il Possibile e, proprio come Macbeth, ciò  di cui ho più bisogno è pregare, ma, proprio come lui, non posso dire Amen» (corsivo dell’autore). E.M. Cioran, De l’inconvénient d’être né, Gallimard, Paris, 1973 (trad. it. di  Luigia Zilli, L’inconveniente di essere  nati, Adelphi, Milano, 1991, pag. 58). 
  18. 
  In E.M. Cioran, Squartamento,  Adelphi, Milano, 1981, pag. 11. 
  19. 
  C’è da chiedersi se Cioran sia mai stato giovane, in realtà egli  conserva un ricordo straordinariamente sereno degli anni trascorsi nella natale  Rasinari individuando piuttosto nella partenza per Sibiu il punto di svolta  verso il suo abisso: «[…] la stretta al cuore, il grande dolore che ho provato quando mi  portarono a Sibiu, alla scuola superiore. Avrei dato qualsiasi cosa per restare  a Rasinari, che amavo così tanto. Non avevo nessuna voglia di imparare, volevo  restare al mio paesello a non far niente, a passeggiare lungo il fiume o a  scalare le montagne dei dintorni…». E.M. Cioran, Cahiers  1957-1972, Gallimard, Paris, 1997 (trad. it. cit.). 
  20. E.M. Cioran, Entretiens avec Sylvie  Jaudeau, suivis d'une analyse des œuvres, José Corti, 1990 (trad. it. cit. pag. 35). 
  21. 
  «Se fossi  costretto a rinunciare al mio dilettantismo, è nell’urlo che vorrei  specializzarmi». E.M. Cioran, Syllogismes de l’amertume,  Galimard, Paris, 1952, (trad. it. Sillogismi  dell’amarezza, Adelphi, Milano, 1993, pag. 64) o ancora «L’unico  atteggiamento pertinente sarebbe un silenzio assoluto o un grido disperato». E.M. Cioran, Pe culmile disperarii,  1934 (trad. it. di Fulvio Del Fabbro e Cristina Fantechi, Al culmine della disperazione, Adelphi, Milano, 1998, pag. 40). 
  22. 
  In M.A. Rigoni,  Il pensiero di  Leopardi, Bompiani, Milano, 1997.  | 
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