Daniela Marcheschi: Giuseppe Pontiggia

Giuseppe Pontiggia nacque a Como il 25 settembre 1934; nel 2023 ricorre il ventennale della sua morte. È stato uno dei maggiori scrittori e critici italiani, un autore che ha avuto il coraggio e la capacità di rinnovare i generi del romanzo e del saggio, e che ha saputo forgiare una parola limpida e penetrante: chiara, che significhi quindi evochi (non l’opposto), perché il valore possa esprimersi attraverso di essa [1]. Una parola-mondo, che Pontiggia potenzia riscattandola da un uso conformistico e falsificante che prevale nella società odierna.
In breve, un maestro: per il valore e gli ampi orizzonti della sua esperienza letteraria e intellettuale, testimoniata da opere che resteranno, perché animate da una intima necessità; per la sua capacità di accogliere liberamente e sostenere in maniera disinteressata tanti giovani autori e critici, che stanno dando lustro alla letteratura italiana contemporanea; per il suo modo di intendere l’essere scrittore: con l’intenso studio, l’esercizio quotidiano, la ricerca continua; per il rifuggire dalla chiacchiera della “civiltà dello spettacolo” [2]; per la sua dirittura morale in una società dove anche la cultura sembra talvolta più disposta al compromesso che alla tutela della dignità della persona.
Pontiggia trascorse l’infanzia serenamente giocando insieme con il fratello Giampiero (1927; poeta con lo pseudonimo Giampiero Neri), la sorella Elena (1935-1955) e il cugino Ezio Frigerio (1930-1922; costumista e scenografo) e leggendo avidamente i libri della biblioteca del padre Ugo, bancario, che, per essere stato fascista, sebbene non dei più accesi e alieno dalla violenza, fu ucciso nel 1943 nelle prime avvisaglie della guerra civile. Ma le ragioni dell’esecuzione avvenuta davanti agli occhi dei figli restano oscure, e nelle stesse file del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) si parlò di un errore.
Comincia allora un periodo difficile, fatto di privazioni, ma il giovane e vitale Pontiggia continua le sue letture onnivore, si appassiona al gioco degli scacchi, scrive, abbrevia i suoi studi liceali per impiegarsi in banca a soli 17 anni nel 1951. Dopo l’incoraggiamento decisivo, nel 1953, di Elio Vittorini a cui aveva sottoposto il suo dattiloscritto, Pontiggia esordì nel 1959 con La morte in banca. Cinque racconti e un romanzo breve (Milano, Rusconi e Paolazzi). È pure l’anno della sua laurea in Lettere con la tesi pionieristica La tecnica narrativa di Italo Svevo (in «Kamen’», nn. 21-22, 2003; quindi in  La lente di Svevo, a cura di chi scrive, Bologna, EDB, 2017; infine Bologna, Marietti 1820, 2022). La morte in banca, ispirata dalle vicende autobiografiche, sarà rivista e ampliata quanto al numero dei racconti: Un romanzo breve e undici racconti (Milano, Mondadori, 1979) e Un romanzo breve e sedici racconti (Milano, Mondadori, 1991). L’opera esce nella collana dei «Quaderni del Verri», ossia della rivista diretta da Luciano Anceschi, e della cui redazione Pontiggia (grande lettore di narrativa, ma anche di filosofia e arte; e cultore di musica jazz), sarà parte attiva per anni dal 1956 al 1961. Si tratta di un testo notevole per tre ragioni: la prima è che prende le distanze sia dall’allora imperante Neorealismo sia dallo psicologismo, nel focus sulla maturazione di Carabba, il giovane protagonista impiegato di banca e studente, sulla presa di consapevolezza della propria esperienza e della ipocrisia e della disumanizzazione di quell’ambiente lavorativo; la seconda è che contribuisce a illuminare in maniera nuova il rapporto fra letteratura e industria, fra letteratura e mondo aziendale nel periodo del boom economico [3]; la terza è che la struttura per sequenze: cosa che caratterizzerà anche altre opere del Pontiggia maturo, guidando al percorso di acquisizione della verità da parte del protagonista, nei modi in cui si articola il cammino percettivo e conoscitivo secondo una sensibilità di tipo fenomenologico. Ciò permette allo scrittore una ricerca formale innovatrice nel contesto del Novecento letterario italiano. Bastino, ad esemplificazione, i seguenti brani:

Ma un pomeriggio, mentre lavorava all’addizionatrice e cercava, per vincere la monotonia, di prevedere quante volte sarebbe apparso, all’inizio di ogni cifra, il numero 21, si fermò sgomento. C’era una differenza tra lui e gli altri studenti. Cioè che lui lavorava in una banca e passava qui tutta la sua giornata. E questa esperienza contava, perché era lui a viverla, perché era la sua esperienza. Era inutile fingere di ignorarla, chiamarla pratica, transitoria. Gli parve di aver scoperto l’essenziale, che prima non aveva neanche intravisto. Perciò non aveva mai capito tutto il resto.
Fino all’uscita non riuscì ad applicarsi più a niente. Che cos’era stato quel continuo volersi imporre alla esperienza? Una volta constatato che essa agiva su di lui giorno per giorno e che faceva da sfondo a tutte le sue reazioni?
Che arbitrio, anche, negare l’influenza degli altri. La loro importanza, che gli si rivelava nei rari momenti
in cui lo incoraggiavano
. [Opere, p. 53]

E ancora:

Trovava assurda la sua vita, ritornava su certe constatazioni con una fissità che lo stancava e gli faceva talvolta desiderare di evadere, di tornare a muoversi, di distrarsi.

L’estate era caldissima, dai tram semivuoti si vedeva l’asfalto che luccicava.

Incontrava a volte l’amico bancario e, facendolo parlare, ritrovava in lui la propria crisi, le stesse speranze deluse. Eppure non poteva accettare le conclusioni dell’altro. Certo, questo era strano: si irritava ancora, ad ascoltarle. Non poteva accettare che proprio la crisi, che gli aveva aperto gli occhi, gli imponesse una nuova finzione, impedendogli di vedere oltre. Che il fallimento fosse mentale. Ne provò una stretta d’angoscia. Ecco, era quella la morte: la morte in banca. Che era poi una delle infinite morti nella vita. [Opere, p. 55]

Nel 1961 Pontiggia lascia la banca e intraprende l’insegnamento nelle scuole serali. Comincia anche a scrivere L’Arte della Fuga, che sarà pubblicata nel 1968 (Milano, Adelphi; II edizione riveduta e ampliata, ivi, 1990).  Questa opera  è un prontuario o canovaccio di “gialli” possibili, un insieme di situazioni e variazioni narrative intorno al principale tema del delitto, della violenza, della morte, della eterna, macabra danza fra un assassino e una vittima. Fra narrazione e domanda metafisica, nella commistione di prosa e poesia è un sorprendente romanzo-di-romanzi/ poema e fra i più rappresentativi e profondi dello sperimentalismo degli anni Sessanta. La coscienza della crisi del linguaggio tradizionale non vi si traduce in nichilismo, in breve nella negazione del romanzo o nella sua fine, bensì nella riaffermazione sulla possibilità o, meglio, le possibilità di farlo, rinnovandone gli orizzonti, come si può intravedere fin da alcuni testi della Sequenza Prima. Dall’Uovo:

In fondo
Sono in un lunghissimo tunnel.
Ho cominciato a correre. Qualcuno mi inseguiva.
L’apertura in fondo diminuiva e allora mi voltai.
Volendo gridare, non uscendo nulla. […] [Opere, p. 59]

Dialogo
«Chi è?» domandò dietro l'uscio l'ingegnere, asciugandosi il viso.
« (+) (+ -).»
«Ah, sei tu» disse l'ingegnere.
Aprì la porta.
«Stavo uscendo» aggiunse. «Mi dispiace. Questa sera devo uscire.»
«(° + - +)?».
«No. Con un'altra, È una commessa dell'UPIM».
«(& °°! ”” + ^ +) (- ^^)?»
«Non ancora. Ma presto.»
«(^ + -) = (^ + -).»
«Grazie.» [Opere, pp. 60-61]

Fondali
La pioggia frusciante precipitava a tratti violenta sull’asfalto nero nel viale rischiarato al neon della città allagata, un velo di pioggia continua dinanzi agli occhi assorti dell’ingegnere.
L’acqua silvana o la forza idraulica? E nella rete scintillante inestricabile galleggiava lei nelle luci, lei tra poco in attesa, galleggiando nell’acqua della notte.[…] [Opere, p. 60]

E comprendere dall’ultimo testo, che finisce senza segni di punteggiatura, della conclusiva Sequenza Diciannovesima. La specie:

Gli addii
furono sul molo, nella stanza,
ai piedi del grattacielo, in fondo al bar,
in una strada in ombra, lungo il fiume,
alla foce, sul ponte, sotto gli alberi.
Rinunciarono alle parole? No, parlarono
a lungo, inutilmente, dicevano

Negli anni Sessanta lo scrittore viaggia in Europa e non solo, si sposa (nel 1963) e ha un figlio disabile con cui costruirà un rapporto di amore intenso; diventa consulente editoriale delle case editrici Adelphi – a cui proporrà la pubblicazione delle innovative opere di Guido Morselli (1912-1973) – e Mondadori, presso cui sosterrà con altrettanta convinzione e ammirazione la pubblicazione dello straordinario Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo (1919-1992). Dal 1971, e fino al 1993, cura insieme con Marco Forti, l’«Almanacco dello Specchio» Mondadori e comincia a lavorare al nuovo romanzo Il Giocatore invisibile, che sarà pubblicato dalla stessa casa editrice nel 1978. La vicenda è quella di un professore universitario che subisce un attacco anonimo su una rivista  in merito a una etimologia: ben presto, i passi per scoprire il nemico che si nasconde diventano una resa dei conti con l’ipocrisia e la falsità che hanno connotato fino ad allora la sua esistenza. Il tema principale si intreccia con quello sotteso, ma non meno evidente, dei rapporti fra cultura ed etica, in anni in cui si idolatra l’ideologia; ed è un successo di pubblico e di critica. Nel 1985, il regista Sergio Genni ne trarrà un film interpretato da Erland Josephson insieme con Adolfo Celi, Roberto Herlitzka e Catherine Spaak.
Termina l’insegnamento e lavora ancor più tenacemente, cominciando a collaborare fra l’altro al «Corriere della Sera», e al settimanale «Panorama»; nel 1979, per i bambini, pubblica il racconto lungo o romanzo breve Cichita la scimmia parlante (Teramo, Lisciani & Zampetti), a cui seguirà nel 1983 il romanzo Il raggio d’ombra (Milano, Mondadori), ispirato da una vicenda di tradimento politico e fughe accaduta realmente nel 1927 e di cui è venuto a conoscenza per caso durante una cena. La storia lo colpisce molto, ma l’esito del suo lavoro non lo convincerà pienamente tanto che correggerà il romanzo per ripubblicarlo nel 1988: continuerà a non esserne soddisfatto, anche perché Pontiggia vive la scrittura come sorpresa, e conoscere in anticipo gli accadimenti è contrario alla sua tensione di ricerca nella e con la scrittura: l’avventura delle parole-cose. Tuttavia nel romanzo vi sono pagine molto belle, come ad esempio quelle dedicate nel cap. XII al professor Perego e alla sua bibliomania (che caratterizzava anche lo stesso autore, la cui biblioteca di oltre 35mila volumi è stata acquisita dalla BEIC di Milano insieme al suo archivio):

C’era una domanda alla quale Perego, come chiunque possegga molti libri, riusciva raramente a sottrarsi. Domanda che gli sembrava un indice tra i meno conosciuti, ma tra i più inquietanti, della ottusità universale: “Li ha letti tutti?”
Aveva sperimentato vari tipi di risposta, pur presago che quella più illuminante sarebbe stata il silenzio. Aveva provato, sfidando l’evidenza e precipitando nell’ebbrezza dell’assurdo, a rispondere:
«Sì.»
L’interlocutore di solito aveva un sussulto di sorpresa, i più ignari chiedevano, tra il dubbio e l’ammirazione:
«Ma veramente?»
e al secondo “Sì” impavido reclinavano il capo.    
Ad altri aveva cercato di far capire che il libro non è un cibo che si deteriora, ma una provvista che si fa per altre stagioni, per inverni rigidi e per estati ombreggiate, e che il piacere dell’attesa non è meno intenso di quello dell’appagamento ed è, se non altro, più certo. Lo guardavano, a questa precisazione, con quella indulgenza che riserviamo a chi svela debolezze meno gravi delle nostre.
[Opere, p. 466]

Nel 1984 pubblica la raccolta di saggi Il giardino delle Esperidi (cit.), che ne mostra una consapevolezza e un acume critico rari; nel 1985 comincia (per tenerli fino al 1996) i suoi corsi di scrittura al Teatro Verdi di Milano, pionieristici per l’Italia e illuminanti per chi ha la possibilità di seguirli. Nel 1989 esce il romanzo La grande sera (Milano, Mondadori), che riceverà il Premio Strega. La vicenda narrata è quella di un uomo che abbandona moglie, fratello, amante, soci ecc. e scompare, nel disegno di uno spazio narrativo circolare in cui vengono via via focalizzati e fatti muovere personaggi esemplari di una società senza valori autentici: ad esempio, il critico cinematografico fallito, l’investigatore privato, il grande finanziere o lo psicanalista parolaio. Un’opera ricca di sperimentazioni e di ironia, di comico, per un ritratto disincantato della società italiana di quegli anni, mai indulgente ma non nichilista. Anche questo romanzo sarà rivisto e corretto per l’uscita negli Oscar del 1995: le riserve mossegli da alcuni critici hanno fatto riflettere Pontiggia e lui, convinto che un testo può essere migliorabile, perché l’ispirazione non può non essere congiunta alla costruzione del testo,  e che si fa letteratura insieme, vi ha riflettuto e lavorato a lungo. Resta uno dei suoi libri più importanti, con pagine e pagine di straordinaria intensità come quelle del capitolo Animali e uomini:

Anziché promuovere le bestie alla condizione di persone, riduceva mentalmente le persone a una condizione animale. E osservava che i rapporti sociali ne venivano semplificati.
Considerare l’ostilità inesplicabile di una portinaia come l’antipatia di un mastino gli risparmiava penosi e sterili interrogativi sulla propria simpatia. Che delle sue debolezze approfittasse il simbolo della maternità, ovvero sua madre, per avventarglisi contro, trovava una replica illuminante nelle reazioni dei cani più espansivi di fronte a un innocente che fugge. […]
La stupidità laboriosa di certi interlocutori gli riusciva più sopportabile se la attribuiva a un bracco. E l’arroganza di certi burocratici era più comprensibile se si trasformavano in dobermann.[…]
Di fronte all’ottusità di un attacco immotivato pensava al comportamento di un toro che si adombra per un colore. E questa spiegazione ne eclissava altre più complicate e probabilmente meno attendibili.
Sapeva che i suini cercano, rotolandosi nel fango, di pulirsi: e il modello gli rendeva più decifrabili certi esami di coscienza in pubblico, certe esibizioni di visceri non richieste da nessuno o certe confessioni che gli facevano i suoi nemici, non capiva se per apparire meno sordidi o per diventarlo di più. Non era facile capire neanche l’anima dei suini e questo era un altro insegnamento.
[Opere, pp. 964-965]

Nel 1991 vince il premio Satira politica di Forte dei Marmi, con il volume di prose satiriche Le sabbie immobili (Bologna, il Mulino); e nel 1993 ottiene un enorme successo anche internazionale con Vite di uomini non illustri (Milano, Mondadori), che sarà insignito del premio Super Flaiano nel 1994. Da una delle Vite, Mario Monicelli trarrà nel 1995 il film Facciamo paradiso, conPhilippe Noiret, Margherita Buy, Lello Arena fra gli altri. Il volume delle Vite, concepito come un calco-parodia del genere antico e moderno delle vite illustri è coinvolgente, nel suo tripudio di stili, di ritmi, di ironia, di personaggi e ambienti diversi dal XIX secolo al XXI inoltrato, di invenzioni narrative felici. L’opera è, anch’essa, un romanzo-di-romanzi, anzi micro-romanzi o racconti: Pontiggia, come al solito, vive ogni libro come un modo per ricercare, per saggiare la letteratura, per sperimentarne ancora nuove vie.
Sperimentazione che appare evidente nei saggi inclusi sia in L’Isola volante (Milano, Mondadori, 1996) – in cui Pontiggia ripensa il saggio come genere e l’osservazione critica si esprime anche nella forma del dialogo (Guido Morselli docet) e del racconto – sia in I contemporanei del futuro (Milano, Mondadori, 1998), un appassionato viaggio nei classici (come recita il sottotitolo) da lui sempre letti e molti amati. Il saggio introduttivo su cosa siano i classici non ha pari nel Novecento italiano ed è fra quanto di più acuto e profondo sia stato mai scritto sull’argomento.
Intanto la sua fama e la sua popolarità crescono anche grazie ai programmi che tiene e alle interviste in radio e in televisione; e, per le sue parole sempre pensate e sentite, diventa uno scrittore amato anche da chi non può definirsi colto o particolarmente amante della lettura.

Nel 2000 esce un altro capolavoro e un altro grande successo internazionale: Nati due volte (Milano, Mondadori; Premio SuperCampiello, Pen Club e Società dei Lettori), a cui Gianni Amelio si ispirerà per il film Le chiavi di casa (2004), con Charlotte Rampling, Kim Rossi Stuart e Pierfrancesco Favino. Nel romanzo Pontiggia ha finalmente potuto narrare una delle esperienze più radicali della sua vita, ossia la disabilità del figlio Andrea. Pur traendo ispirazione da vicende autobiografiche, il romanzo è però anche costruzione fictionale con episodi e personaggi di mera invenzione narrativa, che raccontano la disabilità e ciò che essa comporta per chi le vive accanto in positivo e in negativo. Un’opera non consolatoria, vibrante di umanità, di dolore ma anche di ironia, di tragedia ma anche di lirismo, di rovesciamento di luoghi comuni, come nel breve capitolo-saggio Che cosa è normale?:

Niente. Chi è normale? Nessuno.
Quando si è feriti dalla diversità, la prima reazione non è di accettarla, ma di negarla. E lo si fa cominciando a negare la normalità. La normalità non esiste. Il lessico che la riguarda diventa a un tratto reticente, ammiccante, vagamente sarcastico. Si usano, nel linguaggio orale, i segni di quello scritto: “I normali, tra virgolette”. Oppure: “I cosiddetti normali”.

La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo. Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma.

Quando Einstein, alla domanda del passaporto, risponde «razza umana», non ignora le differenze, le omette in un orizzonte più ampio, che le include e le supera.
È questo il paesaggio che si deve aprire: sia a chi fa della differenza una discriminazione, sia a chi, per evitare una discriminazione, nega la differenza.

Nel 2002 appare Prima persona (Milano, Mondadori), in cui rielabora ampiamente e raccoglie una parte degli Album che è venuto pubblicando sul domenicale del «Sole-24 Ore», a partire dal 1996. Si tratta di un’opera o, meglio, di un altro viaggio, ma in compagnia di sé stesso, in cui Pontiggia analizza e riflette sulla società italiana e certe tipologie umane che vi si muovono; insomma sui vizi e le virtù dell’Italia degli inizi del nuovo Millennio. Nel 2003 ottiene il Premio Nietzsche. Nell’aprile di quello stesso anno comunica di avere avuto «un’idea formidabile»: di stare concependo un romanzo su un’epidemia mortale che si diffonde dall’Estremo Oriente e che, mano a mano che si avvicina al nostro mondo, incrina le false certezze di cui si ammanta la società occidentale:

Sono sopravvissuto. Vengo considerato fortunato. Il virus ha paralizzato metà della mia faccia e la parte sinistra del tronco. Riesco a spostarmi come uno storpio, saltellando su una gamba sola.
Il virus non può più attaccarmi. È l’unico vaccino che funziona. Gli abitanti del condominio mi guardano con orrore e invidia. È come se appartenessi a un’altra specie. Loro continuano a vivere nell’incubo dell’epidemia.
Nessuno mi ha dato un aiuto quando mi sono ammalato. Non mi hanno visto uscire dal mio appartamento e hanno telefonato immediatamente al centro ricoveri.
[Archivio BEIC: Serie 3. Opere, Fascicolo 18, Busta 10] [4]

           
Muore all’improvviso il 27 giugno 2003, ed è sepolto nel cimitero di Arcellasco (Erba).      Postumi, oltre alla La lente di Svevo già citata, sono usciti i seguenti volumi: Il residence delle ombre cinesi (Milano, Mondadori, 2004), con racconti e saggi sparsi scelti e a cura di Antonio Franchini; Leggere, Milano, Lucini, 2004; I classici in prima persona (Milano, Mondadori, 2006), a cura di Ivano Dionigi: testo di una conferenza tenuta all’Università di Bologna nel novembre del 2002; Le parole necessarie. Tecniche della scrittura e utopia della lettura, a cura di chi scrive, Bologna, Marietti 1820, 2018; Per scrivere bene imparate a nuotare. Trentasette lezioni di scrittura (Milano, Mondadori, 2020), a cura di Cristiana De Santis.

Daniela Marcheschi
(n. 2, febbraio 2023, anno XII)




NOTE

1.
Come Giuseppe Pontiggia scrive nel saggio La «chiarezza» di Daumal, in Il giardino delle Esperidi, Milano, Adelphi, 1984, ora in Id.,  Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 2004, pp. 535-540: 537. D’ora in avanti tutti i testi di Pontiggia si citeranno con la semplice abbreviazione Opere, seguita dalla indicazione di pagina.
2. Di cui parla Mario Vargas Llosa, La civilización del espectáculo, Madrid, Alfaguara, 2012; La civiltà dello spettacolo, trad. it. di Federica Niola, Torino, Einaudi, 2013.
3. Cfr. in merio almeno Alessandro Ceteroni, Alle origini del romanzo aziendale. Un’interpretazione de La morte in banca secondo la narratologia cognitivista, in «Enthymema», X, 2014, pp. 202-226 (on line). 
4. Appunti/spunti narrativi ne sono stati pubblicati pure in «la Repubblica», 18 marzo 2020, con lo scritto  di Paolo Di Paolo, Gli anziani e la peste. Il presagio del Peppo. Cfr. anche Cristiana De Santis, “L’epidemia” di Giuseppe Pontiggia, in Griselda on line, 30 marzo 2020.