Eugène Ionesco, un episodio italiano

Pochi sanno che Eugène Ionesco ha scelto di concludere la sua carriera in ambito drammaturgico accettando di scrivere un libretto d’opera. Il fatto non sarebbe da prendere in particolare considerazione se Ionesco non avesse riabilitato il genere mediante la forza della sua prodigiosa creazione, facendolo tornare dal livello schematico e recitativo alla drammaturgia. All’inizio degli anni ‘80 intrattiene un fruttuoso incontro con il compositore Dominique Probst, che cercava un librettista per un’opera lirica commissionatagli dall’Opera di Parigi e per questo aveva scelto un argomento tragico ed emozionante allo stesso tempo: il materiale del sacerdote francescano polacco Massimiliano Kolbe, deportato ad Auschwitz. Questi, nell’agosto del 1941, offrì volontariamente la propria vita in cambio della salvezza di un padre di famiglia, che avrebbe dovuto dire addio ai figli lasciandoli da soli. Dominique Probst testimonia [1] che il suo incontro con Ionesco è stato mediato dal Rev. Padre Ambroise-Marie Carré dell’Accademia francese, che conosceva la fascinazione di Ionesco per Kolbe, sulla quale il drammaturgo si era espresso nel corso del Colloque de Cerisy (3-13 agosto 1978, Centro culturale Cerisy-la-Salle, Ionesco, situation et perspectives), organizzato da Marie-France Ionesco e Paul Vernois. In apertura di tale colloquio, Ionesco dichiarava [2]:

«Je ne me suis pas accompli dans la littérature. Ce n’est pas une vraie vie que celle d’un littérateur. Comme Sartre et comme tant d’autres, moi aussi, j’ai aligné des mots et des mots, j’ai tiré à la ligne. La soif et la faim de l’absolu ne peuvent être comblées par la littérature. Ou plutôt par la littérature pour la littérature. Je survis parce qu’il y a ma femme et ma fille et quelques amis. Mais ni mon cœur, ni mon âme ne sont plus à la littérature. […] On nous dit que, du bunker de la faim et de la soif dans lequel se trouvaient Kolbe et les autres, des chants, des hymnes s’élevèrent, et non pas des cris de détresse et d’angoisse comme on en entendait d’habitude, dans les pareils cas. Maximilien Kolbe mourut donc le dernier. Aider les autres à mourir, leur faire accepter la mort est sans doute encore plus extraordinaire que de mourir pour quelqu’un.» [3]

La passione di Ionesco per Massimiliano Kolbe era anche una risposta alla propria creazione letteraria, mediando (come forma di intertesto-interdestino) il processo di Imitatio Christi con quello del modello offerto da Kolbe, giustificandosi in maniera fondamentale, cercando lui stesso un modello di passaggio. Se, nelle prime opere teatrali, i personaggi di Ionesco erano costituiti più dalla meccanica che dalla sostanza, e la sostanza era una conseguenza dello stile della meccanica, questa volta la sostanza non solo supera il quadro limitativo di un libretto d’opera, ma è anche sostenuta coralmente dai suoi diari, dalle sue inquietudini, sintetizzate attraverso l’evocazione del sacerdote polacco. Se, nel teatro antico, il coro aveva ciò che oggi diremmo una qualche funzione socio-balzachiana sull’azione e sul contesto di un quadro, i diari tardivi di Ionesco assolvono tale funzione, contestualizzando l’opera, lasciando come testimonianza le inquietudini all’interno delle quali, al di là dell’argomento stesso, è nato questo testo che fa tornare il teatro al mistero medievale e anche al primo dramma cristiano, quello di Gregorio Nazianzeno, la cui Passione di Cristo si può vedere come risposta a un legato morale (e, fino a un certo punto, anche stilistico) rispetto alle atrocità del ventesimo secolo, ma soprattutto rispetto alla disponibilità di purezza assoluta di padre Kolbe. La testimonianza di Ionesco si aggiunge alla testimonianza di padre Kolbe mediante il modo in cui si vergogna riguardo alla vanità, al di là della coscienza e tramite essa, arrivando così alla grazia:

«Nous autres, nous nous agitons dans des cafés littéraires, nous nous acharnons à combattre pour notre gloire et notre vanité personnelle, nous nous enivrons de paroles creuses, de livres creux, de livre de littérature. Nous sommes là, des centaines et des centaines, a quémander, à des mourants, l’immortalité, une sorte d’immortalité, une immortalité éphémère si je puis me permettre cette expression. Non, je n’étais pas fait pour une autre vie, puisque j’ai choisi la vie que j’ai vécue. J’espère toutefois, on ne sait jamais, que ce que j’ai fait, ce que j’ai écrit aura pu aussi, dans une bien moindre mesure, à mon insu, aider quelqu’un. Peut-on dire que je suis jaloux de Maximilien Kolbe? Pour moi, c’est la seule existence  qui mérite d’être vécue, qui justifie aussi bien la vie que la mort.» [4]

Ionesco oppone quindi all’immortalità letteraria l’immortalità attraverso la salvezza. Il suo primo testo drammatico francese, La cantatrice calva (sempre sullo sfondo della soluzione della riconciliazione del mistero medievale, questa volta col melodramma) si riferisce a una cantante d’opera (dietro alla quale s’intravvede l’autore), e l’ultimo è per l’appunto il libretto d’opera. Possiamo vedere nel sottotesto di questa simmetria un sottilissimo accompagnamento dell’allusione della musica e anche della musica che fa da corollario all’autore, non però nel senso che si dà oggi, ma in quello rinascimentale, di poeta drammatico, e, alla fine, di poeta. La vocazione lirica di Ionesco viene fuori solo mediante la straordinaria chiusura aristotelica di tale simmetria. Tra il 1981 e il 1982, Dominique Probst e Eugène Ionesco hanno collaborato, in sessioni successive, all’elaborazione dell’opera. Purtroppo, con l’arrivo di un nuovo direttore, l’Opera di Parigi ha rinunciato a questo progetto. Dominique Probst così descrive il momento [5]:

«Une fois mon travail achevé, je déposai ma partition à l’Opéra de Paris qui honora sa commande mais ne donna malheureusement jamais suite à notre projet pour cause de changement d’administrateurs. Cela contrariait profondément Ionesco qui écrivait «un directeur d’opéra nous fit un contrat. Les successeurs de ce directeur n’y donnèrent pas suite. Parler de saints et de la Divinité n’était vraisemblablement pas de leur goût…» Or, plus le temps avançait et plus il m’apparaissait comme une évidence qu’il fallait compléter notre ouvrage, le développant en son milieu, «en son cœur». Fin 1987, l’Italie nous tendit les bras en personne de Mario Guaraldi, conseiller artistique du «Meeting per l’Amicizia fra i Popoli», nous proposant de créer là-bas notre opéra l’été suivant.» [6]

Più avanti, Dominique Probst racconta come, insieme a Mario Guaraldi, ha convinto Ionesco a scrivere una parte del libretto, la parte centrale, formata da tre pagine, che giustamente il compositore considera le più ioneschiane del testo. Qui appare Puchovski, il nono prigioniero, importante nell’economia drammaturgica e essenziale per la sua simbolistica. Il più profondo monologo di questo libretto è stato scritto in tale occasione e, probabilmente, senza il rifiuto della messa in scena parigina e l’occasione del montaggio dell’opera in Italia, gli autori non avrebbero avuto il tempo o la disponibilità per ripensare l’intero lavoro e farlo guadagnare in profondità. Ciò che nel frattempo Ionesco ha aggiunto al libretto d’opera su Massimiliano Kolbe, alla fine di questi quasi sette anni apparentemente persi, ribalta praticamente il suo valore iniziale, trasformandolo in un capolavoro di umiltà e di stile, di cultura e di fede. Sebbene le repliche violente siano schematiche, convenzionali (il male stesso è convenzionale allorché stermina persone, considerate un mero dato statistico), la forza che Massimiliano concede ai suoi compagni di sofferenza appare come una vera funzione religiosa atipica, attraverso la quale si intravvede, mediante la forza del modello, persino un’ombra pedagogica della Scuola di Atene. Più ancora, la disumanizzazione di certi personaggi (i nazisti) suggerisce per induzione una rudimentazione parzialmente deliberata del testo per la creazione, il modellamento dei personaggi nella complicità con la forma onde ottenere un effetto di persuasione sullo spettatore. Il dialogo tra Puchovski e Massimiliano compensa profondamente ciò che le parti violente riescono a restituire soltanto mediante la carenza del drammatico, imitando la violenza e l’ottusità totalitaria. Il testo drammatico è esso stesso un sacrificio del modo in cui il Bene compensa il Male, dove scompare il confine tra realtà e finzione, con atto e parola che si sovrappongono nella stessa misura in cui, quando il sacerdote dice «Battezzo questo bimbo!», lo fa emergere dall’acqua. Dando, in altre parole, credibilità tramite l’acustica morfologica del testo. L’equilibrio scioglie dentro di lui il mistero e il dramma, rendendoli compatibili e lasciandoli negoziare insieme la tradizione del teatro stesso, dall’Antichità fino al Medio Evo, da ultimo fino alla crudeltà del XX secolo, obbligandolo a risorgere con e mediante i suoi generi: quello, ad esempio, del mistero. Affrontare un tale modello non è solo un’interpretazione della storia puntuale del martirio di Massimiliano Kolbe, ma anche una più generale, tramite l’atto di omaggio della riutilizzazione delle formule tradizionali di poesia della Chiesa. Il mistero, invece, non è interpretato per coincidenza, ma per illuminazione: il sacrificio, che significa soffrire come il Cristo.

La prima mondiale della pièce Massimiliano Kolbe ha avuto luogo a Rimini, il 20 luglio del 1988, alla presenza di migliaia di giovani, per la regia di Tadeusz Bradecki, per poi essere messa in scena anche ad Arras, in Francia, quindi in Polonia, in Austria, in Sicilia e in Romania. L’occasione della sua messa in scena a Rimini ha prodotto la revisione della seconda parte, trasformando il libretto stesso in un testo che può essere interpretato anche al difuori della musica, trasformandosi da libretto d’opera in drammaturgia pura, come teatro dei misteri o teatro popolare. Una giustificazione culturale per le poche repliche, apparentemente insufficienti, può essere trovata nella convenzione del teatro religioso primario, in Gregorio Nazianzeno, in Roswitha di Gandersheim e così via dicendo, nella perspettiva del teatro ingenuo su cui ritorna Ionesco. In questo modo, mediante la semplice rimemorazione culturale di alcune procedure, collocata nel contesto del genere stesso del mistero medievale (esso stesso rudimentale per un’eccessiva esposizione), il libretto può essere messo in scena anche senza la musica, anche se è interessante la capacità di umiltà del testo nel farsi permeare dalla musica fino all’osmosi.
La ribellione ioneschiana non è assente nemmeno in quest’opera, piuttosto che in relazione con la figura di Massimiliano Kolbe. Nel 1981, alla data in cui Ionesco e Probst hanno iniziato la collaborazione, Massimiliano Kolbe non era stato ancora canonizzato nella Chiesa cattolica, ma solo beatificato (il 17 ottobre del 1971). Era il momento del dibattito, di modo che l’opera potesse essere vista come parte della controversia in corso sulla personalità del sacerdote polacco, nel viaggio tra la beatificazione e la canonizzazione, anche se esso non si è potuto compiere pubblicamente. Alla fine, Massimiliano Kolbe è stato canonizzato (il 10 ottobre 1982) a Roma, da Papa Giovanni Paolo II. Nata durante le controversie tra beatificazione e canonizzazione (e non solo per le formalità di un iter burocratico), l’opera ha visto le luci della scena nel momento in cui la persona che rappresenta il personaggio era già diventata santa, essendo quindi in pieno accordo con la posizione della Chiesa e con lo spirito di rappresentazione del teatro medioevale, ricomparso in lui (come d’altronde con la poesia). Tuttavia, il lavoro sfugge alla canonicità mediante la filosofia e tramite le sue domande ultra-dogmatiche. Marguerite Jean-Blain, nell’edizione critica del libretto (2005) si riferisce, lasciando da parte i libri di divulgazione, a Maximilien Kolbe, prêtre et martyr [7] del padre Antonio Ricciardi, colui che ha proposto la beatificazione di Massimiliano Kolbe, libro (con moltissimi documenti) apparso in Italia in più edizioni riviste e accresciute. Un’edizione francese di questo libro, apparsa solo nel 1987 [8], sarebbe potuta essere utile a Ionesco più per la sostanza della seconda parte che per l’intero libro, che, sebbene si possa presumere che sia stato rivisto, non ci risulta stato modificato. È poco probabile che Ionesco abbia letto il libro di Antonio Ricciardi in originale, e che si sia ispirato a esso, tanto meno che il suo libretto d’opera sia una riscrittura scenica di un libro in particolare. Essendo stata riaperta la controversia, non è da escludere che certi dati, che potrebbero averlo ispirato, siano stati desunti proprio dalla stampa, un possibile, inedito aspetto di trattamento del sacro, che ci ricorda la sua appetenza originaria per la conciliazione del mistero col melodramma (la stampa essendo in ciò un medium accessibile). In piena controversia sulla vita di Massimiliano Kolbe, Ionesco, riconciliando i registri della vita pubblica apparentemente inconciliabili, riscrive (mediante Massimiliano Kolbe) La cantatrice calva, con la quale non ha apparentemente niente in comune. Per ciò, se si trattasse di una riscrittura, essa non è stata fatta sulla base di un altro libro, abbiamo in realtà a che fare con una riscrittura stilistica in cui la parte principale non è più la coincidenza e il melodramma, ma il mistero medievale. La conversione della logorrea in umiltà è soltanto una delle strategie. Ce ne sono anche altre. Per esempio, la scena del ritrovamento degli sposi Martin e l’esposizione della replica del capofamiglia, che dice («comme pétrifié soudain»  [9]): «J’ai tué un Saint et un Martyr[e]» [10] mentre guarda Massimiliano morente. Replica e tesi rudimentale, in fondo, specifica di alcune opere dimostrative. La coscienza del padre di pronunciarsi attraverso una risposta così predittiva (essa stessa canonizza de jure, per facilitare de facto lacanonizzazione) o, detto diversamente, il fatto di non provare a lenire la sua morte, prima di provare a diventare lui stesso il prete del tuo prete, è improbabile. Ciò attiene più a una improbabilità specifica della drammaturgia sacra che non di quella dell’assurdo, anche se, per significato, problematizza incidentalmente l’assurdo. In quanto tempo Massimiliano Kolbe diventa santo e martire solo dopo la morte, e uccidere un santo e un martire è un’illuminazione anticipativa, però anche un’insorgenza del candore dell’assurdo cedendo ai rudimenti del teatro cristiano delle origini, rinunciando a tutte le acquisizioni del teatro moderno, facendo appello a un’arte che desidera arrivare al sublime attraverso un tragismo ingenuo. Essendo fondamentalmente una riscrittura in negativo della Cantatrice calva, Massimiliano Kolbe non è in alcun modo solo un libretto qualsiasi (anche se atipico), ma un capolavoro che chiude il cerchio, che, essendo confortato, è diventato viziato, se dovessimo parafrasare una replica del signor Smith dalla Cantatrice calva che, verso la fine, mirava al sacro direttamente dal vizio del conforto. Tra le due polarità molto somiglianti stilisticamente si realizza ontologicamente la personalità di Ionesco, perché esse definiscono meglio la sua biografia, ricentralizzandone la personalità in un mondo di brechtiani e l’idea di teatro che diventa sempre più una ideologica di sindacato.



Nel Diario in frantumi [11] (1967), Ionesco assume indirettamente (e in modo, proprio per questo, complesso), attraverso il suo testo, nella sua area personale d’interpretazione, un’attitudine per il martirio di Massimiliano Kolbe, contento perché l’opera Il re muore ha aiutato a far morire Ion Vinea, traducendola, detto diversamente, che la sua traduzione gli ha facilitato (che gli ha dato una mano verso) la morte.

«Vinea , un des plus grands poètes de son pays, a traduit ma pièce Le roi se meurt. Je l’avais connu, jadis, il y a si longtemps. [...] physiquement, il perdait ses forces et, agé de soixante-dix ans, il vient de mourir. Je fus heureux d’apprendre que c’etait lui qui traduisait ma piece, fier qu’il eut fait ce choix; désolé d’apprendre en même temps qu’il était très malade, qu’il était sur le point de mourir, qu’il était mort. […] Vinea est mort dés qu’il eut fini la traduction. Qu’est-ce que cela a pu être pour lui, cela a-t-il pu lui être d’un secours quelconque ? […] Ce texte a-t-il pu aider Vinea à murir ? Moi, cela ne m’a aidé à rien; à mesure que je l’écrivais, c’était comme si je rejetais le texte.» [12]

Quindi il modello è distillato e intrattiene la corolla fisiologica di questo capolavoro di Ionesco attraverso una propedeutica di tipo cristiano. Essa non esclude l’assurdo, al contrario, lo nobilita mediante la grazia. Guardato dall’esterno, Massimiliano Kolbe può non trovare giustificazione al proprio gesto, specialmente nel contesto in cui esiste l’apparenza che qualsiasi causa fosse persa. Però, come che sia, in questo contesto, la reazione del sacerdote polacco di sovrapporsi a Gesù non solo formalmente prima della morte, è di un tragismo raramente incontrato nel XX secolo. In più, La ricerca intermittente, il diario di Ionesco pubblicato nel 1988, può essere letto come un duplicato del libretto d’opera dedicato a Massimiliano Kolbe. Nell’ultimo periodo della vita, il pensiero ioneschiano ha provato attraverso la scrittura a imparare a morire, come per rispondere al verso emineschiano «Non credevo d’imparare mai a morire», da Odă (în metru antic). [13] Massimiliano Kolbe è stato colui che gli ha insegnato a morire, così come aveva verosimilmente aiutato Ion Vinea (aveva supposto Ionesco, con un orgoglio convertito in amore) la traduzione di Il re muore. Questa complicità del sottotesto e dell’intertesto con la vita tocca il sublime di una carriera unica nella drammaturgia del XX secolo, poiché Ionesco non è drammaturgo soltanto nelle sue opere, ma anche nei suoi diari, nella sua pubblicistica virulenta, dappertutto.
Il momento italiano di Ionesco, in vista della preparazione della prima dell’opera Massimiliano Kolbe a Rimini, nel 1987, diventa fondamentale per l’ultimo periodo della sua creazione, in quanto il dialogo della seconda parte, tra Massimiliano e Puchovski, ha qualcosa della negoziazione di fondo del Faust scritto in vecchiaia da Johann Wolfgang Goethe, ma anche di quella del Purgatorio, esistente nel dogma cattolico. Lo spirito polemico ioneschiano – quello del volume No (1934) – si compie qui: tardi, attraverso la grazia divina.
Iniziando a Parigi, al Théâtredes Noctambules, l’11 maggio del 1950, e finendo all’Auditorium di Rimini (non in una cattedrale, purtroppo, come sarà poi messo in scena Massimiliano Kolbe ad Arras), il 20 agosto 1988, Ionesco chiude il cerchio riscrivendosi  non solo umoralmente, ma attraverso la consapevolezza che deve imparare a morire anche dal punto di vista dello stile, recuperando anche la tradizione dimenticata o disprezzata drammaticamente (quella cristiana), lasciando la possibilità (almeno morfologica ed etica) della resurrezione. Sia La cantatrice calva che Massimiliano Kolbe (soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra le due opere) si trovano teoreticamente premeditate nell’articolo Sul melodramma [14], pubblicato nel 1931, in Romania. Esse rappresentano la conversione su larga scala della strategia di No, in cui Ionesco studiava il movimento a-morale della critica letteraria anti- o pro-, per osservare rigorosamente il meccanismo della luce in negativo. Il più grande Ionesco bisogna cercarlo nel rapporto tra questi tre testi. La soluzione che egli porta alla drammaturgia del XX secolo (oltre ad alcune irriconciliabili pratiche del teatro) si trova tutta qui.


Darie Ducan
Traduzione a cura di Lucia Ileana Pop
(n. 6, giugno 2021, anno XI)





NOTE

1. Son premier opéra: Dieu à Auschwitz, in La Revue, rivista della S.A.C.D. (Société des Auteurs et Compositeurs Dramatiques), nr. 6, trimestre 2°, 1994, pp.15-18, apud Eugène Ionesco – Dominique Probst, Maximilien Kolbe, Édition critique et commentée par M. Jean-Blain, Paris, Honoré Champion, 2005, p. 25.
2. Colloque de Cerisy, Ionesco: situation et perspectives, Paris, Belefond, 1980, pp. 21-23.
3. «Non mi sono realizzato in letteratura. La vita di un letterato non è una vera vita. Come Sartre e come tanti altri, ho messo insieme parole, ho riempito pagine dopo pagine. La sete e la fame di assoluto non possono essere placate con la letteratura. O, detto ancora meglio, con la letteratura per amore della letteratura. Sopravvivo perché esistono mia moglie, mia figlia e alcuni amici. Però né il mio cuore, né il mio animo appartengono più alla letteratura. […] Ci si dice che dal bunker della fame e della sete, da dove si trovavano Kolbe e gli altri, si sentivanocanti e inni e non grida di disperazione e paura, come si sentivano di solito in tali casi. Massimiliano Kolbe è morto quindi per ultimo. Aiutare gli altri a morire, fargli accettare la morte è senza dubbio più che morire per un altro.»
4. «Noi, gli altri, ci muoviamo nei caffè letterari, ci ostiniamo a combattere per la nostra gloria e la nostra vanità, ci ubriachiamo con parole vuote, con libri senza contenuto, con libri di letteratura. Siamo qui a centinaia per elemosinare dai mortali l’immortalità, un’immortalità effimera, se mi permettete questa espressione. No, non ero fatto per un’altra vita, dal momento che ho scelto la vita che ho vissuto. Spero comunque, non si sa mai, che ciò che ho fatto, ciò che ho scritto, potrà anche, in una pur minima misura, aiutare senza la mia consapevolezza una persona. Si può dire di essere invidioso di Massimiliano Kolbe? Per me, è l’unica vita da desiderare, l’unica vita che vale la pena di essere vissuta, che giustifica allo stesso modo la vita e la morte.»
5. E. Ionesco – D. Probst, Maximilien Kolbe, Édition critique et commentée par M. Jean-Blain, Paris, Honoré Champion, 2005, p. 26.
6. «Una volta finito il mio testo, ho presentato il lavoro all’Opera din Parigi, che ha onorato la sua committenza, però non ha mai messo in scena il nostro progetto a causa del cambiamento degli amministratori. La cosa ha contrariato profondamente Ionesco, che scriveva «un regista d’opera ci affida un contratto. I successori di questo regista non la mettono in scena. Parlare di santi e della Divinità non è stato, come si può vedere, di loro gusto...» O, come passava il tempo, tanto mi sembrava evidente dover completare la nostra opera, svilupparla all’interno, «nel cuore». Alla fine del 1987, l’Italia ci ha teso le braccia tramite Mario Guaraldi, consigliere artistico del «Meeting per l’Amicizia fra i Popoli», proponendoci di realizzare lì l’opera, l’estate seguente.»
7. Beato Massimiliano Maria Kolbe, Roma, Edizioni agiografiche, 1960, 1971.
8. Maximilien Kolbe, prêtre et martyr. Préface de l’édition française par le Père Xavier Tachel, traduit de l’italien de Marie-Dominique Folacci. Révisions et notes par le Père François-Régis Wilhélem, Paris, Médiaspaul, 1987.
9. «All’improvviso, stupito.» Qui, la traduzione citata (Vlad Russo e Vlad Zografi; si veda infra, Bibliografia) è insufficiente, perché omette un possibile rilevante doppio senso della parola pétrifié: da un lato quello classico, di «pietrificato» (stordito), dall’altra parte quello possibile di «rafforzato (per estensione, diventato più forte, incrollabile) nella fede». Tanto più che la menzione precedente «comme»/«come» rafforza l’idea del rudimento teatrale per sovra-esposizione.
10. «Ho ammazzato un Santo e un Martire.»
11. E. Ionesco, Journal en miettes, Paris, Gallimard, collezione «Folio Essais», 1992, pp. 125-127.
12. «Vinea, uno tra i più grandi poeti del suo paese, ha tradotto la mia opera Il re muore. Lo avevo conosciuto tanto tempo fa, così tanto che […] fisicamente, aveva perso le sue forze e, a settant’anni, muore. Sono stato felice di sapere che lui ha tradotto la mia opera, fiero che ha fatto questa scelta; sconcertato sapere nello stesso tempo che era molto malato, che era sul punto di morire, che era morto. […] Vinea è morto subito dopo aver finito la traduzione. Che cosa poteva significare tutto ciò per lui, ha potuto essergli di aiuto? Questo testo ha potuto, forse, aiutare Vinea a morire? A me, questo non è stato di alcun aiuto; mentre lo stavo scrivendo, era come se avessi respinto il testo.»
13. M. Eminescu, Opere. Poezii, București, Editura Fundației Naționale pentru Știință și Artă, 2013, p. 187.
14. In Zodiac, an. I, nr. 6, marzo 1931, pp. 54-55.


Bibliografia

In francese:

1. Eugène Ionesco, Théâtre complet, Édition présentée, établie et annotée par Emmanuel Jacquart, Paris, Gallimard, coll. «Bibliothèque de la Pléiade», 1991
2. Eugène Ionesco, Journal en miettes, Paris, Mercure de France, 1967, Gallimard, coll. «Folio Essais», 1992
3. Eugène Ionesco, La quête intermittente, Paris, Gallimard, 1988
4. Eugène Ionesco – Dominique Probst, Maximilien Kolbe, Édition critique et commentée par Marguerite Jean-Blain, Paris, Honoré Champion, 2005
5. Colloque de Cerisy, Ionesco: situation et perspectives, Paris, Belfond, 1980
6. Colloque de Cerisy, Lire, jouer Ionesco, Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2010
7. Antoine Ricciardi, Maximilien Kolbe, prêtre et martyr. Préface de l’édition française par le Père Xavier Tachel, traduit de l’italien de Marie-Dominique Folacci. Révisions et notes par le Père François-Régis Wilhélem, Paris, Médiaspaul, 1987

In romeno:

a) in riviste:

1. Eugen Ionescu, Despre melodramă, în Zodiac, an. I, nr. 6, martie 1931

b) in volume:
1. Eugène Ionesco, Teatru (Vol. I-V), traducere de Dan C. Mihăilescu,București, Univers, 1994-1998
2. Eugène Ionesco, Teatru XI, traducere și note de Vlad Russo și Vlad Zografi, București, Humanitas, 2010
3. Eugène Ionesco, Căutarea intermitentă, traducere de Barbu Cioculescu, București, Humanitas, 2004
4. Mihai Eminescu, Opere. Poezii, București, Editura Fundației Naționale pentru Știință și Artă, 2013

In italiano:
1. Antonio Ricciardi, Beato Massimiliano Maria Kolbe, Roma, Edizioni agiografiche, 1960, 1971.