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 |  | Dino Campana: Il segreto delle stelle
 
  Scrisse Dino Campana: «La mia vita era tutta un'ansia del segreto delle  stelle, tutta un chinarsi sull’abisso» [1]. Il segreto delle stelle è quello spazio in cui opera la poesia. Lo ha  descritto bene Mallarmé, quando parla del «riflesso stellare e incomprensibile  dell’Orsa Maggiore, che collega al solo cielo questo alloggio abbandonato del  mondo» [2].  Così potremmo descrivere  Dino Campana: chinato sull'abisso del mondo, sull'alloggio abbandonato, e  contemporaneamente con lo sguardo alto, a osservare il cielo e le sue stelle,  quelle vaghe stelle dell'Orsa che osservava anche Leopardi, e che invocava  Ingeborg Bachmann [3].
 Come le stelle, Dino Campana è multiforme e imprendibile, ogni  definizione gli sta stretta. È stato definito poeta allo stato puro: ma che  cosa significa? Che cosa è la purezza in un poeta? Un altro sublime poeta, il  tedesco Hölderlin, l'ha cercata tutta la vita; nella sua giovinezza era certo  che esistesse, che fosse un dono degli dèi, salvo poi sprofondare nella  disillusione e scegliere di ritirarsi in solitudine a Tubinga, in una torre sul  fiume Neckar; e Dino Campana scriveva nelle sue lettere di essere certo che i  suoi versi avessero una «purità di accento» non comune, deluso anche lui per la  scarsa considerazione che avevano. Ma questa purezza, questa purità, altro non  è che la vocazione fortissima, tanto che si può affermare che per Dino Campana,  come per Hölderlin o Mallarmé, la poesia era sola e al di sopra di tutto.
 Il primo tradimento di Dino Campana è quello di averne fatto quasi una  leggenda, quella del poeta puro perché pazzo e disperato, folle dell'amore  travagliato per Sibilla Aleramo, che, come tutti gli amori travagliati, assurge  ad amore leggendario, e passa così in secondo piano l'amore universale, quello  per la vita, che anche Campana, come Leopardi, sentiva e celebrava con la sua  arte poetica, consapevole che gioia e dolore, purezza e peccato, sono due facce  della stessa medaglia.
 Il critico letterario Gianni Turchetta intitola un suo libro Vita  oscura e luminosa di Dino Campana, Poeta, un titolo che ribadisce ancora  una volta come nella poesia luce e oscurità vadano insieme. Turchetta quasi si  lancia in un'invettiva contro lo stereotipo consolante del poeta infelice e  sofferente, triste e lamentoso, e incita a smettere con la leggenda romantica e  stereotipata del poeta folle e infelice, questo pietismo che confonde la poesia  con la biografia, e che può essere consolante, ma assai lontano dalla verità  [4].  Non si mette mai abbastanza in  evidenza che ci vuole un enorme coraggio a chinarsi sull'abisso guardando al  segreto delle stelle, osservare cioè l'alto e il basso contemporaneamente,  sapendo che la differenza è soltanto illusoria, ed è proprio questo che fa la  letteratura: rompe gli stereotipi perché è insofferente di ogni servitù, ed è  portatrice di un sapere irriducibile a ogni altro sapere.
 Anche Dino Campana fu irriducibile, unico: non lascia eredi e non  appartiene a nessuna corrente. Piuttosto, naviga quella incessante della  letteratura assoluta. Quella che accoglie e vede il sacro, il divino, le  potenze invisibili.
 Poeta notturno: così si definisce Dino Campana nei versi di una delle  sue poesie più celebri, La Chimera.
 «Ma per il tuo vergine caporeclino, io poeta notturno
 vegliai le stelle vivide nei pelaghi del  cielo» [5].
 Ed è dunque la Notte l’elemento in cui si muove, la divinità che più lo  accompagna: Campana la invoca spesso nei suoi versi, la chiama «notte chiomata  di muti canti».Esiodo racconta che Nyx, la dea della notte del mito greco, è una delle  divinità più antiche, ed era figlia del Caos, ma era anche figlia di Phanes,  divinità primigenia che sta all'origine della vita, secondo la cosmologia  orfica. Come orfici sono i canti di Dino Campana. Fin da subito, per chi  sa leggere Dino Campana, si fanno evidenti le infinite corrispondenze che la  sua opera richiama, come voci che arrivano da ogni parte dello spaziotempo: per  affinità o per contrapposizione arrivano dall'antichità di ieri, dall'oggi a  lui contemporaneo, e dal domani che lo scoprì, e che non poté più fare a meno  di lui, delle sue influenze sotterranee e infere che contagiano chiunque si  metta a sfogliare le sue pagine infuocate. E quel domani è il nostro oggi, ma è  anche il nostro domani, proprio perché il tempo e lo spazio, per la letteratura  assoluta, non sono ostacoli ma opportunità.
 «Sotto le stelle impassibili, sulla terra  infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le  braccia al cielo infinito non deturpato dall'ombra di nessun Dio» [6]. Questo scrive e questo voleva essere Dino Campana, libero mentre tende  le braccia a un cielo senza dogmi, libero sotto le stelle sia nei suoi viaggi  finiti, da Firenze a Buenos Aires, da Genova a Ginevra, che nei viaggi infiniti  della sua immaginazione. E invece finì prigioniero per quasi tutta la sua vita.  Non solo del manicomio, ma anche di quella prigione di cui parla Kafka: «Egli  si sente prigioniero sulla terra, lo spazio è stretto, debolezza malattia e  follia lo minano, niente lo può consolare perché la consolazione spacca il  cranio al prigioniero» [7]. E dunque, la letteratura e la poesia, che non  consolano, che non spaccano il cranio al prigioniero, diventano necessità e  verità, diventano tempo e spazio infinito in cui aprire un passaggio tra quelle  sbarre che imprigionano, quel passaggio stretto da cui può passare Dio, come  scriveva Simone Weil.Campana, come tutti i poeti sublimi, accolse il sacro, accolse il dio,  e fu due in uno: Apollo, il dio che colpisce da lontano, e Dioniso, il dio  liberatore. Apollo, dio della profezia e della poesia, che guida le Muse portatrici  delle arti, e Dioniso, dio del vino e della follia, che guida il corteo delle  Baccanti ebbre e sbranatrici. In questa complicità divina tra opposti che si  uniscono – la luminosità di Apollo e l'oscurità di Dioniso – sta tutta la vita  di Campana, che fu poeta guidato dalle Muse e sbranato dalle Baccanti. Ma come  diceva Platone, nel Fedro, «la follia è superiore alla temperanza,  perché questa ha un'origine solamente umana, quella invece divina». E Cristina  Campo, di cui Ceronetti celebrò quella preclarità che lei molto mutuò da Simone  Weil, riprende quel filo greco così resistente, e scrive: «Il dio toglie il  senno a chi vuol perdere, dicono. Ma con quale accortezza lo toglie a chi vuol  salvare» [8].
 La vita di Campana, scagliata dal dio attraverso la notte oscura e  tutta presa dal segreto delle stelle, fu segnata sulla Terra da quella  «interminabile processione di orrori necessaria all'incontro» [9] di cui parla  la Campo, e furono catene forgiate da continui tradimenti.
 Un mistero mai svelato, un intero manoscritto che finì smarrito, un  amore travolgente per una donna che si volle chiamare come una profetessa, e un  tradimento tale da chiuderlo in due manicomi. Questi sono i fatti della vita di  Dino Campana, poeta tra i più traditi e umiliati in vita, quanto tra i più  celebrati dopo la sua morte.
 Un giorno di piena estate, il 20 agosto del 1885, viene alla luce Dino  Campana, già segnato dal confondersi intrecciato dei confini: nasce a Marradi,  sull'appennino toscano che però scivola verso la Romagna, due giorni prima che  il segno del Leone dominato dal fuoco scivoli nella terrestre e fredda Vergine,  e poco prima che l'Ottocento della rivoluzione industriale, con la sua fiducia  illimitata e romantica nel progresso, lasci il posto al Novecento delle due guerre  mondiali.
 Comincia presto la sua vita da ribelle a ogni confine: a diciannove  anni si iscrive alla facoltà di Chimica, prima a Bologna poi a Firenze. E  subito fugge: a Milano, poi in Svizzera e in Francia. Fino a quando il primo  grande traditore, suo padre, lo riacciuffa e lo rinchiude nel manicomio di  Imola, nel 1905, a soli vent'anni. Da quel manicomio tenta di scappare un anno  dopo ma viene riacciuffato dalla polizia a Bardonecchia. Rinchiuso a Imola ci  rimane fino al 1907, e una volta liberato, ricomincia a fuggire: si imbarca per  l'Argentina, dove fa ogni genere di lavoro: il bracciante, il musicista, il  pompiere. Ma torna da vagabondo, e gira per il Belgio e la Francia. Allora il  padre lo ghermisce di nuovo, e un giorno di pieno inverno, il 12 gennaio 1918,  quando il severo Capricorno è dominato dal più crudele dei padri, Saturno, lo  rinchiude prima nel manicomio di San Salvi, a Firenze, e poi in quello di  Castelpulci, vicino a Scandicci. Dino aveva gli stessi anni di Cristo sulla  croce, trentatré. E l'Italia pullulava di manicomi. Rimase rinchiuso per  quattordici anni, e proprio quando stava per essere dimesso, la morte se lo  prese a quarantasette anni, il primo giorno di marzo del 1932.  Non è più inverno e non è ancora primavera,  il primo di marzo: la morte di Campana congela i confini. Si chiude così il  cerchio di fuoco che incendiò tutta la vita del poeta di Marradi. Dissero i  medici: setticemia acutissima.
 Dino Campana è il poeta di un solo libro che nessuno voleva pubblicare.  Lo aveva già finito nel 1913, a ventotto anni. E ci provava, a pubblicarlo, a  sottoporlo all'attenzione di quei letterati fiorentini che lo ignoreranno,  quasi tutti. Il 6 gennaio 1914 Campana scrive a Giuseppe Prezzolini una  lettera, che verrà pubblicata da Prezzolini stesso nella rivista «Il Caffè»  solo nel 1955:«scrivo novelle poetiche e poesie: nessuno mi vuole  stampare e io ho bisogno di essere stampato, per provarmi che esisto. Aggiungo  che merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che so  fare ha una purità di accento che oggi è poco comune da noi. Non sono ambizioso  ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto  lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere  ascoltata» [10].
 E aveva ragione. Ma quando consegnò il suo manoscritto a Giovanni  Papini, il poeta fiorentino gran divulgatore del futurismo che da ateo divenne  francescano e si fece chiamare Fra Bonaventura, Papini passò il manoscritto  all'amico pittore e scrittore Ardengo Soffici, con cui si incontrava a Firenze,  al caffè Paszkowski.  Ma Ardengo Soffici  perse il manoscritto di Campana. Fu il secondo grande tradimento, e per Dino  una tragedia forse anche maggiore di quando il padre lo rinchiuse nel manicomio  di Imola. Aveva scritto in una lettera che quel manoscritto, quelle poesie,  erano la giustificazione della sua vita. Allora Dino tornò nella sua casa di  Marradi, e in soffitta si rimise a scriverlo da capo, quel libro: completamente  a memoria. Gli ci vollero due mesi invernali, dicembre e gennaio, dominati da  quel Capricorno tenace e determinato che lo vide pochi anni dopo entrare per  sempre in manicomio. Nacquero per la seconda volta, in quella soffitta di  Marradi, riscritti a memoria, i Canti Orfici.
 Il tipografo di Marradi, Bruno Ravagli, per stampare mille copie di  quei Canti voleva 200 lire. L'amico Luigi Bandini organizzò una raccolta  fondi: chi avesse voluto sottoscriverla doveva versare due lire e cinquanta, e  in cambio avrebbe avuto una copia del libro. Servivano dunque ottanta  finanziatori, se ne trovarono quarantaquattro.
 Campana promise al tipografo che il resto lo avrebbe saldato lui con le  vendite del libro. Nel luglio del 1914 vennero stampati i Canti Orfici:  le copie che man mano il tipografo dava a Campana, lui cercava di venderle per  le strade e nei caffè di Firenze e di Bologna. Ma nel marzo 1915, Campana  scriveva a Emilio Cecchi: «Da quindici anni a questa parte tutti mi hanno  sempre contestato il mio diritto di esistere e se non mi sono tirato un colpo  di rivoltella è stato solo per un colpevole orgoglio» [11].
 Nove anni dopo, quando la tipografia Ravagli chiuse, dal manicomio di  Castelpulci Dino scrisse al fratello Manlio perché recuperasse le copie rimaste  alla tipografia. Erano duecentodieci, e vennero chiuse anche quelle, in un  mezzanino di casa Campana. Secondo il saggista e traduttore Antonio  Castronuovo, furono bruciate dalle truppe anglo-indiane al passaggio del  fronte, per scaldarsi.
 Invece i Canti Orfici sopravvissero. Anzi, resuscitarono.
 Dopo il fiasco delle copie distribuite per strada,riemersero  dal limbo in cui erano stati abbandonati, nel primo dopoguerra, quando nel 1928  l'editore Vallecchi, a cui Campana aveva scritto invano oltre dieci anni prima,  pubblicò una nuova edizione, senza neanche chiedere permesso a Campana che era  chiuso in un manicomio fiorentino.
 Un'edizione migliore e più curata uscì di nuovo dopo la morte di Campana,  nel 1941, ma bisognerà aspettare che Mario Luzi annunci trent'anni dopo sul «Corriere  della Sera» il ritrovamento del famoso manoscritto originale, proprio nella  casa di Soffici, per una completa riabilitazione delle poesie di Dino Campana.  Inoltre, quel manoscritto ritrovato non aveva molte differenze con quello  riscritto a memoria da Campana.
 Dunque, alla fine, quel manoscritto che Soffici aveva perduto è stato  ritrovato, nel 1971, proprio tra le carte della sua casa di Poggio a Caiano.  Campana era morto da quarant'anni, Ardengo Soffici da meno di dieci, ma quel  manoscritto, nascosto ed evidentemente mai cercato, era resuscitato.
 Soffici e Papini avevano rischiato grosso. Dino Campana attese per mesi  una risposta su che fine avesse fatto il suo manoscritto, unica copia esistente  dei suoi Canti Orfici, e scrisse molte lettere a Soffici pregandolo di  restituirgli quel «che mai e poi mai le perdonerò di avermi sequestrato» [12].  Non ricevendo alcuna risposta, avvertì Papini con un'altra lettera, minacciosa:  «Se entro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che  vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò  giustizia ovunque vi troverò» [13].
 Pare si presentasse davvero alle Giubbe Rosse di Firenze armato di un  coltello, minacciando Soffici e tutti quei letterati che definì «sciacalli», e  che di fronte alle sue richieste di restituirgli il manoscritto gli avevano  riservato solo uno sprezzante e forse vigliacco silenzio. Un altro tradimento  lo ebbe quindi da quell'intellighenzia fiorentina che, posato il coltello e  tornato a più miti consigli, descrisse in una lettera infuocata a Papini,  datata maggio 1913: «E se di arte non capite più niente levatevi dal quel covo  di cancheri che è Firenze...Mandate via quella redazione che a me sembrano  tutti cialtroni...». E affondò un coltello fatto di parole: se la vostra  speranza è quella di fondare l'alta cultura italiana, fondatela sul popolo  vero, e non su «una massa di lecchini, finocchi, camerieri, cantastorie,  saltimbanchi, giornalisti e filosofi come siete a Firenze». E continuava: «io  posso dirvi di tutto, del resto vi sarete accorto che ho un'intelligenza  superiore alla media» [14].
 Negli anni Trenta, quando Vallecchi decise di stampare i Canti  Orfici riscritti a memoria da Campana, anche le poesie del Leopardi  tornavano finalmente a diffondersi e a imporsi, dopo le ubriacature  patriottiche del Carducci e dopo che d'Annunzio era stato innalzato a vate,  influenze che all'inizio anche Campana dichiarava proprie, salvo poi scrivere,  in una lettera a Prezzolini, che d’Annunzio dell'Europa moderna non capiva  nulla. E infatti Campana aveva le sue lontane corrispondenze proprio con  Leopardi, con il quale condivide la modernità, e quella letteratura che è  intrisa di sacro.
 La sera di fiera di Dino Campana risuona con La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi. Nella sera di Campana,  «le stelle pallide notturne» che l'amata guarda dietro i cancelli mentre il  poeta la invoca, sono le stelle che appaiono nella dolce e chiara notte senza  vento della sera di Leopardi. L'ultimo verso de La sera del dì di festa di Leopardi dice: «Un canto che s'udia per li sentieri / lontanando morire a  poco a poco / già similmente mi stringeva il core», e Campana chiude La sera  di fiera con questi versi: «Una canzonetta volgaruccia era morta / E mi  aveva lasciato il cuore nel dolore / E me ne andavo errando senza amore /  Lasciando il cuore mio di porta in porta». E così, il cuore che si stringe a  Leopardi nel suo ultimo verso, è il cuore lasciato senza amore che chiude la  poesia di Campana, al suono di un altro canto che muore.
 Come Leopardi, Campana celebrava la notte, la sera, la luna, il  viaggio, i ricordi, e soprattutto quel guardare dritto in faccia l'apparir  del vero che non consente nascondigli e che rivela senza consolazione quale  sia la condizione umana. Leopardi e Campana sono legati dal coraggio di sentire  la vita com'è, e di riconoscere le potenze eterne, unico modo per poesia e  letteratura di esprimersi nell'immortalità, e raggiungerla, anche quando si  tratta di una sola opera: i Canti Orfici per Dino Campana come Cime  tempestose per Emily Brontë, che dal  secolo precedente corrisponde a Campana nella furia elementale che li lega.
 Se sia quelli di Leopardi sia quelli di Campana sono Canti, il  poeta di Marradi ci aggiunge: orfici. E Orfeo è il poeta notturno che,  figlio una Musa, sa che l'universo è costituito nella sua essenza di musica e  poesia, è colui che Pindaro chiama «il molto lodato signore dei canti», capace  di incantare le creature mortali e perfino gli dèi.
 Attraverso la sua melodia, Orfeo riusciva ad arrestare il corso dei  fiumi, a smuovere le montagne, e a trasportare l'anima lungo i sentieri oscuri  della morte, placando i lamenti dei defunti. Il suo amore per Euridice, che  muore morsa da un serpente, e la sua discesa agli Inferi per riportarla sulla  Terra hanno ispirato poeti, pittori, scultori, musicisti, artisti di ogni  genere. Ma tutti sappiamo che Orfeo non riuscì a far riemergere Euridice dal  regno dei morti: nonostante suonando la lira avesse commosso gli dèi inferi,  Hades e Persefone, fino a convincerli a restituirgli  l'amata, non rispettò la promessa fatta, quella di non girarsi indietro a  guardare Euridice fin quando non fosse riemersa dall'Ade. E invece, mentre Hermes  la scortava, Orfeo non resistette e si voltò per vederla, e così la perse per  sempre. Sergio Solmi paragona Euridice che scompare all'incanto dell'arte che  si rompe, quando l'artista si divide dal proprio lavoro, quando si distrae  ascoltando il suono della propria voce invece di concentrarsi su quel «lavoro  attento e sacrificato» che è l'arte, e scrive: «Orfeo distratto si volge sul  cammino dell'Inferno, Euridice scompare» [15].
 E Rainer Maria Rilke, raffigurando una Euridice stretta al braccio di  Hermes, scrive: «E quando a un tratto il dio / la trattenne e con voce di  dolore / pronunciò le parole: si è voltato / lei non comprese e disse piano:  Chi?» [16].  Nel momento in cui Orfeo  vuol riportarla in vita, Euridice è già perduta, fa già parte di un altro  mondo, e dunque cosa resta? Resta il canto immortale della poesia, il canto che  si fa lontano, e lascia il cuore nel dolore, a vagare di porta in porta. Dopo  che Orfeo, che vagava disperato rifiutando ogni altra donna, venne sbranato  dalle Baccanti e la sua testa gettata nel fiume Ebro, come raccontano Virgilio  e Ovidio, su quelle acque la testa mozzata continuò a cantare, prodigiosamente.  Un canto che resiste come la ginestra leopardiana, e sopravvive agli umani,  anche a quelli che credono di poter sconfiggere la morte. Ma soprattutto, quel  canto sopravvive oltre gli umani, perché è divino.  Zeus, commosso da questo prodigio, prese la  lira di Orfeo e la stagliò nel cielo, ed è la costellazione della Lira che  ancora oggi vediamo.
 Come costellazioni, le poesie si stagliano nello spaziotempo e si  richiamano. Campana e Baudelaire, Campana e Hölderlin, e Leopardi, ed Emily  Brontë. Ma Campana viveva nell'epoca del positivismo lombrosiano, e per  Lombroso, che è considerato il padre della Criminologia moderna, l'espressione  artistica poteva già essere un sintomo di devianza. Il padre di Campana era un  maestro elementare positivista, che insegnava ai bambini che l'uomo è come una  macchina, comandata dal sistema nervoso che gli ignoranti chiamano anima, e  dunque non c'è da stupirsi se ai primi litigi con la madre fece ingerire a  Campana delle polveri che davano al manicomio di Imola.
 Invece quella di Campana era casomai una possessione, dionisiaca e  orfica, poetica. E il poeta autentico la segue, la asseconda, come una visione,  come il responso di una sibilla.
 Ma per una Sibilla, ma non era il suo vero nome, Dino Campana si perse  d'amore. La Aleramo fu la sua Euridice, la sua tremenda distrazione. Di questo  amore divorante e infero, rimangono moltissime lettere, scritte nell'arco di  due anni, dal 1916 al 1918. Anno d'inizio e anno di fine di questa relazione  abbagliante e abbagliata.
 Sibilla Aleramo, Campana la conobbe durante la Prima guerra mondiale,  nel 1916, quando non era stato chiamato al fronte per la sua supposta labilità  mentale, certificata dal primo ricovero in manicomio. Sibilla non gli  somigliava per niente: poetessa mondana, frequentatrice dei salotti letterari,  aveva conosciuto a Parigi Gabriele d'Annunzio e Apollinaire, e a Milano si era  avvicinata ai futuristi. La sua bellezza aveva ispirato la figura effigiata  sulla moneta da 20 centesimi del 1908, fu l'amante di molti poeti e artisti  famosi: Giovanni Papini, Clemente Rebora, Umberto Boccioni, Salvatore  Quasimodo. Campana fu solo uno tra loro. Eppure, quella tra Dino e Sibilla è  una delle più celebri storie d'amore del costume letterario italiano. La  Aleramo era più grande di nove anni: aveva già fama di donna bella e fatale e  aveva già pubblicato nel 1906 il suo celebre romanzo Una donna, poi  diventato un'icona del movimento femminista. Tutto iniziò con una lettera, che  lei scrisse a Campana dopo aver letto i Canti Orfici, quelli stampati in  tipografia che lui aveva distribuito nei caffè: «chiudo il tuo libro, sciolgo  le mie trecce» [17], gli diceva nella lettera.
 Un giorno di piena estate, il 3 agosto 1916, Dino la vide scendere  dalla corriera, vestita di bianco e con un grande cappello: era venuta a  Marradi per conoscerlo. Da quel momento, esplose una passione tanto furibonda  quanto irreale, testimoniata soprattutto dalle lettere: la seconda volta che si  incontrarono fu a Marina di Pisa, Dino chiede a Sibilla dei suoi amanti, lei  ammette, lui è divorato dalla gelosia, dalle sue ossessioni, forse ammalato di  sifilide, lei vuole prendere a morsi la vita, viverla fino in fondo, a costo di  sembrare, o magari essere, autodistruttiva. I litigi si fanno talmente forti da  spaventare chi li ascolta. E nel novembre 1917, in una lettera alla moglie di  Papini, Campana scrive che sui ventini di nichel c'è il ritratto di una certa  signora più gelida del metallo stesso, e continua con ferocia: «Questa carogna  è piombata su di me come la collera di Dio e mi ha lasciato distrutto  dall'orrore per più di un anno» [18]. E dopo nuovi furiosi litigi, botte, e  rinnovate seduzioni, Sibilla, contro la volontà di Campana, si rivolge a uno  psichiatra. Lui le scrive: «Mi lasci qua nelle mani dei cani senza una parola.  Non ho più lagrime, perché togliermi l'illusione che una volta tu mi abbia  amato è l'ultimo male che mi puoi fare» [19]. Altre parole, aggiunge Campana,  non ne ho. Ma quelle bastarono a chiudere quella passione nello stesso cassetto  di quelle illusioni, di quel «perì l'inganno estremo» che Leopardi incastonò  per sempre tra i versi di A se stesso. Ora toccava a Dino uscire  dall'antro della Sibilla, per entrare però, anche a causa di quel tradimento,  in un altro ospedale psichiatrico. Eppure, Sibilla continuò a scrivergli, a  cercarlo, e poi a rifuggirlo di nuovo, fino a quando fatalmente smise, ma a  quel punto Campana non era più neanche in grado di risponderle.
 Probabilmente Campana non avrebbe mai immaginato che quella passione  talmente squilibrata e sghemba da ogni lato, tanto da non doverla augurare a  nessuno, sarebbe poi diventata un storia da rotocalco, intrisa di quel falso  romanticismo che tende a considerare la passione come amore, confondendo le  maledizioni possessive di Eros con i doni d'amore di Afrodite, o ignorando che  la stessa Afrodite può essere, come dice Lucrezio, «hominum divumque  voluptas», godimento e gioia per uomini e dèi, ma anche, come dice Euripide  nell'Ippolito, una tremenda potenza ingestibile «quando aggredisce con  tutta la sua veemenza». Perciò la donna di Campana è lussuria e grazia, è  strega come Circe e incantevole come Afrodite, vergine come Artemide ma anche  puttana come Babilonia, è sorella della Gioconda e Regina della melodia, e nei  suoi Notturni la chiama Chimera, che oltre a essere un sogno, un'utopia,  nel mito greco era anche un mostro col muso di leone e la coda di drago.
 Come una tenebra chiara, l'universo poetico di Dino Campana unisce quel  che apparentemente è opposto, quello che noi siamo abituati a pensare come  inconciliabile: è l'unione di misticismo e sensualità, il dolore più acre che  si scioglie in tenerezza.
 Campana apre i suoi Canti Orfici con La Notte, partendo  dall'immagine della Sera che la precede: «Sopra il silenzio fatto intenso essa  riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per  sensazioni oscure e violente, un altro mito anch'esso mistico e selvaggio mi  ricorreva a tratti nella mente». E viene la notte, lui la chiama matrona  suadente, «regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano», richiamando  la scultura non finita di Michelangelo [20]. Tutte le corrispondenze danzano  nei Canti Orfici, fin dall'inizio. E fin dall'inizio della letteratura,  quando la letteratura si faceva ancora mito: «l'antica amica, l'eterna Chimera  teneva fra le mani rosse il mio antico cuore» [21].
 Campana, come Leopardi, ha un cuore antico, che gli consente di unire  le tradizioni: non solo quelle che lo precedono, ma anche quelle che seguono,  perché come tutti i poeti autentici è un profeta, è un ponte gettato  sull'infinito e verso l'eternità, come lui stesso scrive: «Qual ponte, muti  chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull'infinito, che tutto ci appare  come ombra di eternità?». Ed è una domanda che non necessita risposta. Infatti,  non poteva essere che la silenziosa Luna a chiudere La Notte, sorgendo  «nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina» [22].
 Così, con la notte, iniziano i Canti Orfici, e c'è già tutto.  Tanto che possiamo andare diretti alla fine, quando Campana chiude i suoi Canti  con un verso in inglese che è una citazione appena modificata di Walt Whitman:  «They were all torn / and cover'd with / the boy's blood» (erano tutti stracciati  e coperti con il sangue del ragazzo): Whitman, nel suo poema Song of myself,  racconta di un ragazzo massacrato a tradimento da tre uomini. La corrispondenza  qui è perfetta ed estrema: quel ragazzo è Dino Campana, e gli squartatori sono  i suoi traditori, tutti: madre, padre, compaesani, psichiatri, e anche gli  scrittori fiorentini del tempo. Aveva scritto, nella prima lettera a Sibilla  Aleramo spedita dal Mugello: «Conoscete Walt Whitman? Non capisco come facciate  a vivere a Firenze e a conoscere certa gente» [23]. Erano i colpevoli che  avevano fatto a pezzi il matto, che, come quello dei Tarocchi, la carta numero  zero, è il dionisiaco portatore di libertà, l'eterno viaggiatore che cammina  per il mondo senza legami e senza nazionalità, guidato dal principio creatore,  un essere che cammina verso una terra santa o verso la distruzione.
 E Campana è stato distrutto, frainteso, ignorato, vessato,  imprigionato, e anche temuto come un appestato.
 I primi traditori Dino Campana se li è trovati in casa: la madre Fanny,  grande sgranatrice di rosari, il padre Giovanni, e gli zii, che erano maestri e  magistrati. Fanny era una madre severa, quanto la Adelaide del Leopardi, e come  lei devota e credente al limite del bigottismo, ma soprattutto morbosamente  attaccata solo al fratello minore di Dino, Manlio.  Un ragazzo mansueto in confronto a Dino, che  era invece un ribelle, voleva viaggiare, seguire il richiamo in lui ineludibile  della letteratura. Come Leopardi, sentiva impellente il bisogno di fuggire, ma  al padre e alla madre la sua vita errabonda e in fuga sembrò degna soltanto del  manicomio, tanto che fu la madre a spargere per prima la voce che fosse pazzo.  Da piccolo, Dino non mostra alcun segno di pazzia, anzi è intelligente,  diligente e ha buoni rapporti in famiglia, almeno fino alla nascita del  fratello Manlio, che gli sarà indubitabilmente preferito dalla madre. In un  ricordo di Campana scritto nel 1965 da una sua zia ormai novantenne, si legge  che quando uscivano tutti e tre per il passeggio, la mamma gli diceva: «Dino,  vai sulla strada di Palazzuolo, noi si va per altra via», e lo lasciava solo  allontanandosi con il fratello.
 Arrivato al liceo, l'intelligenza di Dino diventa ribelle, non si piega  all'autorità: le liti con la madre si fanno terribili e il padre la difende.  Come accadde anche a Leopardi, Dino viene preso in giro dai compagni, per la  sua passione per la lettura, perché scrive poesie, e perché si chiude spesso in  biblioteca invece di seguire le lezioni scolastiche. Perciò viene bocciato, e  anche se riesce ugualmente a prendere il diploma, crescono i dissapori in  famiglia, e i litigi con la madre, che lo chiama vagabondo, fannullone, pazzo e  fallito. Lo vogliono mandare all'accademia Militare di Modena. Dino sembra  piegare la testa, e passa il concorso per l'Accademia, ma poi si iscrive  all'università di Bologna, per trasferirsi in seguito a Firenze, Chimica  farmaceutica, mandato dalla madre ospite dallo zio Francesco. Firenze lo  attrae, per la sua storia, ma presto si ritrova da solo su per le colline, a  Fiesole, a Settignano, o a scrutare le vetrine delle librerie. Di esami  all'Università non c'è traccia, e il padre alla fine lo scopre. Dino abbandona  Firenze, torna a Marradi, dove già lo chiamano il matto del villaggio. Lui  fugge da quelle persecuzioni, fugge con i suoi libri in montagna,  sull'Appennino toscano con i suoi quaderni, e spesso resta ospite dei  contadini, che gli danno da bere il dono di Dioniso, il vino che lo ubriaca.  Quando gli si aprirono davanti le porte del manicomio, Campana subì  l'elettrochoc, e irriverente anche verso la sua sofferenza, scrisse: «mi chiamo  Dino Edison, sono elettrico» [24].
 Il matto: così il mondo non vede l'ora di etichettare il poeta ribelle  e insofferente, quello che non può, come Emily Dickinson, rinchiudersi nella  sua stanza, quello a cui non è concesso vagare tra le brughiere come Emily  Brontë, perché è un maschio, da cui ci si aspetta lavoro matrimonio figli e  vita cosiddetta normale.
 Ma al di là della sua vita errabonda e delle sue malattie – sifilide o nefrite  che fosse – Dino è matto perché è iroso, iracondo, ribelle alle convenzioni,  perché sta sempre a leggere, perché gli piace vagare senza meta, perché va a  donne invece di trovarsene una, perché non ha e non vuole un lavoro fisso: il  suo lavoro è la poesia. E nei suoi Canti il lavoro c'è, eccome: la  ricchezza di riferimenti culturali e artistici, lo studio della tradizione  poetica sia italiana che francese, le parole che si accostano risuonando, il  lavoro di cesello, e il senso del sacro che tutto domina con la sua fiamma  inestinguibile, dove mistico e blasfemo si incontrano, avvolgendoci in visioni  dolci e furiose, quasi le parole fossero dipinte. Perdersi nella notte leggendo  i Canti Orfici significa certo scendere nell'Ade come Orfeo, ma anche  ascoltare il suono ammaliante della sua lira. Come Orfeo, anche Dino muore di  poesia: ma attraverso i suoi versi trae amore dalla sofferenza e dai  tradimenti, dall'incomprensione e dai rifiuti, innalzandosi oltre ogni spanna  rispetto ai suoi contemporanei che lo hanno tradito, in quella Firenze crocevia  provvisorio di ogni potere editoriale.
 Tuttavia, c'è voluto un altro poeta fiorentino, molto più tardi, per  capire Dino Campana: Mario Luzi ha definito i Canti Orfici un libro che  «ci accosta al segreto dell'uomo fino a farcene sentire il fuoco». Il segreto è  quello della poesia originaria a cui guardano i suoi Canti, la poesia che ha  radici antiche e misteriose, e soprattutto vastissime, cosmiche. Orfeo, come il  ragazzo di Whitman e come Dino Campana, finisce sbranato, e dalla sua testa  mozzata continua il suo canto. E Dioniso, il dio fatale che possiede Dino  Campana è proprio quello celebrato nell'Orfismo: è il dio, figlio di Zeus e di  Persefone, che dopo essere stato sbranato dai Titani, tornò a nuova vita perché  Atena aveva salvato il suo cuore, e lo aveva riportato a Zeus. Una testa e un  cuore sopravvivono, anche dopo l'assassinio feroce. Dino Campana chiude i suoi Canti  Orfici con uno sbranamento e a Emilio Cecchi scrive che la citazione  rivista di Walt Whitman sul ragazzo fatto a pezzi contiene le parole più  importanti del suo poema. Del resto, quella è la sua storia: la storia di un  poeta ribelle fatto a pezzi dai suoi traditori. Ma c'è una testa che continua a  cantare, e c'è un cuore che continua a battere, salvato da una dea.
 L'ultimo verso dei Canti Orfici recita: «Infinitamente occhiuta  devastazione era la notte tirrena» [25] ed è come l'apparizione di una presenza  mitica agli occhi di un antico greco. Nel mezzo, tra la prima e l'ultima notte,  c'è La Chimera, «sorriso di un volto notturno»; c'è La Speranza, «principessa  dei giorni segreti»; ci sono le vele le vele le vele delle Barche amorrate, con  il loro schianto crudele; ci sono gli «inquieti spiriti» de Il canto della  tenebra. E ci sono i luoghi del suo vagabondare, dei suoi viaggi fatti solo  per andare, e ognuno ha il suo canto, il suo soffio, il suo odore: come i sacri  canti della Verna, come Montevideo «nel soffio torbido dell'equatore», come  Firenze che porta «odore di corolle smorte», e «Genova con la sua sera  ambigua», e Faenza «città senza filosofia», e naturalmente Marradi, dove  «Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale». E poi  Bologna, sotto i cui portici Campana sbotta in una preghiera blasfema e oscura,  degna di Baudelaire: «O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivi,  o tu che dall'ombra mostri l'infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà  della mia lunga miseria» [26].
 C'è aria di bordello in questa invocazione, che in una prima stesura  pare fosse un episodio di violenza su una prostituta, come riporta Sebastiano  Vassalli. Del resto, Campana le chiama con ben altri accenti altrove, le prostitute:  le chiama «le passeggiatrici, le antiche», e in una poesia:
 «Prostituta...Chi ti richiamò alla vita? D'onde vieni?
 Dagli acri porti tirreni
 Dalle fiere cantanti di Toscana
 O nelle sabbie ardenti voltolata
 Fu tua madre sotto gli scirocchi?» [27].
 Gli episodi nella vita di Dino Campana si vestono spesso di un velo  onirico, mitico: tanto che certe testimonianze sui suoi viaggi si  contraddicono, e se Ungaretti sosteneva che in realtà Campana non fosse mai  stato in Argentina, c'è invece chi afferma che migrò perfino in Russia, e che  Campana sia stato l'inventore di quel viaggiare come puro andare che dagli anni  Sessanta in poi sarebbe diventato tanto di moda con Chatwin, Sepulveda, Rumiz.Ma la realtà di Campana sono le sue poesie, i suoi canti, dove  l'immaginazione è più reale della realtà.
 Il poeta che Ardengo Soffici descrisse come tarchiato, con capelli e  barba di un biondo acceso, la faccia piena e di color roseo, e due occhi  celesti a illuminarla, è stato definito l'ultimo poeta, l'ultimo erede degli  antichi aedi, che nell'antica Grecia erano figure sacre, profeti che entravano  in contatto con la divinità. E infatti il suo linguaggio suona e risuona  proprio come un canto, naturale e primordiale. Campana non era il genio isolato  che è stato dipinto, perché ci ha provato, a far capire la sua poesia,  esponendo i suoi progetti a giornali, a riviste letterarie, a quegli  intellettuali a lui contemporanei che però lo ignorarono e lo tradirono, e già  nel 1915 Campana scrisse a Prezzolini: «per vizio d'orgoglio voglio andare al  diavolo con le mie gambe» [28]. E così fece, nonostante quegli intellettuali  snob che mai ne capirono la grandezza, tanto che Giovanni Papini diversi anni  dopo la morte di Campana lo definì un poeta infelice, ma non per questo grande.  E invece Campana stesso chiarì cosa sia un grande poeta, e scrisse che essere  un grande artista non significa nulla, ciò che importa è essere un puro  artista, perchè il grande artista vive e termina nel suo tempo, mentre un  artista puro è «un'ombra di eternità», come sapeva anche Emily Dickinson. Ma se  la Dickinson nell'Ottocento americano decise volontariamente di chiudersi nella  sua stanza, a Dino Campana fu imposta la clausura del manicomio, e da quel  cronicario di Castelpulci dove era rinchiuso, il «mat Campéna», come lo avevano  ribattezzato i suoi concittadini, scrisse uno dei suoi ultimi messaggi,  indirizzato all'amico Bino Binazzi: «Tutto va per il meglio nel peggiore dei  mondi possibili» [29].
 Era l'aprile del 1930. Due anni dopo in quel manicomio ci morì  abbandonato.
 Oggi, in un mondo talmente appiattito che non vede stelle né altezze di  poeti e scrittori, possa risuonare alta, antica e modernissima, la poesia di  Campana:
 «Guardo le bianche rocce le mute fonti dei  ventie  l'immobilità dei firmamenti
 e i gonfi rivi che vanno piangenti
 e le ombre del lavoro umano curve là sui poggi  algenti
 e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre  correnti
 e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera» [30].
 
 David Fiesoli
 (n. 6,   giugno 2023,  anno XIII)
 
 
 
 NOTE
 
 [1] Dino Campana, Opere e contributi, a  cura di E.Falqui, Milano, Bompiani, 1973, p. 19.
 [2] Stéphane Mallarmé, lettera a Henri Cazalis  del 18 luglio 1868, in Roberto Calasso, La letteratura e gli dèi,  Milano, Adelphi, 2001, p. 102.
 [3] Ingeborg Bachmann, Invocazione all'Orsa  Maggiore, a cura di L.Reitani, Milano, SE, 2018. Nella prefazione di  Reitani si legge: «Se Dio non abita nel mondo e se la storia è visitata dal  male, se l'uomo è estraniato da sé stesso, spetta al canto poetico testimoniare  messianicamente la verità».
 [4] Gianni Turchetta, Vita oscura e luminosa  di Dino Campana, poeta, Milano, Bompiani, 2020, pp. 9 e sgg.
 [5] Dino Campana, Opere e contributi, a  cura di E.Falqui, Milano, Bompiani, 1973, p. 21.
 [6] Ivi, p. 71.
 [7] Davide Brullo, L'innocenza  dell'immolazione. Kafka: rischio totale!, in «Pangea» del 25 maggio 2022.
 [8] Cristina Campo, Gli imperdonabili,  Milano, Adelphi, 1999, p. 156.
 [9] Ibid.
 [10] Dino Campana, Io poeta notturno.  Lettere, a cura di P.di Palmo, Pistoia, Via del Vento edizioni, 2007, p. 3.
 [11] Ivi, p. 6.
 [12] Ivi, p. 19.
 [13] Ibid.
 [14] Gianni Turchetta, Dino Campana:  biografia di un poeta, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 135.
 [15] Sergio Solmi, Meditazioni sullo  Scorpione, Milano, Adelphi, 2016, p. 22.
 [16] Rainer Maria Rilke, Orfeo Euridice  Hermes, in Poesie, a cura di G.Pintor, Torino, Einaudi, 1983.
 [17] Dino Campana, Opere e contributi,  cit., p. 528.
 [18] Dino Campana, Io poeta notturno,  cit., p. 23.
 [19] Dino Campana, Opere e contributi,  cit., p. 628.
 [20] Ivi, pp. 5 e sgg.
 [21] Ivi, p. 15.
 [22] Ivi, p. 17.
 [23] Ivi, p. 525.
 [24] Cfr. Sebastiano Vassalli, La notte  della cometa, Milano, Rizzoli, 2019.
 [25] Dino Campana, Opere e contributi,  cit., p. 90.
 [26] Ivi., p. 63.
 [27] Ivi, p. 313.
 [28] Dino Campana, Io poeta notturno, cit.,  p. 15
 [29] Ivi, p.  25.
 [30] Dino  Campana, La chimera, in Opere e contributi, cit., p. 21.
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