La mobile lucidità di Giuseppe Pontiggia

Per celebrarlo, nel ventennale della morte, dobbiamo ricorrere ai poeti, poiché Pontiggia ne coltivava la dote principale e necessaria: il distacco. Così, nel viaggio attraverso l’opera dello scrittore, ci faremo guidare anche dai versi dei poeti «più sublimi», nel senso che a questa parola ha dato Marina Cvetaeva. E che si attaglia perfettamente anche a lui.

Giuseppe Pontiggia ha scritto poche poesie, pur essendo poeta. E per i poeti è stato grande fonte di ispirazione e insegnamento: sia per il fratello Giampietro (alias Giampiero Neri), la cui opera poetica migliore coincide proprio con il periodo di maggior vicinanza fraterna, sia per l’amica Daniela Marcheschi, per la cui poesia Pontiggia è stato indubbio maestro, in una corrispondenza di letterari sensi che Marcheschi ha poi restituito, da lucido critico letterario qual è, nella curatela dell'intera opera di Pontiggia [1].
Dei veri poeti, Pontiggia coltivava la dote principale: la sublime necessità del distacco. Una distanza artemidiana, che si misura sull’arco della letteratura, da cui scoccano parole come frecce: non una di più, non una di meno. L'arma dei poeti/scrittori immortali.
Scrisse Marina Cvetaeva: «Non c’è poeta più grande di Goethe, ma ci sono poeti più sublimi, come il suo più giovane contemporaneo Hölderlin, poeta incomparabilmente più povero, ma frequentatore di altezze montane delle quali Goethe era soltanto ospite» [2]. I poeti sublimi sono quelli fuggiti dalla devastazione dell'Illuminismo senza cadere nella padella del Romanticismo o nella brace del Neoclassicismo (Emily Brontë, Emily Dickinson, Giacomo Leopardi); quelli fuggiti dal Futurismo, dal Neorealismo o dall'Ermetismo con uguale velocità (Sandro Penna, Umberto Saba, Amelia Rosselli, Vittorio Sereni); quelli, insomma, che nessun  -ismo può mai imbrigliare.
Nel liquido pantano in cui il mondo letterario del nuovo millennio naviga a vista, trovare questa rigorosa libertà artemidiana è forse più difficile: quelle voci restano sempre più nascoste, isolate, lontane da giornali, riflettori, premi, e lettori. Com'è accaduto spesso anche in passato. Tuttavia, oggi c'è una complicazione in più: come scrive proprio Pontiggia, «il processo di globalizzazione tende inevitabilmente ad uno sfocamento delle culture nazionali e dei loro valori letterari, a un'amnesia della tradizione» [3]. E proprio per questo, risuonano ancor più forti le parole della Cvetaeva: «L'unico maestro: il proprio lavoro. L'unico giudice: il futuro» [4].
Pontiggia, nonostante il successo ottenuto dalle sue opere, l'attenzione dei media, e i premi importanti, ha coltivato il distacco, la distanza, il proprio lavoro come unico maestro, e – in ogni sua opera – l’insegnamento dei classici come contemporanei del futuro, poiché la letteratura «recupera il senso delle parole, recupera la potenza del linguaggio, restituisce una vitalità che la parola dei classici aveva e che noi riscopriamo tutte le volte che li leggiamo» [5].
In questo senso, Pontiggia è già un classico, un contemporaneo del futuro.
Il distacco necessario a un poeta/scrittore «sublime» – nel senso inteso dalla Cvetaeva – Pontiggia lo mostra fin dal suo primo romanzo, La morte in banca (Milano, Rusconi e Paolazzi, 1959, poi Milano, Mondadori, 1979, 1991 e Milano, Leonardo, 1994), e massimamente nell'ultimo, Nati due volte (Milano, Mondadori, 2000, Premio Campiello, Premio Società dei Lettori, Pen Club). Due romanzi in cui i tratti autobiografici assurgono – come dev’essere in letteratura – a ritratti universali. Non interessa a nessuno quello che sentiamo o pensiamo se non riusciamo a dargli valenza universale, ovvero a collegarlo al sentire degli altri e del mondo e addirittura del cosmo. E per fare questo bisogna osservare, fuori di noi, e non dentro di noi: porre un'attenzione concentratissima verso il mondo, e lasciarlo entrare nelle sue tante verità, fatte di bene e di male, per poi restituirlo in parole o in versi.
E in ritmo, sempre ricordando che la prosa è poesia senza versificazione.
In La morte in banca, i dieci anni, dai diciassette ai ventisette, in cui Pontiggia ha lavorato al Credito Italiano, non hanno importanza se non come materiale primario con cui edificare il racconto, nei due sensi di costruire solidamente, e di rendere ammirevole: appunto, edificante. Ovvero, etico. Questa «edificante solidità» la si ottiene solo attraverso il necessario distacco.
«Pontiggia non è mai stato uno scrittore autobiografico – scrive Mario Barenghi nell'introduzione all'edizione del 1991 – neanche quando, giovanissimo, esordisce con un racconto ispirato a una condizione umana e lavorativa di cui aveva quotidiana esperienza» [6]. E questo perché – come Kafka – ritrae il mondo senza lasciarsi imbrigliare da nulla, né dalla speranza di cambiarlo né dalla disperazione perché non può cambiarlo. Grazia Livi, nel suo libro dal titolo Narrare è un destino, parla di segnali di verità, come «un lampo che getti una luce sul tutto», e scrive: «Sono persuasa che non c'è alcun punto, nella realtà, a cui mirare come a una conquista. Mi aspetto gioia e sorpresa solo da quei lampi: per loro guardo attentamente oltre i disordini e i mutamenti» [7].
Così si raggiungono le altezze montane: con la capacità andare oltre i disordini e i mutamenti, in una necessaria equidistanza tra speranza e disperazione. Quello che è riuscito, nel Novecento, al sublime Pontiggia, (o a Sandro Penna, Cristina Campo, Fausta Cialente, Clara Sereni), ma non al grande Pasolini, il cui destino fu di bruciare nel vuoto del suo tempo, sbranato prima dai cani della speranza, poi da quelli della disperazione.
Il fatto è che – a un certo punto – davanti ai propri difficili destini e a quelli tragici altrui, bisogna pur far proprio quel che in un suo verso dice Wislawa Szymborska: «Preferisco il ridicolo di scrivere poesie / al ridicolo di non scriverne» [8]: e agire di conseguenza. Guardare «il lampo azzurro nell'abito della Moira», osservare il destino con quell'attenzione che è «lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi» [9], e dunque preludio al distacco.
Carabba, il desolante protagonista del romanzo La morte in banca, chiamato sempre e solo per cognome, decide di ignorare il ridicolo grigiore dell'ufficio: adeguandosi alla sua condizione tanto da farne l'unico orizzonte, perde la consapevolezza del suo carico di disillusione malcelata, reagendo soltanto con un fallimentare ritorno all'Università: un copione visto spesso, e assai doloroso. Del resto, Pontiggia non consola: sferza. Con delicatezza, e quindi con più efficacia, come Katherine Mansfield nei suoi racconti. La mira è presa, la freccia scocca, e non manca il bersaglio. Questa crudele precisione degna di Artemide e Apollo, riduce Carabba in una cenere tanto grigia quanto fredda.
Lo scrittore che si ripete come un mantra – anche non sapendolo – il verso della Szymborska, sa che la castità mentale che consente di non cadere nel freddo e nel grigiore passa dalla consapevolezza che «scrivere per qualsiasi cosa che non sia l'opera stessa è condannare l'opera a un giorno e basta (...) Gloria, denaro, trionfo di questa o quell'idea – qualsiasi obiettivo estraneo all'opera è la sua fine» [10].
Un’irriducibilità virginale che avvolge l'ultimo romanzo di Pontiggia, e il suo protagonista, giovane insegnante tanto diverso dall'impiegato Carabba. La frase in esergo a Nati due volte, dice: «Ai disabili che lottano non per diventare normali, ma se stessi». Ed è una frase che ha la forza non di un eroe, ma di un dio. Già – finalmente – l'uso della parola «normale» ha l'esattezza di una denuncia particolareggiata: quella che, nel riconoscere l'impossibilità di chiamarsi fuori dalla norma, fa strame di tutto quel politicamente corretto che omologa, invece di riconoscere, la diversità. Come in quello «schedario di cartelle cliniche nel quale deve rientrare per forza ogni tratto singolare del genio», scriveva già Cristina Campo [11].
In Nati due volte, il sovrano distacco che rende Pontiggia uno scrittore sublime si manifesta appieno: il rapporto di un padre con il figlio, disabile come quello dello scrittore, diventa arte di vivere – o condanna a non vivere – per chiunque. E la freccia che scocca dalle parole, è ancora più acuminata, inesorabile: il bersaglio è globale, una società planetaria che esalta il superamento del limite con una superbia degna della hybris greca, senza più nemmeno la consapevolezza di subire la condanna puntuale degli dèi, ovvero il fallimento totale.
La verginità mentale – che è più che onestà – di cui sono solide le pagine di questo romanzo ne fa un caposaldo della letteratura, come ogni opera che, intrisa di destino, impone la consapevolezza e l'accettazione del limite. Come Leopardi intuisce l'infinito proprio perché la siepe gli ostruisce la vista, così Pontiggia suggerisce fin dal titolo che una rinascita è possibile solo accettando il limite, e questo riguarda non il destino del figlio disabile o del padre che ne affronta le difficoltà: riguarda il destino dell'umanità intera.
Ecco dunque cosa fa la letteratura sublime: salva senza la presunzione di salvare. Come le poesie di Pasternak che i prigionieri del gulag si leggevano l'un l'altro.
È «la chiarità che salva» in un'oscurità maggiore, come diceva Remo Pagnanelli nei suoi versi; è il pericolo dove cresce anche ciò che salva, come scrisse Hölderlin. È il sorriso che scivola sul viso di quella donna in fila davanti al carcere di Leningrado insieme ad Anna Achmatova, quando riconosce la poetessa e le chiede: ma lei tutto questo lo può raccontare?, e la poetessa risponde: sì, posso. Quel sorriso scivola «su quello che una volta era stato il suo volto», e non perché la poesia, la letteratura, salvino la donna, o suo figlio prigioniero, il figlio della Achmatova o quello di Pontiggia, i prigionieri nei gulag o la società tutta: ma perché è testimonianza. La poesia/letteratura travalica lo spazio e il tempo, il poeta/scrittore è testimone non solo del suo tempo, ma di tutti i tempi.
«Ogni vera contemporaneità è coesistenza dei tempi» [12].
In perfetta corrispondenza, è come se Pontiggia sottolineasse queste parole della Cvetaeva nel suo saggio capolavoro: I contemporanei del futuro (Milano, Mondadori, 1998). Per Pontiggia, la grande sfida della cultura odierna è quella di considerare la contemporaneità dell'antico. Ma attenzione, avverte: «non sono i classici a essere nostri contemporanei, siamo noi che lo diventiamo di loro. Dimenticarli in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande. Perché i classici sono la riserva del futuro» [13].
Pontiggia ha scritto, fulminante: «La parola dei classici è l'antidoto più forte al processo di unificazione fatto in nome del mercato» [14]. E Daniela Marcheschi, che un giorno di tanti anni fa mi presentò a Pontiggia, ha sottolineato in un suo libro che «altri intellettuali […] sono ritornati a un'acritica fiducia neoilluminista, pensando che la scienza e la tecnologia, asservite all'economico, possano assumere un ruolo guida predominante nella società attuale e condurci verso le ‘magnifiche sorti e progressive’ di non si sa quale roseo destino» [15]. È la perdita di un'idea antica.
Pontiggia scriveva che «i classici, in un tempo ciclico, realizzavano un destino, non correvano un'avventura seguendo la freccia del tempo» [16]. E Cristina Campo, di cui ricorre il centenario dalla nascita e il cui pensiero guida come un faro, definisce la sparizione tutta moderna dell'idea di destino «la perdita delle perdite, seme e circonferenza di tutte le altre», quella di cui non si fa il nome, mutilati come siamo «dell'organo stesso del mistero» [17].
Tra La morte in banca e Nati due volte stanno alte le altre opere di Pontiggia, romanzi caposaldo e saggi illuminanti in cui l'antica idea di destino torna ad essere quel tappeto di meravigliosa complicazione del quale il tessitore non mostra che il rovescio [18], e attraverso la tessitura delle opere di Pontiggia si può essere, come diceva Isacco di Ninive, fedeli alla lettura nella quiete, per essere sospinti nello stupore, in ogni tempo.
Il romanzo L'arte della fuga (Milano, Adelphi 1968, poi Milano, Mondadori, 2013), partendo da un delitto, spalanca quello smascheramento della finzione che guida tutta l'opera di Pontiggia, e in una polifonia di voci senza nome, ma dall'identico destino, squaderna la spirale delle realtà inafferrabili e irriducibili;  Il giocatore invisibile (Ivi, 1978) è la partita persa di un professore di mezza età con la forza della parola, che svela il vuoto della sua maschera tracotante e spiana la strada al destino invisibile e invincibile che gli metterà a nudo l'esistenza;  Il raggio d'ombra (Ivi, 1983) è ispirato a un fatto vero accaduto alla fine degli anni Venti, e per le infinite corrispondenze della letteratura potrebbe essere descritto dai versi di Emily Dickinson: «Il presagio è quell'ombra che si allunga sul prato / Indice di tramonti / Ad avvertire l'erba sbigottita / Che su lei presto scenderà la notte» [19]; per  La grande sera (Ivi, 1989, premio Strega), Moravia paragonò Pontiggia a Gogol', nella capacità di dipingere un impietoso quanto ironico affresco sulla società e i suoi vuoti, a partire dalla sparizione improvvisa e inesplicabile di un consulente finanziario che alla fine nessuno cercherà più; e infine, per la memorabile raccolta di biografie immaginarie Vite di uomini non illustri (Ivi, 1993, Premio Settembrini) valga un'affermazione dello stesso Pontiggia: «Ho sempre presente il rovesciamento di una realtà nel suo contrario». In questo senso, coerente e intrecciata con la sua narrativa è la produzione saggistica, da Il giardino delle Esperidi (Milano, Adelphi, 1984) a Prima Persona (Milano, Mondadori, 2002).
In tutte queste opere, il filo conduttore è lo smascheramento, ma il marchio è quello del genio che vede il visibile e l’invisibile, il lampo azzurro nell'abito della Moira. Le Moire, in triade, tessono la vita e la morte: sono le dee del destino. E come ogni trinità, sono anche una sola: Moira. Figlia di Ananke, la dura Necessità. Il suo abito, in un lampo azzurro, lo vedevano gli antichi, lo vedono nelle fiabe i bambini, e nel mondo i poeti, gli scrittori «sublimi», capaci, come dimostra Pontiggia con tutta la sua opera, di accogliere quelle figure della necessità che abbagliano, seppure avvolte in nebbia, e folgorano dal fondo remoto della potenza senza volto [20].
Per non esserne del tutto sopraffatti, è necessaria quella castità della mente, quel distacco in cui intingere la freccia delle parole, quella meditazione sul visibile, l'invisibile, il mortale e l'immortale al tempo stesso, incisa in tutta l'opera di Pontiggia come sulla pietra la celebre iscrizione alla base della statua di Iside, dea egizia dell'intero cosmo, della guarigione e della magia: «Io sono tutto ciò che è stato, che è, e che sarà. Nessun mortale mai sollevò il mio peplo» [21].
Così è la letteratura. Assoluta, virginale, cosmica.
«Inevitabile è la poesia come i gigli di Leonardo / Queste trappole perfette», scrive in un suo verso la poetessa croata Lidija Vukčević, che definisce la poesia misura di tutte le misure [22]: i gigli di Leonardo, come quelli dei vangeli, somigliano alla ginestra di Leopardi, che resiste sulla cima del vulcano, contenta del deserto, colorando e profumando intensamente un paesaggio arido e brullo. Fino a quando, prima o poi, verrà travolta dalla lava.
Ma, seguendo Costantin Noica, il disordine dell'uomo è la sua fonte di creatività, a patto però di averne consapevolezza, e riconoscere con rigore che non si può parlare né di guarigione (attesa ottimistica) né di irrimediabile resa (tentazione nichilista), bensì di accettazione, osservazione, attenzione: in questo modo, come le Erinni in Eumenidi, le malattie dello spirito contemporaneo di cui parla Noica possono trasformarsi in modi di creare, di esperire il legame inscindibile fra Tempo e Necessità [23].
Quando ho conosciuto, molti anni fa, Giuseppe Pontiggia, mi restò impressa un'autorevole pacatezza che mi parve derivare da una gentile, granitica e disillusa consapevolezza. I suoi libri sono pieni di forza, grazia e castità: le virtù della sublime letteratura.
Li ho tutti, alcuni autografati con dedica. Una mi è particolarmente cara: datata 8 giugno 1999, mi attribuisce, con mia grande gioia e sorpresa, una mobile lucidità. Ma è la sua, e se ne ho, lo devo molto alla sua opera.


David Fiesoli
(n. 4, aprile 2023, anno XII)




NOTE

[1] Giuseppe Pontiggia, Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano, Mondadori, 2004.
[2] Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, a cura di S. Vitale, Milano, Adelphi, 2022, p. 93.
[3] Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, Milano, Mondadori, 2006, p. 24.
[4] Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, cit., p. 43.
[5] Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, cit., p. 16
[6] Giuseppe Pontiggia, La morte in banca, introduzione di Mario Barenghi, Milano, Leonardo, 1991, p. 6.
[7] Grazia Livi, Narrare è un destino, Milano, La Tartaruga, 2002, p. 8.
[8] Wislawa Szymborska, Gente sul ponte, a cura di P. Marchesani, Milano, Scheiwiller, 1996, p. 89.
[9] Cristina Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1999, pp. 39 e 166.
[10] Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, cit., p. 29.
[11] Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, p. 65
[12] Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, cit., p. 52.
[13] Giuseppe Pontiggia, I contemporanei del futuro, Milano, Mondadori, 1998, p. 58. Anche in Giuseppe Pontiggia, Le utopie della lettura, Torino, Fiera del Libro, 1999, p. CXII.
[14] Giuseppe Pontiggia, I classici in prima persona, cit., p. 20.
[15] Daniela Marcheschi, Prismi e poliedri. Scritti di critica e antropologia delle arti, Livorno, Sillabe, 2001, p.63.
[16] Giuseppe Pontiggia, I contemporanei del futuro, cit., p. 35.
[17] Cristina Campo, Gli imperdonabili, cit., p. 113.
[18] Ivi, p. 115.
[19] Emily Dickinson, Poesie, a cura di M. Guidacci, BUR, 1992, p. 227.
[20] Cfr. Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1983, p. 147.
[21] Cfr. Plutarco, Iside e Osiride, a cura di M. Cavalli, Milano, Adelphi, 1985, p. 65.
[22] Lidjia Vukčević, Il velo e altre poesie, a cura di E. Bazzarelli, Pistoia, Via del Vento, 1997, p. 3.
[23] Cfr. Costantin Noica, Sei malattie dello spirito contemporaneo, trad. di M. Mocan, Milano, Carbonio editore, 2017.