Da «Una goccia nell’oceano divino» a «Facciamo Paradiso»

Vite di uomini non illustri esce a Milano, presso Mondadori, nel 1993: uno dei libri fondamentali dello scrittore lombardo, un insieme di «vite» narrate con ironia e pietas e dispiegate in un ampio arco di tempo, dall’Ottocento al Duemila. Proprio una di queste ultime, nel racconto o microromanzo Una goccia nell’oceano divino, aveva subito interessato un regista come Mario Monicelli che, nel volgere di poco tempo, come vedremo, avrebbe girato il film Facciamo Paradiso.
Vite di uomini non illustri è una raccolta di biografie «anonime» che raggiungono una compiutezza stilistica con pochi eguali nella letteratura italiana. Innanzitutto, perché rientrano nei piani di un percorso stilistico capace di alimentare la forza delle narrazioni classiche attraverso un excursus produttivo, che è una vera presa di posizione nei confronti della parola e del suo uso a incastro, come fosse un puzzle, all’interno del congegno narrativo. Pontiggia è stato un maniaco della revisione, della riscrittura intesa come ricerca della perfezione semantica e del giusto equilibrio tra le parti discorsive. E niente viene lasciato al caso nella costruzione di questa memorabile raccolta di racconti/microromanzi, la rappresentazione umana attraverso storie comuni che hanno la forza e l’incisività delle biografie illustri. Per Pontiggia l’eccezionalità di una vita sta nell’averla vissuta con dignità e «disordinata» coerenza, facendo assumere a tutti i personaggi la responsabilità dei fallimenti che sono insiti in ogni percorso esistenziale. Per lo scrittore comasco un tassello importante che lo spingerà a scrivere la sua più grande vita di un uomo non illustre, il romanzo Nati due volte (Milano, Mondadori, 2000), il racconto della sua vita e quella del figlio disabile: «Perché i bambini disabili nascono due volte: la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è affidata all'amore e all'intelligenza degli altri».
In quel libro, da cui ha tratto ispirazione Gianni Amelio per il film Le chiavi di casa (2004), Pontiggia ha operato uno sforzo stilistico riuscito, qualcosa che solo i grandi scrittori sanno fare: ha raccontato sé stesso senza finzioni, il dramma e la debolezza di un uomo dinanzi alle difficoltà della vita. E quando parlava di quel romanzo si appassionava, la sua voce stanca diventava calda e suadente: «Ogni volta che finivo di scrivere un capitolo lo facevo leggere a mio figlio, e dalla sua reazione capivo se dovevo apportare modifiche o se andava bene […]. Sono stato contattato da molte associazioni di volontariato, che mi ringraziavano per Nati due volte, ho spiegato a loro perché si nasce due volte … La prima è una nascita fisica, la seconda spirituale, perché si comincia a vedere il mondo con gli occhi di quel figlio amato». [1]

Ma Giuseppe Pontiggia che cosa raccontava nel microromanzo Una goccia nell’oceano divino di Vite di uomini non illustri? Non certo un disordinato Sessantotto collettivo inseguito da Monicelli, ma neanche il Sessantotto individuale della protagonista della storia, Claudia Bertelli, nata nel 1949 a Torino con parto cesareo, per volere del borghesissimo padre, l’ingegnere Franco Bertelli, che, d’accordo con la moglie, la professoressa Alda Cagli, evita il dolore del parto per non creare sofferenza inutile alla puerpera e alla nascitura: quei genitori «si sentono fluidi, aerei, volatili e soprattutto moderni».
Nei capolavori microcosmi delle Vite di uomini non illustri, Pontiggia dà spesso importanza all’evento della nascita dei personaggi comuni sui quali punta l’attenzione, come nel racconto di apertura Viaggio alle sorgenti nel Nilo. Anche in questo titolo ricorre l’elemento acquatico e il parto del protagonista: «Nasce per parto podalico il 2 luglio 1932 nella clinica Regina Elena di Trento. Sua madre gli ricorderà spesso, nel corso degli anni, i dolori che le ha provocato una nascita simile. Ma solo a cinquantun anni capirà quanto quella anomalia abbia influito sulla sua crescita. Glielo ripete, mentre lo tiene immerso nell’acqua calda della vasca, il 2 luglio 1983, la sua amica di Merano, che gli ha chiesto di rivivere l’evento».
La leggerezza e la pesantezza caratterizzano le «vite non illustri» di Claudia Bertelli e Antonio Vitali. Ma la Bertelli non sta alle regole del gioco, rifiuta il libertinaggio educativo dei suoi «moderni» genitori e sceglie la sua libertà piena di errori e contraddizioni. È forse questo il lento fluire della «goccia nell’oceano divino»? Se ne accorge fin da piccola, che quello dei suoi è un bigotto perbenismo, tipico delle famiglie borghesi italiane e ne ha riprova il giorno che confessa di aver perso la verginità: «‘Non sono più vergine.’  ‘Da quando?’ le chiede sua madre impallidendo, ma cercando di esprimere una curiosità solidale. ‘Da ieri.’ ‘È successo con l’Emilio?’ chiede. ‘No, con il Pino.’ ‘Il Pino?’ geme lei sgomenta, congiungendo le mani. Ripetente, immigrato, piccolo, di famiglia modesta. ‘Ma perché proprio lui?’ ‘Ero certa che avresti detto così’ risponde lei con disprezzo. ‘Siete solo razzisti mascherati.’ ‘Ma che cosa ti abbiamo fatto?’ esclama sua madre. ‘Vi odio!’ grida».
Del Sessantotto neanche l’ombra o, forse, meglio, solo la proiezione, ma sullo sfondo, di certi suoi ideali di uguaglianza e libertà. A Pontiggia interessa infatti raccontare i meccanismi di un conflitto generazionale fisiologico, il fallimento di un percorso educativo, quello di Claudia Bertelli che rifiuta il modello famigliare senza per questo arrivare allo scontro diretto. Alla ricerca interiore di un padre, che penserà di trovare nella figura del compagno guru e filosofo. Inevitabile sarà il suo graduale distacco dalla società fino alla scelta di aderire alla Comunità dei Solari. «Sulla sua tomba i figli faranno incidere una espressione di Rajnesh che le era cara: ‘Una goccia nell’oceano divino’».
Per Monicelli la storia di Pontiggia è stata solo un pretesto, una scintilla che non si accende e non si illumina. Un improbabile incontro quello tra Monicelli e Pontiggia, perché tra le trasposizioni cinematografiche da opere letterarie quella di Facciamo Paradiso è la meno riuscita del regista romano. Le due precedenti, particolarmente ispirate, sono distanziati da quattordici anni: Un borghese piccolo piccolo del 1977 dal romanzo omonimo di Vincenzo Cerami e Il male oscuro del 1991 dal capolavoro di Giuseppe Berto, entrambi film belli, appartenenti a una fase particolarmente feconda e audace del cinema di Monicelli. C’è da dire che lo stesso Cerami parteciperà alla scrittura della sceneggiatura del suo romanzo, e la coppia Suso Cecchi D’Amico-Tonino Guerra a quella del lungometraggio tratto dal romanzo dello scrittore di Mogliano Veneto.

Nel 1995 sarà appunto la volta di Facciamo Paradiso, «liberamente ispirato» dal mirabile racconto Una goccia nell’oceano divino, e con la sceneggiatura di Suso Cecchi D’Amico, Piero De Bernardi, Mario Monicelli, Leonardo Benvenuti.
Dunque, perché sembra improbabile questa alchimia tra il regista e il narratore? Perché Monicelli, in quel periodo della sua esistenza, era entrato in una fase di depressione che gli faceva apparire il cinema come noia e la regia come esercizio routinario. Pensava che fosse venuto il momento di raccontare il Sessantotto, con le sue malattie «infantili», le sue velleità borghesi, i suoi ideali belli, ma anche ingenuamente perseguiti, di cambiare il mondo: un progetto ambizioso che, però, sarebbe riuscito a Marco Tullio Giordana con La meglio gioventù (2003).
La dicitura «liberamente ispirato» salva Pontiggia, che non ha mai smesso di credere nella scrittura e nella letteratura, da fraintendimenti critici e lascia libero spazio al regista che fallisce, non troppo clamorosamente, un’occasione. La critica cinematografica non sarà tenera e non risparmierà neanche la giovane Margherita Buy in ascesa: «La seconda metà del Ventesimo secolo raccontata attraverso gli occhi di una donna: le ambizioni sono alte, i risultati bassissimi». [2]
Ecco che cosa ne scriverà Marcel M. J. Davinotti Jr:
«Un Monicelli decisamente poco ispirato che, nel tentativo di organizzare il film come si faceva negli anni migliori della nostra commedia coprendo l'intera esistenza o quasi del protagonista (si pensi a ‘Una vita difficile’ e a ‘C’eravamo tanto amati’), si perde in una lunga teoria di scene deboli, mai significative né rappresentative (se non marginalmente) dell'epoca in cui vengono di volta in volta ambientate. La deputata a traghettarci dagli anni Sessanta al 2011 (all'epoca del film il futuro) è Claudia (Buy), figlia scapestrata di un ricco industriale milanese (Noiret). Ribelle poco convinta fin dalle prime esperienze al college, dal quale fugge per partecipare a uno dei più celebri ritrovi hippie di ogni tempo sull'isola di White, vive gli anni della contestazione studentesca e quelli del femminismo sempre all'insegna di un'indipendenza di facciata più figlia di una forte immaturità che di autentiche convinzioni. E mentre l'Italia e il mondo cambiano, lei vive i suoi primi amori, a cominciare da quello per il fascinoso leader degli studenti che occupano l'Università Statale di Milano (Cassini). È però la figura di Pino (Arena) l'unica a ripresentarsi ciclicamente: napoletano timido e sfigatissimo, prova in ogni modo a far innamorare Claudia di sé ma ottiene solo di finire sfruttato biecamente a ogni occasione: la spalla su cui piangere insomma, l'amico fedele su cui poter contare sempre e comunque. E non è certo lui il padre del figlio di Claudia, la quale confessa la maternità a genitori rassegnati ad accettare passivamente ogni suo colpo di testa. ‘Sono incinta e non so di chi’, annuncia nel presente dal quale si dipartono i primi flashback prima di un riaggancio che aprirà poi in direzione del futuro. Sposerà un burattinaio spiantato (Ovadia) mentre la regia cercherà continuamente di lasciar trasparire – dai suoi incontri e dalle situazioni in cui si trova – un carattere che non emerge mai davvero, prevedibile nelle sue reazioni e trascinato dalla corrente. Il problema è che nemmeno il ritratto socio-culturale riesce mai a farsi strada, con timidi approcci alla commedia e ambiziosi passaggi come tappe insignificanti di una storia che davvero poco ha da dire. Lello Arena, lontano parente della splendida spalla di Troisi che fu, si mette in un angolo lasciandosi umiliare a più riprese, Ovadia filosofeggia vacuamente sui massimi sistemi lasciando intendere chiaramente come la pensi Monicelli mentre la Buy, sulle cui spalle pesa l'intero film, non ha ancora la statura necessaria a reggere un ruolo tanto sfumato (in compenso mostra il seno in un paio di occasioni). Non che la colpa di un film non terribile ma sbagliato possa essere attribuita a lei, ma certo era ingenuo pensare che potesse salvare da sola il risultato. Beruschi fa un piccolo cameo nei panni del prete dell'ospedale all'inizio».



Domenico Trischitta
(n. 3, marzo 2023, anno XII)




NOTE

1. Cfr. Domenico Trischitta, Il magistero di Pontiggia, in «Letteratitudine», 28 giugno 2013.
2. Così si legge sulla pagina web Longtake movies: «La seconda metà del Ventesimo secolo raccontata attraverso gli occhi di una donna: le ambizioni sono alte, i risultati bassissimi. Tratto da un racconto di Vite di uomini illustri di Giuseppe Pontiggia, Facciamo paradiso è una sequela di luoghi comuni e frettolose banalità: Monicelli gestisce male la materia di base, e la sua regia si perde completamente, incapace di dare il giusto piglio all'azione e alla storia raccontata. I tanti sceneggiatori (tra cui Suso Cecchi D'Amico e lo stesso Monicelli) hanno dato vita a un copione confuso e poco equilibrato, reso ancor più superficiale dalla (men che) mediocre performance di una Margherita Buy completamente fuori parte. Sprecato Philippe Noiret nel ruolo del padre della protagonista».