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Il silenzio come linguaggio: la sordità nel contesto postbellico
Per la casa editrice Einaudi, nel 2014 esce il romanzo L’uomo che dipingeva il silenzio [Painter of Silence, 2012] della scrittrice britannica Georgina Harding, tradotto da Federica Oddera. La particolarità di questo romanzo risiede non soltanto nel luogo in cui è ambientato, ma anche nel titolo, che dice molto. Negli anni Cinquanta, a Iași, in Romania, durante il periodo delle due guerre, c’è Augustin, fermo alla stazione ferroviaria, disorientato, «fragile come un uccellino caduto» [1], che si ritrova sui gradini di un ospedale. È in questo luogo che inizia la storia di Augustin, o Tinu, come viene chiamato dalla sua amica e sorella d’infanzia, Safta. Ha inizio un rito: il lavaggio del corpo di Augustin, quasi a simboleggiare il ritorno alla sua purezza.
«L’hanno rasato e disinfestato dai pidocchi. Poi, con una spugna imbevuta d’acqua e sapone, gli hanno bagnato delicatamente il collo, il petto, la schiena, l’inguine, le braccia e le gambe gracili, un arto alla volta, come se fosse un lattante o un cadavere. Era di una magrezza penosa. Aveva piaghe e lividi, ma quelli erano segni superficiali che sarebbero guariti e scomparsi in fretta. Il suo corpo non presentava nemmeno una cicatrice» [2].
In questo breve estratto si nota che tra l’infermiera Adriana e Augustin non intercorre alcun dialogo, e il lavaggio non tocca il viso o le orecchie, ma parte dagli arti ‘sani’. In ospedale, luogo di guarigione e di domande e risposte, qui, assistiamo invece a molte domande da parte delle infermiere, rivolte a questo giovane uomo che, pur scampato alla guerra, non presenta una sola cicatrice. Sappiamo il suo nome grazie all’altra infermiera che lo riconosce: Safta, amica e sorella d’infanzia di Tinu.
Ed è soltanto grazie a Safta che noi lettori veniamo a sapere perché Augustin non parla: è sordo. Da questo momento in poi, ha inizio una storia che si muove dal reale all’irrealistico, a partire dalla nascita di Tinu. A Poiana, nel mese di agosto, in una notte in cui «infuriava un tremendo temporale, con tuoni fragorosi e un fulmine che colpì una delle acacie nei pressi della casa, la madre, Paraschiva, avvertì il violento scoppio proprio nell’attimo in cui spingeva fuori il figlio» [3]. Paraschiva, serva della famiglia benestante di Safta, interpreta la nascita del figlio illegittimo come un peccato, soprattutto dopo aver scoperto la sua sordità. Tuttavia, l’idea che la nascita di un figlio sordo equivalga a un peccato non è nuova, soprattutto se attorno alla nascita sono presenti elementi atmosferici negativi come «tuoni e fulmini». Serra [4] sostiene come «nelle civiltà antiche la disabilità fosse considerata l’esito della possessione di uno spirito maligno» o, ancora, nella civiltà babilonese [Codice di Hammurabi], «le ragioni della condizione di sofferenza possono essere una colpa o un peccato commessi dal malato, ad esempio, incesto o adulterio». La madre, Paraschiva, si sentirà in colpa per tutta la vita per questo figlio illegittimo, nato fuori dal matrimonio con un uomo che «non era rimasto abbastanza a lungo per farlo venire alla luce integro e sano» [5].
Il titolo Il pittore che dipingeva il silenzio fa riferimento alla storia di Augustin, poiché ci suggerisce due cose: è un artista sordo e dipinge il «silenzio», ovvero ciò che osserva attorno a sé nel più assoluto mutismo. Questo ci porta a riflettere sulla condizione delle persone sorde nel mondo del lavoro e su come venivano considerate, soprattutto negli anni Cinquanta. Tinu, per tutta la vita, impara a non «pretendere l’attenzione altrui» [6]; impara a usare la vista come metodo di conoscenza, scarabocchiando su fogli tutto ciò che vede e leggendo il labiale. Ma gli anni Cinquanta sono gli anni in cui la sordità era ancora associata alla «parola», e Augustin ne è un esempio: viene costretto dall’istitutrice Fräulein a usare «il metodo orale per insegnare ai sordi l’uso della parola» [7]. Ciò che emerge dal personaggio di Augustin è che il suo linguaggio non è la parola, ma l’immagine. Usando la vista, inizia a comunicare con la realtà esterna:
«Nella camera Augustin non metteva persone. Le disegnava separatamente, ritagliandone la sagoma in fogli di carta spessa o di cartone perché fossero autonome rispetto al resto. Quelle figure sembravano strane a Paraschiva. Se le stanze fossero riprodotte la realtà, i loro abitanti non sarebbero stati affatto realistici. Erano simboli di persone. […]. Augustin rappresentava gli esseri umani sempre nello stesso modo, nella forma fondamentale di un rettangolo cui però aggiungeva divisioni interne o a volte parti staccate che corrispondevano alle normali proporzioni della testa, del tronco, delle gambe» [8].
Le persone sorde, in quegli anni, nei meandri oscuri e felici delle campagne, non venivano ancora segregate dalle istituzioni, ma spesso dalle famiglie, nascoste per vergogna e stigma. In questo contesto, le persone sorde lavoravano nei campi, usando le mani come mezzo di lavoro e di comunicazione. Poiché sorde, non venivano distratte dallo spazio ambientale.
«Con l’avvento del capitalismo […] la disabilità è diventata una patologia individuale: le persone disabili non potevano soddisfare le richieste del lavoro salariato individuale e così venivano controllate attraverso l’esclusione» [9].
Paraschiva, finché non scopre la sordità del figlio, pensa al suo futuro, si chiede come potrà situarsi nel mondo se è sordo. Tinu impara a situarsi nel mondo anche attraverso la sofferenza della guerra. Impara un mestiere nelle scuderie: «sembrava in grado di comprendere gli animali, di comunicare con loro attraverso il tatto, i movimenti delle mani e persino gli occhi, ma anche usando ciò che di più vicino al linguaggio avesse mai raggiunto» [10]. L’ospedale non è solo l’emblema dell’inizio della storia di Augustin, ma anche il luogo in cui rincontra Safta, a cui deve raccontare una storia — che narra attraverso i disegni. Augustin è lo spettatore silenzioso che ha assistito alle guerre, ma che non porta cicatrici sul corpo, bensì nello sguardo.
«Persino a guerra finita, Augustin continuò a costruire soldati. Li ritagliava in qualsiasi vecchio foglio di recupero, disegnandoci poi sopra le uniformi, giubbe, cinture, bottoni, berretti e le facce che i reduci portavano al posto degli stivali. Li fabbricava senza la cura che dedicava di solito alle sue figure, senza nessuna varietà» [11]. I suoi disegni rappresentano il crimine di ciò che hanno generato le guerre, ma anche la storia che riguarda Safta. La scrittrice britannica Georgina Harding, con Il pittore che dipingeva il silenzio, inserisce un personaggio sordo che, anziché essere passivo e relegato agli angoli della storia, diventa il protagonista attivo, colui che porta avanti la memoria attraverso i disegni. Il suo personaggio non è lasciato ai margini della società. Se la sordità, all’inizio, rappresenta per la madre un peccato, in seguito diventa la ragione stessa della sua esistenza. Augustin è la prova vivente di ciò che sono state le due guerre e conserva, nei suoi disegni, l’eco della violenza inaudita e delle morti, tra cui quella della madre. I suoi disegni rappresentano il crimine, ma anche la salvezza. «La nascita di individui “malformati”, nel cristianesimo, è frutto del volere di Dio, […] opera in questo modo per punire, salvare o insegnare: il problema è solo di comprenderne le misteriose motivazioni» [12].
Emilia Pietropaolo
(n. 11, novembre 2025, anno XV)
NOTE
[1] Harding, G., il pittore che dipingeva il silenzio, Einaudi, (trad.it) Oddera F., 2014, Milano, p. 8
[2] Ibidem, cit., p. 9
[3] Ibidem, cit., p. 20
[4] Serra, G., Storia e teorie della disabilità: dal mostro al soggetto alla persona dall'esclusione all'inclusione, NullaDie, Enna, 2020, pp. 15-16
[5] Harding, Il pittore che..., cit., p. 20
[6] Ibidem, cit., p. 21
[7] Ibidem, cit., p. 31
[8] Ibidem, cit., p. 38
[9] Oliver, M., le politiche della disabilitazione: il Modello Sociale della disabilità, Ombre Corte, (trad.it) Valtellina E., Verona, 2023, p. 77
[10] Harding, G., Il pittore..., cit., p. 55
[11] Ibidem, cit., p. 185
[12] Serra, G., Storia e teorie della disabilità., cit., p. 29
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