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I rapporti Coomaraswamy-Eliade
* Nel capitolo introduttivo ho menzionato uno degli ultimi saggi pubblicati in vita, in cui Eliade ha tenuto a celebrare due grandi nomi nell’ambito degli studi religiosi, Ananda Coomaraswamy [1] e Henry Corbin. Si può osservare che i due appartengono a due generazioni successive, il primo potendo essere assimilato al gruppo dei tradizionalisti, mentre Corbin s’inscrive in una direzione distinta. Non possiamo che domandarci perché Eliade abbia deciso di studiarli in un dittico, senza dedicare un saggio a sé stante a ognuno. La prima sezione, quella dedicata a Coomaraswamy, è occasionata dall’uscita di un’edizione in tre volumi, a cura di Roger Lipsey, edizione che comprende una parte degli studi firmati dal ricercatore indiano-americano [2]. Eliade rifà una storia delle pubblicazioni di Coomaraswamy, a partire dal volume The Dance of Shiva (1922), che lo ha portato alla fama nel mondo occidentale, volume prefato da Romain Rolland. Dei tre autori tradizionalisti, Coomaraswamy è il solo che Eliade abbia apprezzato in modo costante, dato il suo merito di rendere intelligibile allo spirito occidentale l’arte e il pensiero indiano. Guardando retrospettivamente all’attività dello studioso anglo-indiano, Eliade identifica tre tappe principali: la prima, dedicata allo studio dell’arte orientale e del potente simbolismo da cui è impregnata, la seconda, in cui l’interesse per l’ambito della storia delle religioni diviene più accentuato, attraverso la mediazione degli studi sul simbolismo della fertilità ctonia (Magna Mater), sulla cosmogonia, il rituale e le mitologie acquatiche. Infine, la terza tappa ha come centro di gravità il sistema ermeneutico denominato philosophia perennis, che Eliade descrive come «tradizione primordiale e universale presente in ogni autentica civiltà non acculturata» [3]. Nel pensiero di Coomaraswamy si risente sempre più forte l’influenza di René Guénon che, a partire da Introduction générale à l’etude des doctrines hindoues (1921), scrive soltanto in questa prospettiva. Eliade osserva tuttavia che questa influenza non è stata sempre benefica, specialmente a causa di quello che lui definisce «il razionalismo rigido di Guénon» [4]. Effettivamente, Coomaraswamy ha trovato nelle opere dell’autore francese una conferma delle sue ricerche nell’ambito della storia dell’arte e dell’iconografia orientale e occidentale (fino all’apparizione del Rinascimento). Tuttavia l’ermeneutica di Guénon è fortemente normativa, stabilendo classificazioni, gerarchie, discriminazioni, deprezzamenti ed esclusioni in nome di un principio ordinatore e atemporale. Uno spirito matematico pervade le opere di Guénon, che si allontana con sospetto dallo spirito fantasioso e immaginativo che può talvolta manifestarsi anche sul piano della religiosità, in senso lato. Eliade accentua il contrasto tra i due approcci: «Lo storico delle religioni è, al contrario, affascinato dalla molteplicità e dalla varietà delle idee sul modo d’essere unico di Dio, elaborata nel corso dei millenni, poiché ogni struttura teologica rappresenta una nuova creazione spirituale, una intuizione recente e un migliore accostamento alla realtà ultima» [5]. È vero che Guénon e Coomaraswamy hanno collaborato strettamente, che hanno avuto una intensa corrispondenza e che hanno scritto su temi comuni. Tuttavia Eliade sottolinea anche una differenza importante tra i due, nel fatto che l’autore anglo-indiano non ha condiviso il pessimismo totale dell’autore francese, riferito al fatto che viviamo nell’epoca di Kali-yuga, di estinzione dei principi tradizionali. Eliade aggiunge però che l’attitudine pessimista è in realtà una caratteristica della modernità, con l’eccezione del marxismo e della teologia di Teillhard de Chardin. Al di là di questi rapporti di identificazione e differenziazione con lo spirito guénoniano, Eliade sottolinea il merito incontestabile delle opere dell’erudito anglo-indiano: «per lo storico delle religioni, come anche per l’orientalista e lo storico dell’arte, la sua analisi ermeneutica delle immagini, dei simboli e dei miti tradizionali è forse persino più stimolante della sua riformulazione implicita o esplicita della philosophia perennis» [6]. Se Guénon e Coomaraswamy hanno fatto della philosophia perennis un concetto-cardine delle loro opere, Corbin ha parlato invece di theosophia perennis, con cui denomina una corrente sotterranea che lega segretamente l’esoterismo ermetico islamico (sciita e sufi) e il sistema di miti, riti, modelli iniziatici e organizzazioni segrete nell’Occidente medievale. Come anche Coomaraswamy, Corbin ha criticato l’errore riduzionista praticato da molti orientalisti, sia che venissero dall’ambito della filologia, della storia culturale o degli studi religiosi. Da queste osservazioni di Eliade, riconosciamo che i due autori, Coomaraswamy e Corbin, si situano nella sfera dell’ermeneutica creatrice, pensata come «la via regia nella storia delle religioni» [8]. Al di là del semplice comparativismo religioso, colui che si “spinge” nell’ambito dell’ermeneutica creatrice è cosciente che non studia solo “fatti” (culturali o sociali), ma soprattutto alcuni che assolvono una funzione spirituale e che stanno a testimoniare gli incontri dell’uomo col sacro, di come questi hanno modellato col tempo l’universo simbolico dell’uomo. D’altra parte, questo universo spirituale non può essere abbandonato ai due possibili tipi di riduzionismo: quello “scientista” o quello “storicista”, dominanti in certi ambienti universitari; poi quello degli improvvisatori dilettanti che praticano un sincretismo grossolano, avendo come risultato la produzione impressionante di letteratura (pseudo)esoterica. La mancanza di “interpreti esperti” è stata osservata anche da Henry Corbin, considerandola come una delle cause principali per cui il fondo spirituale della civiltà occidentale è scomparso dalla coscienza di questa. «A differenza dei grandi sistemi teologici conservati dagli Ordini religiosi, o a differenza dei sistemi filosofici insegnati nelle Università, il patrimonio delle scienze spirituali, che si può raggruppare sotto il termine più o meno felice e adeguato di “esoterismo”, si è trovato ad essere abbandonato. Si potrebbe altrettanto bene parlare di un soffocamento ad opera dello spirito canonico e giuridico. Il risultato è che questo patrimonio è rimasto sepolto nelle biblioteche, oggetto talvolta della curiosità di eruditi ben intenzionati, ma più sovente preda di improvvisatori senza discernimento. Da qui la crescita di pseudo-esoterismi». [9] Le righe sopracitate fanno parte del programma-manifesto che è stato alla base della creazione dei Cahiers de l’Université Saint-Jean de Jérusalem, a cui hanno collaborato, insieme a Corbin, ricercatori come Ernst Benz, Gilbert Durand, Antoine Faivre, Jean Servier etc. Sono state scritte nel 1974, e in questo intervallo sono stati pubblicati moltissimi studi approfonditi sull’ambito della tradizione spirituale in Oriente e Occidente. Nonostante ciò, una trasformazione fondamentale nel pensiero occidentale ancora non si è prodotta, la crisi spirituale essendosi ancor più accentuata rispetto all’inizio del XX secolo.
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