Cecco d’Ascoli e la sua sfida a Dante Alighieri

In questo 2021, che volge ormai al termine, si sono celebrati ovunque, con una moltitudine di cerimonie commemorative, i 700 anni dalla morte di Dante, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321. In coda alle doverose celebrazioni per il Sommo Poeta, mi piace qui, a mo’ di sana provocazione, ricordare un altro esponente del panorama culturale medievale, che, poco considerato dai critici d’ogni tempo, ebbe nondimeno l’ardire di criticare la Comedìa Divina del suo più illustre coevo: Cecco d’Ascoli, uomo di alto ingegno umanistico, medico, astrologo e astronomo, poiché nel XIV secolo non vi era differenza tra le due discipline.


Cenni biografici


Cecco d’Ascoli nacque ad Ancarano, nella diocesi di Ascoli, nel 1269 (la data del 1257, da alcune fonti citata, trova tra gli studiosi consensi minoritari), figlio di Emindia e di Maestro Simone degli Stabili, affermato avvocato ascolano. Ad Ascoli Cecco trascorse gli anni della sua giovinezza. A diciott’anni entrò nel monastero di Santa Croce ad Templum, a quel tempo un influente centro ispiratore della dottrina occulta templare.
Nel 1320 ottenne la cattedra di Medicina presso l’Università di Bologna. Nello stesso ateneo gli fu assegnata anche la cattedra di Astrologia, dalla quale commentava alle matricole il De Sphaera Mundi di Johannes de Sacrobosco, illustre matematico, astronomo e astrologo inglese. In quello stesso periodo, Papa Giovanni XXII lo volle ad Avignone come suo medico personale. Tale nomina attirò nei suoi confronti forti invidie e accese gelosie di medici ed ecclesiastici che, tra l’altro, lo accusarono anche di avere simpatie ghibelline. Questo clima fumoso costrinse Cecco ad allontanarsi amaramente da Avignone. Tornato alla sua vecchia cattedra bolognese, nel 1324 arrivò una prima condanna per eresia, da parte dell’Inquisitore domenicano Lamberto da Cingoli, per i contenuti relativi al suo Tractatus in Sphaeram. La pena consistette in una grossa multa, nella perdita dell’insegnamento, nel sequestro di tutti i suoi libri e nell’obbligo quotidiano di recitare preghiere penitenziali. Ma tale fu la pressione degli studenti e dei colleghi che l’ammiravano, che nel 1325 Cecco fu posto nuovamente alla cattedra bolognese addirittura con una promozione di livello. Questo non lo ripagò. E addolorato ancora per l’ingiusta sentenza e temendo, soprattutto, che il suo libero pensare, specie sulla vita religiosa di quel tempo, lo facesse cadere ancora nelle strette maglie dell’Inquisizione, decise di cambiare aria a città. Si portò, quindi, a Firenze, alla corte del duca di Calabria Carlo II d’Angiò, in quel frangente signore della città. Dal 12 marzo al 31 maggio del 1327, Cecco fu nel libro paga del duca per le sue funzioni di «phisicus et familiaris». Il soggiorno fiorentino fu per lui occasione di conoscenza e amicizia con Dante e altri illustri poeti dell’epoca. Col tempo, non tardarono nuove gelosie, in particolar modo le ostilità dei medici fiorentini, capeggiati ‘in primis’ da Dino del Garbo che odiava a morte Cecco. La loro rivalità risale al periodo bolognese, quando Cecco accusò il Del Garbo di plagio nelle sue lezioni, facendolo così destituire dall’insegnamento.
Nel 1326, al duca Carlo II d’Angiò nacque una figlia e commissionò a Cecco un oroscopo su quelle che sarebbero state le caratteristiche della bambina negli anni a venire ma, ancora una volta, l’ascolano non seppe colmare la sua innata lacuna in materia di diplomazia, così come dettavano le regole del buon vivere. Il suo responso astrologico sulla piccola futura regina Giovanna I fu che, seppur crescendo bella e intelligente e a un trono destinata, una sfrenata lussuria l’avrebbe condotta al precipizio. Ciò indispettì molto il duca al quale non piacque la sua «riposta», pur risultando, in seguito, veritiera la profezia.

La sua schiettezza di pensiero e le controversie di corte condussero Cecco nuovamente nella rete del Santo Uffizio. Questa volta l’Inquisitore fu un frate di nome Accursio Bonfantini, arcivescovo di Cosenza che, quale primo lettore pubblico di Dante, già nutriva astio nei confronti di Cecco, non avendo apprezzato le critiche a Dante da parte dell’ascolano. Nel luglio del 1327, un incaricato venne inviato a Bologna per ritirare una copia della sentenza di condanna del 1324 e con essa integrare e il capo d’accusa della redigenda nuova sentenza. «…Noi frate Accusio fiorentino dell’ordine de’ frati minori conventuali per autorità apostolica Inquisitore dell’Eresia nella provincia di Toscana facciamo palese a tutti li buoni christiani come esercitando l’offizio commessoci dello Inquisitore: precedente la fama publica o per dir meglio infamia sparsa da molte persone degne di fede ci venne all’orecchio, che Maestro Cecco figliuolo di Maestro Simone Stabili da Ascoli andava spargendo per la città di Firenze molte eresie con danno e pericolo non picciolo dell’anima sua e degli altri; e, quello che è cosa più brutta, dava a leggere per le scuole publiche un certo suo eretico e brutto libretto fatto da lui sopra la sfera celeste…» La sentenza, che fece riferimento anche a un altro libretto in lingua volgare intitolato Acerba, così concludeva: «deliberiamo et comandiamo per sententia doversi abbruciare et all’Heretico desiderando tagliare le vene della fronte pestifera».
Cecco non abiurò e non potendo più contare sull’appoggio di Carlo II d’Angiò, che non voleva inimicarsi il Papa, venne condannato al rogo come eretico. La sentenza venne resa pubblica il 15 settembre del 1327 nel coro di Santa Croce e il giorno seguente Cecco d’Ascoli venne arso davanti alla basilica di Santa Croce, insieme a tutte le sue opere, gridando tra le fiamme: «L’ho detto, l’ho insegnato, lo credo!». Fortunatamente degli estimatori salvarono alcune copie dei suoi manoscritti come il trattato De quodam modo phisinomiae e il commento De principiis astrologiae. Ma soprattutto salvarono la sua opera più grandiosa: L’Acerba. Sulla fortuna di Cecco negli autori successivi, molto resta ancora da indagare. Tuttavia, l’esempio più celebre di quanto la sua opera abbia destato ammirazione nei poeti del suo tempo è quello del Petrarca che fa un uso ampio di stilemi de L’Acerba nei Rerum vulgarium fragmenta.


L’Acerba
e l’antagonismo con Dante

Che cos’è L’Acerba di Cecco d’Ascoli? Un libro che sino alla metà del ‘500 conobbe più edizioni a stampa della Divina Commedia di Dante? Innanzitutto, essa è un’opera di poesia scritta in lingua volgare, divisa in 5 libri per un totale di 4867 versi in sestine. Ma è anche un trattato scientifico e tale era ritenuto nel tardo Medioevo. Del resto, Cecco d’Ascoli fu medico di Papa Giovanni XXII, astrologo alla corte di Carlo II d’Angiò, professore all’Università di Bologna, alchimista. Alla luce di ciò, formulargli un’accusa di eresia non fu difficile. Basti ricordare che Cecco, con i suoi scritti, poteva indurre a pensare che l’agire di Cristo in terra fosse dovuto all’influenza degli astri e non al fatto che fosse il Figlio di Dio. Sul titolo, possiamo dire che con il termine Acerba, riduzione del titolo completo di Acerba etas, «acerba vita», l’autore intendesse riferirsi alle questioni inerenti la vita mondana, acerba rispetto a quella matura, raggiungibile solo dopo la morte. Il libro fu pubblicato per la prima volta a Brescia nel 1473 per i tipi di Tommaso Ferrando. Ebbe più di cento edizioni fino al 1581, anno della Controriforma e inizio dell’oblìo dell’opera che non venne più ristampata fino al 1820.
Nell’Acerba è racchiuso un insegnamento rispettoso della verità della scienza del tempo che l’autore, semplificandola, attinge non soltanto dalle idee filosofiche e scientifiche di Aristotele o Tommaso d’Aquino, ma anche attraverso lo studio e la conoscenza del pensiero dei pensatori arabi dell’epoca. Una grande esposizione che abbraccia l’ordine dei cieli, della terra, delle eclissi, dei fenomeni atmosferici, dell’anima, delle virtù, della fortuna. Egli si scaglia contro la poesia fatta di favole e il suo bersaglio preferito è la Commedia di Dante, che è vista da Cecco come la negazione della «scienza vera». Dante viene accusato di nascondere la verità tra i veli dell’allegoria, nelle favole appunto. Per questo, Gianfranco Contini, considerò L’Acerba una vera e propria «anti-Commedia». Se ne ha un fulgido esempio in questi versi tratti dal libro IV, cap. XII dell’opera:

“Qui  non se canta al modo de le rane;
Qui non se canta al modo del poeta,
Che finge, imaginando, cose vane.
Ma qui resplende e luce onne natura,
Che a chi intende fa la mente lieta.
Qui non se gira per la selva obscura;

Qui non veggio Paulo né Francesca;
De li Manfredi non veggio Alberigo,
Che diè l’amari fructi ne la dolce esca;
Del Mastin vecchio e novo da Verucchio,
Che fece de Montagna, qui non dico,
Né de’ Franceschi lo sanguigno mucchio.

Non veggio el Conte che, per ira et asto,
Ten forte l’arcevescovo Rugero,
Prendendo del so ceffo el fero pasto.
Non veggio qui squadrar a Dio le fiche,
Lasso le ciance e torno su nel vero,
Le fabule me furon sempre nimiche.

El nostro fine è de vedere Osanna.
Per nostra sancta fede a Lui se sale,
E senza fede l’opera se danna.
Al sancto regno de l’eterna pace
Convence de salire per le tre scale,
Ove l’umana salute non tace,
A ciò ch’io veggia con l’alme divine,
El sommo Bene de l’eterna fine.“

Il poema rimase incompiuto. La parte preponderante risulta scritta a Firenze alla corte del Duca di Calabria. Gli ultimi capitoli, invece, furono scritti in carcere dal 17 luglio al 15 settembre (il 16 venne ‘giustiziato’). Dell’ultimo libro rimangono poco più di cento versi… le fiamme interruppero l’opera così come la sua vita.
Fra le opere di Cecco d’Ascoli, oltre al più famoso L’Acerba, sono da ricordare il De principiis astrologiae; il De eccentricis et epicyclis, probabilmente il testo di una lezione di astronomia tenuta a Bologna nel 1324; i Commentarii in sphaeram Joannis de Sacrobosco. Quest’ultimo, come già accennato, per alcuni concetti in esso contenuti, relativi ai demoni e a certi incantesimi, fu addotto in giudizio come prova a suo carico al processo che subì a Firenze.



Giovanni Abbate
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)