Marxismo e letteratura: il giovane Romano Luperini

Nel 2010 Romano Luperini ha lasciato l’università per raggiunti limiti di età; i suoi amici e i suoi allievi gli hanno dedicato un grosso volume curato da uno dei suoi più stretti collaboratori, Pietro Cataldi (Per Romano Luperini, Palumbo, Palermo 2010), con saggi dedicati a momenti della sua lunga attività politica e letteraria e a vari autori della letteratura italiana su cui lui ha esercitato la sua attività di studioso, trascurando però quasi del tutto la sua fase giovanile, su cui si sofferma solo Giuseppe Corlito nel suo saggio su «Nuovo impegno» e la questione degli intellettuali. Il libro contiene anche una bibliografia molto utile e abbastanza esaustiva. Quindi, questa mi è parsa l’occasione giusta per effettuare un bilancio della sua prima attività di politico e di studioso letterario completamente trascurata dalla critica.
Nato a Lucca nel 1940, Romano Luperini compì la sua formazione tra la metà degli anni Cinquanta e la prima metà del decennio successivo, tra boom economico, avvento del centro-sinistra, della società di massa e della coesistenza pacifica, cioè in un periodo in cui incominciavano a nascere i primi fermenti del rinnovamento politico e culturale da cui nacquero le culture della nuova sinistra, il marxismo critico e il ’68.
Padre maestro elementare, partigiano in Jugoslavia e di fede socialista, e madre casalinga, Luperini frequentò il Ginnasio a Pontedera e il Liceo classico a Pisa, viaggiando in treno dalla cittadina della Piaggio dove risiedeva con la famiglia. Il suo esordio risale alla fine degli anni Cinquanta. Infatti, nell’estate del 1959 con alcuni compagni di scuola fondò il giornalino «Voci di giovani» e cercò di promuovere la rinascita del Circolo culturale giovanile fondato da Giancarlo Ferretti che da qualche anno si era trasferito a Milano.  Proprio in quel periodo conobbe il poeta Gianfranco Ciabatti con cui si legò da profonda amicizia. Nello stesso anno si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa. I giovani di Pontedera promossero varie iniziative politiche e culturali: dibattiti, proiezioni di film e inchieste sociali ed entrarono in contatto con Roberto Roversi, Paolo Volponi e il gruppo bolognese di «Officina». Luperini mosse così i primi passi nel campo dell’attività culturale: scrisse di politica, di questioni sociali e di letteratura e già i suoi primi tentativi giornalistici denotano in lui un certo grado di spregiudicatezza e di volontà di cambiamento. Tra l’altro, un’inchiesta sulle organizzazioni neofasciste di Pisa e provincia, pubblicata sulla rivista «La voce dei maestri», fondata e pubblicata dal padre, allora sindacalista della scuola, procurò a Romano minacce di morte. Alla fine degli anni Cinquanta collaborò anche alla rivista «Il Paradosso» e alla fiorentina «Quaderni della crisi», d’indirizzo federalista ed europeista cui Luperini per un certo periodo si avvicina. All’università conobbe Luigi Russo e frequentò le sue lezioni, accarezzando l’idea di preparare con lui la tesi su Giovanni Verga. In seguito alla sua morte egli familiarizzò con Silvio Guarnieri che venne chiamato all’Università di Pisa per insegnare Letteratura italiana moderna e contemporanea proprio dal Russo. Fu un incontro decisivo. Su consiglio del Guarnieri compì infatti le prime letture fondamentali per la sua formazione culturale e politica: Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, Mimesis di Auerbach (che contribuirono a rafforzare la sua vocazione alla critica letteraria e a indirizzarla in senso materialistico) e le prime opere di Marx ed Engels.

«Nel grigiore culturale dell’ambiente», scriverà più tardi Luperini, «che si accentuò dopo la morte di Russo, la semplice presenza di una disciplina più attuale e meno accademica bastò ad interessare i giovani più svegli e intraprendenti. Guarnieri, poi, aveva, ai miei occhi due qualità che mi attiravano: si proclamava marxista in un ambiente che aveva in forte sospetto il marxismo, e aveva una notevole spregiudicatezza intellettuale, che lo induceva a dare giudizi drasticamente negativi su alcuni degli scrittori che pure allora andavano per la maggiore (come Cassola, Bassani, Tomasi di Lampedusa, Moravia),  ai quali contrapponeva i “suoi” autori, (che poi, a vero dire, sono in effetti i maggiori del secolo): Palazzeschi, Montale, Svevo, Gadda. In realtà, il suo marxismo era una forma di storicismo e di moralismo intransigente, e tuttavia bastava a distinguerlo, a renderlo vicino al nostro ingenuo radicalismo» (Minima personalia, in «Belfagor», n. 2, marzo 1990, p. 207).

Infatti, Guarnieri fu per un certo periodo per Luperini e per molti studenti un maestro e un amico, un fondamentale punto di riferimento, i cui stimoli lo indussero ad allontanarlo dalle generiche simpatie per il PSI e a farlo misurare con la politica culturale del PCI. Grazie al suo interessamento Luperini collaborò a «Il Contemporaneo» su cui recensì La vita agra di Luciano Bianciardi e Il venerabile Orango di Antonielli. Tra il 1960 e il 1963 egli diresse anche il supplemento letterario domenicale de «Il corriere di Lodi» (intitolato «La voce dell’Adda»), un incarico ricevuto per l’interessamento del direttore di «Quaderni di crisi», Gianfranco Draghi. Durante l’ultimo anno di università conobbe Franco Petroni, che insieme a Gianfranco Ciabatti divenne l’amico di una vita intera. Avverso al centro-sinistra, cominciò a seguire l’attività delle riviste del marxismo critico: «Quaderni rossi», «Rendiconti», «Quaderni piacentini», «Giovane critica» e «Classe operaia» che avevano iniziato a gettare le basi di una nuova cultura e di un nuovo pensiero marxista. Nel febbraio del 1964 si laureò, appunto, con Silvio Guarnieri con una tesi intitolata Fra romantici e decadenti: il verismo e la testimonianza di Giovanni Verga, poi rielaborata e pubblicata nel 1968. Intanto da qualche mese aveva iniziato ad insegnare. Il 21 agosto, giorno dei funerali di Togliatti, lui e Ciabatti furono invitati da Guarnieri a una tavolata in Versilia dove conobbero Franco Fortini, ricevendone una forte impressione e con cui iniziarono un intenso confronto che durerà sino alla morte del poeta fiorentino. Questo avvenimento rappresentò una vera e propria svolta nella loro vita, perché tramite Fortini ebbero la possibilità di entrare in contatto con un retroterra teorico e culturale di straordinaria importanza.  In questo modo ebbe inizio per Luperini e i suoi amici un periodo di incontri e di letture importanti e decisive, di appassionate discussioni e di fondamentali esperienze culturali e politiche. Proprio a metà degli anni sessanta uscirono quattro libri che influenzarono profondamente la formazione di Luperini e dei suoi amici: Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa, Classicismo e illuminismo nell’ottocento italiano di Sebastiano Timpanaro, Verifica dei poteri e Profezie e realtà del nostro secolo di Franco Fortini, letti e discussi in gruppo, molto importanti per quella generazione di intellettuali marxisti, che contribuirono ad avviare una nuova fase di ricerche, a rinnovare profondamente la cultura marxista italiana e gli strumenti della critica letteraria sulla base di una visione antistoricistica della storia, di un nuovo rapporto dialettico tra teoria e prassi, tra politica e cultura, tra intellettuali e società. Alla fine del 1965 Luperini, Ciabatti e Petroni fondarono la rivista «Nuovo impegno» che diventerà ben presto uno dei periodici e dei laboratori politico-culturali più importanti della Nuova sinistra. Come ha scritto G. Borghello

«C’è ricorrente nei primi saggi della rivista pisana il senso di un punto zero da cui partire, la netta sensazione che una stagione (storica e ideologica) è finita, che è necessario confrontarsi con una realtà politica e culturale nuova, diversa, più complessa […] rispetto all’immediato dopoguerra e agli anni cinquanta, […] tanto che le vecchie certezze e i tradizionali canoni di interpretazione appaiono di giorno in giorno sempre meno in grado di comprendere e spiegare le nuove trasformazioni» (Id., Linea rossa. Intellettuali, letteratura e lotta di classe 1965-1975, Marsilio, Venezia 1982, pp. 10-11).

Per cui alla necessità e all’esigenza di mettere tutto in discussione viene coniugata la ricerca di strumenti nuovi di analisi e di interpretazione della realtà, di una cultura antagonista e di un marxismo che recuperi la prospettiva rivoluzionaria, in netta contrapposizione alla visione evoluzionistica e storicistica della storia che è tipica del marxismo ufficiale, un nuovo rapporto fra letteratura e politica. È quindi arrivato «il momento di recuperare le autentiche esigenze del ’45, di preparare una nuova letteratura di opposizione» (R. Luperini, Dopo la neoavanguardia, in «Nuovo impegno», n. 1-2, 1965, pp. 36-37).
Con la rivista «Nuovo impegno» Luperini e i suoi amici s’inserirono subito nel dibattito letterario e politico di quel periodo, contrassegnato da un grande spirito di rinnovamento ideale e politico. Ciò che ispira sin dall’inizio la loro attività è una volontà di rottura culturale e politica. Ciò nasceva dalla consapevolezza che la cultura della vecchia sinistra era ormai integrata nel sistema e che era necessario costruire una nuova cultura rivoluzionaria e una nuova teoria marxista, assegnare all’intellettuale radicale una nuova funzione. In effetti, senza voler sminuire l’importanza del suo apprendistato, il periodo più importante della sua attività intellettuale iniziò proprio con la fondazione di questa rivista. Intanto, Luperini aveva iniziato a collaborare alla rivista veneziana «La città», diretta da Marcello Pirro – su cui ha pubblicato una serie di saggi su Vittorio Sereni, la rivista «La Voce» di Prezzolini e Jahier – grazie al quale conobbe il pittore Vespignani e Leonardo Sciascia. Di quel periodo è anche la fondamentale lettura di opere di Lukács, Della Volpe, Brecht, Adorno, Benjamin, Marcuse e Gramsci che contribuiranno ad orientarlo teoricamente e politicamente. Nel 1965 si sposò e si iscrisse al PCI, anche se in precedenza aveva votato PSI, senza però grande convinzione. In quel periodo conobbe a Pisa e frequentò altri due intellettuali di eccezione: Luciano Della Mea e Sebastiano Timpanaro. Il primo era rientrato da Milano nel ’62, dopo aver maturato una serie di esperienze al fianco di Franco Fortini, Gianni Bosio e Raniero Panzieri; il secondo di lì a poco inizierà a collaborare ai «Quaderni Piacentini» con alcuni dei suoi saggi sul materialismo che susciteranno un vasto interesse. Un’altra conoscenza importante di quel periodo fu quella con Ferruccio Rossi Landi, che lo invitò a collaborare alla sua rivista «Ideologie». A partire dall’inizio del 1966 Luciano Della Mea entrò nella redazione di «Nuovo impegno» (n. 4-5, 1966) che nel biennio successivo, sotto la spinta del nuovo clima politico internazionale e delle lotte studentesche e operaie, abbandonò gradualmente gli interessi letterari trasformandosi in periodico teorico-politico. Così per una serie di fortuite coincidenze Pisa divenne nel corso degli anni Sessanta uno dei centri più importanti del rinnovamento politico e culturale italiano.
Il gruppo di «Nuovo impegno» seguì con sempre maggiore attenzione l’evolversi della situazione politica nazionale e internazionale e con il n. 4-5 (luglio-ottobre 1966) lanciò l’Inchiesta sui gruppi minoritari della sinistra marxista, con l’ipotesi di costruire una piattaforma unitaria e dei momenti di coordinamento e di collaborazione fra i vari gruppi della Nuova sinistra italiana. Per vari motivi il progetto di Luperini e dei suoi amici non raggiunse gli esiti sperati, ma esso rivestì una particolare importanza perché in questa maniera loro ebbero la possibilità di entrare in contatto e di confrontarsi con le altre riviste e con vari gruppi del neomarxismo. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta Luperini ha via via iniziato a collaborare a «Giovane critica», «Ideologie», «Che fare», «Problemi», «Belfagor» e «Rendiconti». In occasione di un convegno nazionale dei Rettori italiani, l’8 febbraio del 1967 a Pisa ci fu l’occupazione della Sapienza da parte degli studenti, da cui nacque la stesura delle famose «Tesi della Sapienza», scritte da un gruppo di studenti coordinato dal giovane filosofo Gian Mario Cazzaniga, di cui facevano parte Vittorio Campione e Umberto Carpi. Fu una delle prime importanti anticipazioni del sessantotto italiano che scoppiò di lì a pochi mesi. E proprio a causa della sua partecipazione al movimento studentesco e della sua costante polemica nei confronti del Pci e della sua politica culturale, nel 1967 Luperini fu costretto a dimettersi da quel partito, mentre Franco Petroni ne fu espulso. Altri componenti del gruppo scelsero di allontanarsi volontariamente dai partiti di appartenenza. All’inizio del 1967 vennero fondati da Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga il giornale e il gruppo del Potere Operaio toscano (da non confondere con il gruppo di Potere operaio fondato da Antonio Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone), sulla base della parola d’ordine «operai e studenti uniti nella lotta», con Luciano Della Mea direttore responsabile. «La nuova esperienza politica da Massa e da Pisa si allargò rapidamente, perché incalzante era il no internazionale delle nuove generazioni agli assetti di vita codificati, alle ingiustizie sociali, alle discriminazioni soprattutto razziali, alle prepotenze militari e poliziesche […]» (L. Della Mea, Introduzione a Adriano Sofri, il 68 e il Potere operaio pisano, a c. di Roberto Massari, Massari editore, Bolsena (VT) 1998). La nuova generazione di giovani e i gruppi di militanti della nuova sinistra, ormai in netta contrapposizione alla sinistra storica, stavano mettendo in atto un nuovo modo di fare politica, di concepire la militanza e la pratica sociale sotto l’influenza del nuovo clima politico nazionale e internazionale, della rivoluzione culturale cinese e del pensiero di Mao e di Che Guevara, della lotta antimperialista in Vietnam, in America latina e nei paesi del cosiddetto «terzo mondo».  Svanita ormai l’illusione che una politica nuova potesse venir fuori dalle organizzazioni tradizionali della sinistra, anche Romano Luperini e la redazione di «Nuovo impegno» parteciparono in blocco e criticamente all’attività di Potere Operaio, che si stava allargando a macchia d’olio espandendosi in varie città della Toscana: Livorno, Pistoia, Piombino, Lucca, Firenze, Grosseto e Siena. Seguirono mesi di crescente mobilitazione politica e l’università di Pisa divenne uno dei principali centri della contestazione che innescò un processo di radicali cambiamenti. E difatti, con il 1968 ritornò all’ordine del giorno il tema della rivoluzione comunista. Fu un momento veramente straordinario, di rottura con il passato e con la generazione dei padri: tutto venne messo in discussione, non solo l’autoritarismo accademico e l’istituzione scolastica e universitaria, ma anche il potere delle istituzioni e dello stato, i rapporti di classe, le vecchie gerarchie e i valori consolidati. «La nuova rivoluzione doveva andare più in là, cambiare il mondo come il padre e la sua generazione non erano riusciti a fare» (Romano Luperini, L’uso della vita. 1968, Transeuropa, Massa 2013, p. 32). Ciò che animava la ribellione di quei giovani era infatti la fede in un comunismo diverso da quello staliniano e togliattiano, nel quadro di una rivoluzione planetaria che stava emergendo in maniera dirompente. Per alcuni mesi quel sogno sembrava tradursi in realtà mettendo in moto un’onda che stava travolgendo il vecchio sistema e modificando radicalmente i rapporti sociali e il legame tra i sessi, la mentalità collettiva. «Tutto si trasformava, in pochi giorni la gente cambiava, cambiava con una velocità sorprendente, pronunciava nomi nuovi fino a poco tempo prima sconosciuti...» (Ibidem). Immersa nel vivo delle lotte sociali di quei mesi la redazione di «Nuovo impegno» scrisse un editoriale che è utile citare per meglio comprendere quel particolare momento politico e la portata della contestazione studentesca:

«Le ragioni oggettive della vitalità di queste lotte risiedono nella contraddizione tra le strutture arcaiche e feudali dell’università e della scuola in generale e le stesse strutture capitalistiche della società, e nel carattere di massa, e non più di élite, che la scuola va assumendo, nonostante la massiccia selezione classista. […] Al sistema burocratico e totalmente inefficiente degli organismi rappresentativi viene sostituito il metodo assembleare. L’assemblea, organo collettivo di lavoro, assume tutto il potere escludendo ogni forma di delega: con il risultato, non solo della maggiore efficienza e della assoluta democraticità, ma della rapidissima presa di coscienza da parte di tutti i partecipanti dei problemi comuni, della formazione di una volontà politica non sottoposta ai condizionamenti e alle remore delle organizzazioni politiche tradizionali. […] Gli studenti lottano contro l’autoritarismo accademico, contro il potere cattedratico; lottano per il diritto allo studio e per l’autogestione dell’università; con la consapevolezza però che il prepotere delle autorità accademiche non è che un aspetto del prepotere capitalistico, e che il diritto allo studio esteso a tutti, il controllo degli studenti sulla propria formazione, l’autogestione dell’università resteranno dei miti finché non verranno cambiate le strutture sociali […]» (Contro la scuola dei padroni, Editoriale, in «Nuovo impegno», n. 9-10, agosto 1967-gennaio 1968, pp. 2-3).

Dunque, con questa consapevolezza, il movimento studentesco aveva ormai assunto una valenza rivoluzionaria volta al radicale cambiamento della società capitalistica. L’esplosione della contestazione non colse quindi di sorpresa Luperini e il gruppo della rivista pisana. Anzi, bisogna dire che con la loro attività essi avevano contribuito, insieme agli altri gruppi e alle altre riviste della Nuova sinistra, a prepararne il terreno. In poco tempo si creò un clima di grande tensione politica, di intensa passione ideale e di permanente mobilitazione e Luperini partecipò attivamente agli avvenimenti e divenne uno dei maggiori protagonisti del ’68 pisano.  Il 15 marzo di quell’anno, al ritorno da Roma, dove si era recato per partecipare alla prova finale del concorso a cattedra, egli prese parte all’occupazione della stazione di Pisa e di conseguenza venne arrestato. L’episodio causò la rottura con Silvio Guarnieri, legato rigidamente ancora al Pci, e col padre che lo accusò di velleitarismo e di voler «giocare alla rivoluzione» (Minima personalia, op. cit.). Luperini rimase in carcere tre mesi, durante i quali concluse la stesura del libro Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, una rielaborazione della sua tesi di laurea, che contribuì a gettare le basi della nuova critica letteraria marxista e di un nuovo punto di vista su Verga. Anche se ancora non lo conosceva, egli inviò il dattiloscritto a Giuseppe Petronio, che pur con qualche riserva lo fece pubblicare dalla casa editrice Liviana di Padova. All’inizio del nuovo anno scolastico egli venne assegnato al Liceo classico di San Miniato, ma a causa dei suoi guai con la giustizia era stato sospeso per due anni dall’insegnamento. Nel mese di settembre del ’68 all’interno di Potere operaio toscano si svolse il dibattito sull’organizzazione: le relazioni di Luciano Della Mea e di Adriano Sofri e gli interventi di Romano Luperini e di Lia Grande vennero pubblicati sul n. 20 della rivista catanese «Giovane critica» (fondata e diretta da Giampiero Mughini) ed ebbero una risonanza internazionale. In sostanza, mentre Sofri proponeva un modello di partito di matrice luxemburghiana, Della Mea e Luperini, pur con alcune differenze, proponevano invece la costruzione di un tipo di organizzazione che tenesse sì conto delle indicazioni leniniste, ma anche delle sollecitazioni provenienti dalla rivoluzione culturale cinese e dal pensiero di Mao (in sostanza Lenin + Mao) e del grado di consapevolezza espresso dalle lotte di massa degli ultimi anni. Così in autunno il fronte del movimento incominciò a dividersi e nei mesi successivi nacquero i primi gruppi extraparlamentari. Le divergenze nascevano appunto sul modello di organizzazione da creare dopo l’ondata di lotte del ’68 e del maggio francese. Così all’interno di Potere operaio toscano sorsero aspre polemiche che provocarono la rottura di amicizie e di rapporti di collaborazione che duravano da anni. Di conseguenza le strade dei protagonisti del ’68 pisano si divisero: Sofri fondò Lotta continua, Gian Mario Cazzaniga e Vittorio Campione il «Centro K. Marx», mentre Luperini – che non condivideva né la posizione di Sofri, da lui giudicata troppo avventurista e spontaneista, e né il leninismo ortodosso e dogmatico di Cazzaniga, – insieme a Luciano della Mea, a Franco Petroni, a Gianfranco Ciabatti e ad altri esponenti di Potere operaio toscano e della contestazione – diede vita alla Lega dei Comunisti, una piccola organizzazione di matrice marxista-leninista molto attiva a Pisa e in altre città della Toscana. Luciano della Mea, che inizialmente aveva aderito alla Lega, dopo qualche mese abbandonò questa organizzazione e per alcuni anni partecipò alle vicende di Lotta continua. Fra Luperini e Della Mea si arrivò così a una rottura «dolorosa». A partire dal n. 17-18 (agosto 1969-gennaio 1970) «Nuovo impegno» da rivista indipendente fu trasformata in organo indiretto della Lega dei Comunisti, con l’intenzione però di avviare un dibattito e un confronto fra le varie componenti della sinistra rivoluzionaria. Dopo aver rifiutato, su invito di Petronio, per ben due volte questa opportunità, Luperini nel 1971 superò l’esame per la libera docenza e accettò l’incarico presso l’Università di Siena della cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea. Si presentò lo stesso giorno di Franco Fortini che aveva ricevuto l’incarico di insegnare Storia della critica letteraria.

«Iniziammo la nostra avventura universitaria contemporaneamente […], un po’ spauriti ci eravamo dati appuntamento in precedenza, in modo da andare insieme alla Facoltà di Lettere e da aiutarci l’un l’altro a superare l’impaccio di un nuovo ambiente e di un nuovo lavoro (anche Fortini veniva dalla media superiore)» (Minima personalia, cit., pp. 214-215).

Assorbito sempre di più dall’impegno politico, Luperini avvertiva nei confronti del mondo accademico una certa estraneità, ma svolse il suo ruolo di docente universitario con rigore e serietà, sforzandosi di coniugare l’attività didattica e di ricerca con la pratica sociale e politica.
La storia politica italiana della prima metà degli anni Settanta fu, tra l’altro, segnata dalla presenza dei gruppi della sinistra extraparlamentare, caratterizzata da dogmatismi, ideologismi, divisioni e contrapposizioni, ma che, pur con molti limiti, contribuirono senza dubbio al rinnovamento della società italiana. Luperini partecipò intensamente alle vicende politiche di quel periodo, e i suoi saggi e i suoi libri, legati indissolubilmente all’impegno politico nella Lega, risentono senza dubbio del clima politico del tempo, da lui considerato in seguito con un certo distacco critico. Furono infatti anni

«di infinite riunioni, di meschine lotte fra gruppi, di letture scolastiche di Lenin, Troztskij, Stalin, Luxemburg, Mao-Tse-Tung, Gramsci. Conobbi Ugo Rescigno, allora dirigente a Roma di Unità operaia, e fondemmo le nostre due organizzazioni. […] Diventammo amici e cercammo di fare il possibile per far sì che il nostro gruppo non seguisse le derive praticistiche e avventuriste di altri» (Minima personalia, cit., p. 212). 

Nel 1973 Luperini conobbe anche Carlo Muscetta, allora docente presso l’Università di Catania, che lo invitò a collaborare al progetto della Letteratura italiana da lui curata per l’editore Laterza.
Nel 1975-76 la Lega dei comunisti si fuse con Avanguardia operaia e il PdUP; da quella unione nacque il cartello elettorale denominato «Democrazia proletaria», che dopo aver ottenuto alle elezioni amministrative del 1975 un risultato incoraggiante, alle elezioni politiche dell’anno seguente subì un’inattesa e dolorosa sconfitta. Luperini, che era stato candidato nella Circoscrizione Toscana di Nord-Ovest, non venne eletto. Tuttavia, da quel momento iniziò per lui l’impegno di dirigente politico, anche se scelse di proseguire nell’insegnamento universitario rifiutando l’incarico di funzionario di partito. Dal 1977 partecipò ai lavori della Costituente di fondazione di Democrazia proletaria, la nuova organizzazione politica della sinistra alternativa nata dalla fusione di vari spezzoni dei gruppi della sinistra extraparlamentare nella primavera del 1978, nei giorni del sequestro Moro. Nella seconda metà degli anni Settanta l’Italia attraversò uno dei periodi più bui della sua storia, fra recrudescenza del fenomeno terroristico, crisi politica, degrado morale, crisi della militanza e ritorno al privato, ecc. ecc. Luperini si dedicò con grande passione all’impegno politico e dalla nascita di DP visse prevalentemente a Roma.

«Per cinque anni ho letto e studiato quasi soltanto in treno: partivo da Pisa il lunedì mattina per l’Università di Siena, dove rimanevo sino al mercoledì, quando ripartivo per Roma. Il sabato sera o la domenica mattina tornavo a Pisa. Così ogni settimana. Ma spesso il venerdì o il sabato dovevo andare a tenere un comizio o a fare un’assemblea, magari in Veneto o in Sicilia, ed erano ancora ore di treno o, più raramente, di aereo. Ero diventato un dirigente politico. Ho fatto parte ininterrottamente della segreteria del partito e, per un certo periodo, anche della direzione del «Quotidiano dei lavoratori». Mi è accaduto persino di partecipare alle ridicole passerelle delle televisive Tribune elettorali. Lavoravo con compagni generosi, profondamente onesti, ma fra loro eterogenei per formazione politica e soprattutto incapaci – come d’altronde anch’io – di superare la logica del piccolo gruppo. Fra noi solo Vittorio Foa aveva la statura – l’intelligenza politica, il rigore dell’analisi e la flessibilità pragmatica – del vero dirigente; e a lui mi legai anche affettivamente, come spesso mi succede con figure che finiscono con l’esercitare su di me un fascino paterno. Ma, in quell’ambiente di giovani, così diversi da lui, Foa non resse a lungo, e [nel 1980] abbandonò DP» (Minima personalia, cit., p. 213).

Alle elezioni politiche del 1979 la sinistra extraparlamentare si presentò con il cartello Nuova Sinistra Unita; Luperini venne candidato, come capolista, alla circoscrizione di Catania, ma neppure questa volta venne eletto. Fu una vera e propria debacle, «un fallimento su tutta la linea […]. Un così grande dispendio di energie […], dieci anni bruciati, per un pugno di mosche» (Ibidem). Dalle parole di Luperini traspare una profonda amarezza, per la fine di un’utopia, di un sogno di cambiamento radicale. Egli fu costretto a un doloroso bilancio.

«Ricordo di aver vissuto il periodo di impegno politico a Roma come una dura necessità. Sono stati cinque anni grigi, senza gioia. Solo lavoro, stento, fatica. Eppure, qualcosa continua a legarmi a quell’ambiente, a quelle immagini di Roma, a quei volti di compagni. E, ancora oggi, non posso incontrare Emilio Molinari o Edo Ronchi o Luigi Vinci o Giovanni Russo Spena senza commuovermi. In anni impossibili mentre tutto ci crollava intorno, abbiamo cercato di difendere – quasi da soli – la speranza di un mondo diverso» (Minima personalia, cit., p. 214).

Un sogno era finito per sempre, in un mondo che stava crollando. Alla profonda crisi politica si aggiunse una crisi personale, dovuta anche al fallimento del suo primo matrimonio; una profonda depressione che lo costrinse a ricorrere alla cura psicoanalitica a all’aiuto di Giovanni Jervis. L’incontro con la psicoanalisi, avvenuto già qualche anno prima in seguito alla lettura dei libri di Francesco Orlando, lo aiutò a uscire fuori da quel tunnel, a superare quel momento particolarmente difficile, a cambiare il suo modo di guardare alla vita e al mondo e di fare critica letteraria. Nel 1980 Luperini vinse inaspettatamente il concorso a cattedra di ordinario e dovette trasferirsi all’università di Lecce. Da quel momento decise di abbandonare l’impegno politico e di dedicarsi interamente all’attività di insegnamento e di ricerca. Quella data infatti segna un vero e proprio cambio di rotta, il passaggio alla seconda fase della sua vita e della sua attività, che coincise con la pubblicazione de Il Novecento, che lo pose di nuovo al centro di un vasto dibattito politico e letterario.


Marxismo e intellettuali

Come avverte lo stesso Luperini, Marxismo e intellettuali raccoglie articoli e saggi di «lotta teorica e politica, usciti su riviste militanti, interventi quasi sempre polemici, quasi sempre volti a uno scopo immediatamente politico, da un lato di demistificazione delle ideologie culturali borghesi e revisioniste, dall’altro di indicazione di lotta in campo letterario, teorico e politico». (Presentazione, p. 9). L’arco di tempo è quello che va dal 1966 al 1974, in cui nasce, si sviluppa e si consuma la parabola della Nuova sinistra e poi della sinistra rivoluzionaria, dall’ascesa fino ai primi segnali del suo declino. Quasi in mezzo, la fatidica data del 1968 che tanto ha significato per la generazione di intellettuali di cui fa parte Romano Luperini, che è stato uno dei maggiori protagonisti di quel movimento politico e del dibattito letterario e politico di quel periodo, che ha portato alla conquista di una nuova visione del marxismo e della storia, di un nuovo rapporto tra teoria e prassi rivoluzionaria, tra politica e cultura e tra intellettuali e società. Il discorso di Luperini, quindi, riflette un determinato clima politico e ideale ed è «rivolto a un pubblico di massa ma non indifferenziato (quello dei militanti della sinistra rivoluzionaria) e persegue un modulo principalmente espositivo e di polemica diretta» (Ibidem). Da qui i limiti ma anche i pregi di questi scritti calati nella cronaca politica di quegli anni ma che intendono rappresentare un modesto contributo alla storia di una generazione di intellettuali militanti che hanno offerto un importante contributo al rinnovamento della cultura e della società del nostro paese in una stagione segnata da aspre conflittualità politiche e sociali. E in effetti tutto il discorso di Luperini è alimentato dalla certezza dell’avverarsi di uno sbocco rivoluzionario, di un radicale rivolgimento della società italiana nel quadro di una realtà internazionale contrassegnata da eventi collettivi di straordinaria portata politica, economica e sociale. Un’ipotesi questa, che ad un certo punto è diventata una semplice illusione. Da questo punto di vista se da una parte il discorso di Luperini può essere tacciato di «estremismo» e di «massimalismo», dall’altro lato bisogna considerare che la sua carica polemica è sempre ispirata ad una intensa passione politica e ideale condivisa da un’intera generazione (e non da un’esigua minoranza, come si tende ad affermare adesso) di giovani (studenti, insegnanti, operai, impiegati, tecnici, disoccupati, ecc) che, in un modo o nell’altro, hanno sacrificato le loro energie e sognato di cambiare il mondo e la loro condizione esistenziale e sociale. Sbagliate o giuste che fossero le sue previsioni e le sue motivazioni, di questo dato fondamentale bisogna tener conto per valutare, giudicare il suo operato e i suoi scritti, che assunsero, oltretutto, una valenza utopica, uno spirito rivoluzionario. Infatti, la critica e la demistificazione delle ideologie borghesi (fenomenologia, neopositivismo, strutturalismo, ecc.) e revisioniste (storicismo crocio-gramsciano e nazional-popolare) era rivolto principalmente allo scopo di acquisire un punto di vista alternativo al sistema dominante e un metodo critico e un apparato teorico collegato dialetticamente ad una prassi rivoluzionaria volta alla costruzione di una società comunista.  Da ciò si desume che in fondo, secondo Luperini, il compito che deve assumersi l’intellettuale marxista rivoluzionario non è solo quello di contribuire all’opera di chiarificazione e di acquisizione teorica e politica, ma anche quello di partecipare direttamente al processo rivoluzionario, nell’ambito di un particolare contesto sociale, economico e politico in cui l’uomo di cultura è stato interessato da un massiccio processo di massificazione e di proletarizzazione, con un nuovo tipo di impegno, totalmente diverso dal vecchio tipo di engagement degli intellettuali di sinistra nel corso dell’ultimo secolo. Per cui ciò che viene contestato alla sinistra tradizionale e al PCI, in particolare e ai suoi «intellettuali organici» è l’accettazione acritica e passiva della realtà neocapitalistica e del sistema dominante, di perpetuare e di praticare una visione teorica e politica attardata, d’impronta storicistica, riformistica e gradualistica.    
E quindi, attraverso la lettura dei saggi raccolti in Marxismo e intellettuali si ha la possibilità di cogliere, di conoscere e di seguire l’evoluzione teorica e politica di Luperini dalla metà degli anni Sessanta fino ai primi anni Settanta, fortemente influenzata principalmente, oltre che dalle opere di Marx ed Engels, da Lenin, Gramsci, da Benjamin e dalla Scuola di Francoforte e da Fortini e Asor Rosa.
Sostanzialmente il libro è diviso in tre parti: Per una critica delle ideologie letterarie degli anni Sessanta; Note sulla politica culturale della sinistra e sugli intellettuali marxisti del dopoguerra e Marxismo, revisionismo e sinistra rivoluzionaria negli anni Sessanta.
I principali temi affrontati in Marxismo e intellettuali sono: Critica del neocapitalismo, dell’industria culturale e della società di massa; analisi del processo di massificazione e di proletarizzazione dell’intellettuale, Critica dell’avanguardia storica e della neoavanguardia, polemica nei confronti della sinistra storica e della politica culturale del PCI, del populismo postbellico e dello storicismo crocio-gramsciano e l’analisi della politica dei gruppi della Nuova sinistra e poi della sinistra rivoluzionaria.
Entrando di più nei dettagli, Luperini esamina il ventaglio delle posizioni avanzate dai vari rappresentanti del gruppo ’63, criticandole radicalmente, ma riconoscendo a Edoardo Sanguineti una certa consapevolezza teorica e politica. Secondo lui la neoavanguardia ha avuto il merito di aver contribuito alla liquidazione di una tematica populista e resistenziale e di aver messo in crisi una cultura di sinistra attardata su vecchie posizioni, anche se bisogna considerare che l’aggiornamento culturale è avvenuto in maniera acritica e approssimativa. Su questo tema da leggere attentamente è anche il saggio Breve parallelo fra l’avanguardia primonovecentesca italiana e la neoavanguardia degli anni Sessanta.
Passando alla seconda parte del libro, mi pare molto interessante il saggio Salinari e la fine del personaggio positivo in Sciascia, in cui Luperini critica l’interpretazione data da Carlo Salinari, uno degli intellettuali organici del PCI legato alla vecchia cultura marxista, dell’opera dello scrittore siciliano. Secondo lui in A ciascuno il suo lo scrittore siciliano non ha avuto il coraggio o non è riuscito a portare fino in fondo la distruzione del personaggio positivo, tipico della letteratura neorealista. Una svolta viene individuata da Luperini nel dramma L’onorevole, in cui finalmente l’autore siciliano riesce ad assumere un punto di vista «del tutto estraneo rispetto al mondo giudicato» e a superare così i retaggi del populismo post-bellico e della cultura neorealista. Poi nel saggio La critica comunista, l’arte e il punto di vista rivoluzionario, Luperini esamina in maniera polemica il panorama della critica letteraria e artistica legata al PCI e la sua politica culturale. Dopo aver sottolineato le differenze tra i vecchi storicisti (Salinari, Bianchi Bandinelli) e le tendenze aperturiste e aggiornate messe in atto da Rossana Rossanda, da Rago e da Spinella, egli espone il suo punto di vista ponendo in evidenza la necessità di rinnovare profondamente gli strumenti della critica di ispirazione marxista sulla base di un’assunzione di un punto di vista rivoluzionario, alternativo al sistema neocapitalistico e imperialistico. 
Come si è detto, la terza sezione, infine, tratta di questioni politiche inerenti alla cultura e alla storia della Nuova sinistra, al movimento studentesco, all’autunno caldo e alla stagione dei movimenti. Per esempio, nel saggio Da «Potere operaio» a «Lotta continua» Luperini analizza criticamente l’evoluzione di una delle esperienze più incisive, innovative ed entusiasmanti del ’68 italiano, esaminando la posizione dei vari protagonisti nel quadro delle lotte sociali di quel periodo. Infine, un’annotazione veloce sulla stroncatura di Luperini della Storia della Morante, datata 1974 e pubblicata su «Nuovo impegno»; un romanzo che ha suscitato al suo apparire un vivace dibattito. Secondo lo studioso lucchese essa rappresentava un’operazione di puro marketing editoriale, messa in atto con furberia dalla stessa scrittrice e dall’industria editoriale, basata sulla sublimazione della storia e sulla narrativa dei buoni sentimenti. In definitiva, Marxismo e intellettuali è un libro molto importante per capire l’evoluzione teorica e politica di uno dei più importanti intellettuali del neo-marxismo italiano e dei gruppi della nuova sinistra degli anni Sessanta e Settanta.


Per un’analisi materialistica della letteratura: marxismo e letteratura

I tre saggi di Marxismo e letteratura (De Donato, Bari 1972), «nascono da una medesima esigenza di fondo – la critica delle ideologie borghesi e revisionistiche nel campo della critica letteraria e artistica – e vogliono inserirsi in una problematica  teorica e politica, che è stata propria degli anni sessanta: i quali hanno avuto perlomeno il merito, in cultura e in politica, di demitizzare non pochi tabù, ponendo tra l’altro in crisi, o almeno in discussione, spesso attraverso l’introduzione di nuove metodologie (soprattutto lo strutturalismo), non pochi dei tradizionali canoni della critica letteraria nostrana» (Prefazione, pp. 5-6). Quindi con questi saggi Luperini intende inserirsi nel dibattito teorico e politico nato nella Nuova sinistra degli anni Sessanta, sviluppatosi dopo la pubblicazione di Verifica dei poteri di Fortini e Scrittori e popolo di Asor Rosa, e di contribuire al rinnovamento del marxismo e in particolare dei canoni della critica letteraria di tipo materialistico. Essi nascono da uno spirito di rottura innescato a metà degli anni Sessanta dalla lettura delle opere di Lukács, di Korsch e di Benjamin nonché dalla ventata demistificante trasmessa dalla rivoluzione culturale cinese e del nuovo clima antagonista che si era affermato in quel periodo nel mondo. Nel primo saggio Luperini polemizza con Giorgio Barberi Squarotti che fa ruotare il suo discorso intorno a due prese di posizione: 1. «contro lo storicismo, che ha indotto la critica a “una verifica tautologica dell’assioma iniziale dell’incardinamento dell’opera nella storia e nella società»; 2. In favore di una critica basata invece su un’indagine tecnica, interna all’opera e tesa alla «determinazione della struttura specifica del testo» (pp. 17). In questo modo il critico tende a una concezione «separata», pura della critica e della letteratura, «rivendicando per loro un’autonomia o, meglio, una zona di immunità che di fatto all’interno di un sistema totalizzante e onnicomprensivo come quello di una società industriale avanzata non può esistere se non come illusione fondata dalla divisione capitalistica del lavoro, come mistificante contropartita ideologica voluta dalla classe dominante per l’effettiva strumentalizzazione delle ideologie alle leggi di produzione» (p. 23). In sostanza Luperini riconosce allo strutturalismo il merito di aver sgombrato il campo da tanti equivoci creati dallo storicismo, ma al tempo stesso ne critica il punto di vista in quanto «la critica allo storicismo e al marxismo diventa così parte della nuova ideologia del sistema: diventa cioè, tout court, critica alla storia, negazione di una visione globale (storica, non storicistica dei problemi, specializzazione tecnica» (pp. 20-21). Questa concezione specialistica della critica nasce dalla convinzione che occorrono «degli strumenti peculiari di ricerca per una disciplina peculiare», che «la risoluzione dell’indagine critica all’interno dell’opera è resa necessaria dall’esigenza fondamentale di impedire la mercificazione della critica stessa» e che «appunto perché la ricerca avrebbe in tal modo un valore ‘puro’, essa sarebbe “un discorso di scienza”, s’intende ideologicamente neutrale, dato che troverebbe la propria giustificazione solo nel “rigore” con cui quel discorso dovrebbe esser condotto» (pp. 21-22). Secondo Luperini,  «È cioè fuor di dubbio che il punto di partenza debba esser costituito dall’analisi e anche dalla definizione e dalla descrizione degli elementi portanti dell’opera; ma non bisogna per questo dimenticare il rapporto – anche di recente da Goldman lumeggiato – che passa tra “struttura coerente” e “struttura significativa”: se è vero che il senso di un’opera non dipende “da una somma di invenzioni e di ‘trovate’, ma da quello che bisogna pur chiamare un sistema intellettuale di significati”, proprio perché di sistema intellettuale si tratta, il grado di coerenza di un’opera va accertato non solo al livello dei significanti, ma anche a quello del senso o del significato complessivo» (pp. 26-27). Come viene precisato successivamente «Per un marxista studiare un’opera dovrebbe essere attività di conoscenza che, muovendo da un punto di vista estraniato rispetto all’opera e alla tradizione e al sistema in cui essa si colloca, scomponga l’oggetto nelle sue varie componenti e lo ponga a confronto con le basi reali (socio-economica) da cui nasce, non già per un intento partigiano (per enuclearne, per es., gli aspetti progressisti che il proletariato dovrebbe far propri ecc.), bensì per l’esigenza demistificatoria che è alla base del materialismo storico e che costituisce essa stressa, nel suo rigore scientifico, uno strumento per la rivoluzione”. Da ciò discende che il principale “compito del critico marxista non sarà, d’altronde, quello di partecipare a una determinata battaglia delle idee, misurando la “positività” o la “negatività” di un’opera, ma quello di coglierne l’oggettiva funzione nel sistema, di conoscerla insomma globalmente attraverso la demistificazione del suo ruolo oggettivo)» (pp. 28-29). Con la convinzione che «Il significato pieno di un’opera è costituito – piuttosto che dalla sua tesi esteriore o dalla sua esplicita ideologia – dalla sua interna tensione, dalla sua maniera di captare la realtà e di organizzarla formalmente secondo un senso che sarebbe arbitrario dimenticare proprio perché da quella organizzazione determinato» (p. 31). Bisogna in sostanza ricercare la genesi storica di un’opera e sottolineare «che come la ricostruzione delle strutture non possa prescindere dalla verifica storica, le condizioni esterne essendo continuamente presenti nell’organizzazione formale di un testo (i significanti non potendo evidentemente scindersi dal loro significato). Altrimenti si rischia di compromettere proprio quell’assoluto rispetto per il testo di cui si afferma di essere paladini» (p. 41).
Nel secondo saggio Luperini conferma le sue critiche al metodo strutturalista di cui sottolinea in maniera lucida e demistificante la logica tecnicistica e specialistica tutta interna all’oggetto analizzato e alla divisione capitalistica del lavoro. Muovendo «dall’astratta coincidenza fra la struttura dell’oggetto e la struttura stessa dell’atto conoscitivo, […] le attuali ideologie strutturalistiche non possono svilupparsi che a una astrale distanza dalla realtà concreta, tendendo sempre più a ridursi alla tecnica raffinatissima di rituali astratti, ove il privilegio sacerdotale dell’esoterismo e quello scientifico dell’autonomia specialistica sono il dorato corrispettivo della rinuncia alla comprensione critica e, nel contempo, la sicura garanzia dell’integrazione  nei meccanismi neutralizzanti della divisione sociale del lavoro. L’illuminismo – ormai perso il proprio mandato sociale – si ripiega su se medesimo e si contempla, affinando gli strumenti di un’intelligenza sempre più brillante e sterile: all’irrazionale razionalità del sistema corrisponde la irrazionale razionalità dei suoi ideologi. Restando all’interno delle coordinate del sistema, delle sue unidimensionali ideologie, è impossibile comprendere il sistema stesso, i suoi oggetti, la sua tradizione, e allora la logica inevitabilmente si chiude nel cerchio formale della retorica e la razionalità si estenua nel sottile estetismo dell’autocontemplazione» (pp. 79-80). A suo avviso «Oggi conoscere scientificamente la realtà (anche quella letteraria) da un punto di vista marxista significa ancora compiere un’opera di demistificazione, interpretare le esigenze reali di uno sterminato soggetto rivoluzionario. Nella concretezza storica con cui questo si esprime e contesta lo stesso nostro mondo occidentale (i suoi valori ‘universali’), sta la vitalità storica del punto di vista marxista, la sua oggettiva garanzia e la sua stessa possibilità di fare non solo (come lo strutturalismo e le altre ideologie neocapitalistiche) un discorso constatativo, ma alternativo» (pp. 90-91). Per Luperini, l’arte e la letteratura non sono qualcosa di assoluto e di metafisico, e quindi qualcosa di indiscutibile, bensì il risultato di un’attività pratica da analizzare materialisticamente, da demistificare e da rovesciare in prospettiva dell’inveramento della società comunista.
Partendo dalle opere di Marx e di Engels, nel terzo saggio Luperini approfondisce e sistema i principi della critica marxista dell’arte e della letteratura, criticando non solo gli assunti del metodo strutturalista e dello storicismo marxista, ma denunciando anche la posizione riduttiva dei vari Della Volpe e Asor Rosa, nonché quella di Adorno e Marcuse, mentre condivide lo spirito di rottura che emerge dalla filosofia giovanile di Luckács, di Korsch e di Benjamin, di cui cita Le tesi di filosofia della storia. In definitiva per Luperini il critico marxista deve avere la consapevolezza di «che lacrime e di che sangue grondi l’opera d’arte», cioè individuare il suo nocciolo di verità, il suo tasso di coscienza storica.
Per diversi motivi i saggi di Marxismo e letteratura rappresentano uno dei momenti più significativi della riflessione e della ricerca marxista sull’arte e sulla letteratura prodotta da un intellettuale marxista negli anni della contestazione globale, il tentativo più rigoroso prodotto in Italia in quel periodo di precisare i principi di un’analisi materialistica dell’arte e della letteratura.             


Luperini e il ‘caso’ Verga


Dopo aver letto I Malavoglia all’età di 15 anni, Verga diventa l’autore prediletto e quello maggiormente studiato dall’intellettuale lucchese. Pessimismo e verismo nell’opera di Giovanni Verga, pubblicato come si è detto in pieno ’68, attira subito l’attenzione del mondo culturale italiano diventando motivo di discussione e di polemica. In esso Luperini coniuga il materialismo leopardiano di Sebastiano Timpanaro con la linguistica di Ferruccio Rossi Landi. Il libro nasce dalla volontà di fare tabula rasa di tutta la critica verghiana, sia di quella di matrice idealista che di matrice storicista per l’affermazione di un punto di vista nuovo di carattere teorico e politico d’impronta materialistica. Dietro il discorso di Luperini su Verga c’è sì l’influenza del discorso antipopulista di Asor Rosa, ma anche del filone marxista francofortese, con Walter Benjamin in testa, e c’è il discorso di Timpanaro sul pessimismo leopardiano. Infatti, la revisione critica e la riformulazione degli assunti teorici e metodologici del marxismo e degli strumenti di interpretazione dell’opera letteraria effettuata da Luperini in quel periodo trovarono nell’opera di Giovanni Verga un importante banco di prova. L’evoluzione artistica dello scrittore catanese viene studiata e analizzata nelle sue varie tappe e inquadrata nell’ambito della cultura e degli avvenimenti storici e politici del suo tempo, sottolineando il grado di consapevolezza artistica e politica via via raggiunto dallo scrittore siciliano nel corso del tempo. Come afferma a un certo punto Luperini, se «nella storia dell’arte verghiana una svolta decisiva dovessimo individuare, la indicheremmo non in Nedda, bensì […] nelle Rusticane» (p. 70), mentre «Il marito di Elena è il romanzo che meglio riassume tutta la problematica giovanile del Verga, nel momento stesso che la supera e postula nuove direttive di sviluppo» (Ivi, p. 107). Praticamente Luperini mette in discussione tutti gli assunti interpretativi messi in atto dalla critica precedente correggendone le interpretazioni consolidate che lui ritiene errate. Per esempio, mentre il Russo aveva considerato I Malavoglia il culmine dell’arte verghiana, egli invece individua nel Mastro Don Gesualdo il maggiore capolavoro dello scrittore siciliano. Si tratta quindi di un libro che ha rinnovato profondamente il punto di vista critico sull’intera opera verghiana, che ha provocato un serrato dibattito che si è protratto per diversi anni e che sta all’origine del «caso Verga», vero banco di prova della nuova critica marxista.

Id., L’orgoglio e la disperata rassegnazione. Natura e società, maschera e realtà nell’ultimo Verga, Savelli, Roma 1974;
Id., Giovanni Verga, Laterza, Bari 1975;
Id., Intervento, in Il caso Verga, a c. di Alberto Asor Rosa, Palumbo, Palermo 1975;
Id., Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su «Rosso Malpelo», Liviana, Padova 1976; 
Id., Interpretazioni di Verga, Savelli, Roma 1976; 
Id., Giovanni Verga (Saggi 1976-2018), Carocci, Roma 2019.


La resistenza tradita e il caso «Politecnico»

Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra (Edizioni della rivista «Ideologie», Roma 1971) è un libro di polemica politica, nato dall’esigenza di fare severamente i conti, di liquidare una certa politica di matrice comunista nel dopoguerra, l’ideologia dell’engagement degli intellettuali e della ricostruzione. «La resistenza non fu soltanto una guerra democratica di indipendenza nazionale. Certo, lo fu in gran parte; ma la politica antifascista delle alleanze perseguita dal PCI e dalla sinistra socialista sino ad oggi e la puntuale – ad ogni 25 aprile – retorica celebrativa messa in campo dai governi del centro sinistra non possono farci dimenticare né il fenomeno della “radicalizzazione classista” che si sviluppò durante la guerra partigiana né, soprattutto le centinaia di impianti e di fabbriche del Nord occupate militarmente dagli operai con i padroni cacciati dal popolo in armi o scampati in Svizzera. Solo dopo l’avvento al potere di De Gasperi (10 dicembre 1945) comincerà a consolidarsi un definitivo riassetto dell’economia su basi capitalistiche, e solo dopo il ’50 – stroncata dall’azione congiunta della repressione scelbiana e dell’opportunismo del Movimento Operaio organizzato la volontà di potere delle masse – sulla pelle e con la collaborazione degli operai (voluta dai loro stessi dirigenti) prese il via quel grandioso decollo della nostra economia che doveva portare al boom degli anni 1958-1963» (p. 11). Quindi, a essere tradito è stato proprio quello spirito di rottura d’impronta classista e rivoluzionaria innescato dalla Resistenza, e proprio a causa del riformismo e della linea collaborazionista del PCI e della sinistra storica, sulla base di una «prospettiva “unitaria”, “nazionale” “patriottica”», nell’ambito di una concezione democratica («democrazia progressiva»), la quale di fatto conciliava la concreta necessità di essere funzionale alla dipendenza della politica estera di Stalin con l’esigenza di un’autonoma elaborazione nazionale che vedeva la Resistenza e la partecipazione al governo dei partiti operai da un lato come naturale continuazione di una politica risorgimentale di lotta per l’indipendenza dallo straniero e per l’unità nazionale, dall’altro come suo svolgimento in senso progressivo per la collaborazione alla direzione politica di quelle forze popolari che nell’Ottocento ne erano invece rimaste escluse» (p. 25). Infatti, la ricostruzione nazionale venne proprio raggiunta mediante il contributo e la solidarietà di tutte le «forze vive della nazione», e a pagare le conseguenze di questa ristrutturazione capitalistica furono proprio le masse popolari che avevano contribuito attivamente e unitariamente alla ripresa del capitalismo grazie alla politica dei sacrifici e di contenimento imposta dai vertici delle organizzazioni del movimento operaio. E a fare da portavoce di questa linea politica furono tutta la stampa e le riviste della sinistra, compresi quelli che facevano capo al Partito d’Azione che svolsero un ruolo fondamentale di supporto alle forze democratiche. E persino un periodico relativamente indipendente come «Il Politecnico» contribuì a diffondere l’ideologia della ricostruzione. In questa cornice Luperini rilegge il «caso «Politecnico», che rappresenta uno dei momenti chiave e più interessanti del libro. A livello culturale tutte le riviste del dopoguerra partecipano alla battaglia per una nuova cultura, per il rinnovamento della cultura.
È il periodo dell’engagement, dell’impegno morale e civile da parte degli intellettuali che partecipano attivamente con spirito unitario e democratico al processo di rinnovamento e alle lotte delle classi subalterne e che hanno come obiettivo la conquista del potere da parte degli uomini di cultura. In quel particolare contesto il marxismo perde qualsiasi impronta classista e rivoluzionaria e diventa un «fatto meramente culturale fra altri fatti culturali» (Ivi, p. 60), nell’ambito di una cultura moderna e democratica e di una visione della storia di tipo storicistico ed evoluzionistico. L’essenza del marxismo viene così ridotta a una sorta di «storicismo integrale» di cui parla su «Rinascita» anche Natalino Sapegno.  Il principale bersaglio polemico di Luperini è ancora una volta rappresentato dal PCI togliattiano e dalla sinistra storica. Così ritorna in questo libro il mito della «resistenza tradita», dovuta alla partecipazione del PCI alla ricostruzione post-bellica e quindi alla restaurazione politica. Luperini discute del caso «Politecnico» ma il suo discorso non mi sembra del tutto condivisibile. Certo, Vittorini e il suo gruppo risentirono del clima politico e dei limiti del tempo, e non poteva essere altrimenti, ma la rivista rappresentò un generoso tentativo da parte di un gruppo di intellettuali di sinistra di seguire una linea diversa dal marxismo ufficiale. Non a caso il mito della rivista sopravviverà alla sua morte e al periodo straordinario del dopoguerra e alimenterà nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta l’attività dei gruppi e delle riviste del marxismo critico ed eterodosso e la cultura della Nuova sinistra. 


Letteratura e ideologia nel primo Novecento italiano

Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta anche l’età giolittiana e l’esperienza della «Voce», la rivista fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini dal 1908 al 1914, divenne uno dei banchi di prova della nuova critica marxista. Di ciò fanno fede due libri: La classe dei colti di tre allievi di Alberto Asor Rosa, Abbruzzese, Strappini e Micocci (Laterza, Bari 1970) e «La voce». Letteratura e primato degli intellettuali di Umberto Carpi (De Donato, Bari 1973). Anche Luperini partecipa a modo suo a quel dibattito e nel 1973 pubblica Letteratura e ideologia nel primo Novecento italiano (Pacini, Pisa), dedicato al movimento della «Voce» e all’avanguardia del primo Novecento, in cui riprende e completa un discorso avviato nei primi anni Sessanta. Il libro si apre con l’analisi della posizione di Gramsci sull’esperienza della «Voce», di «Lacerba» e dell’avanguardia futurista, per poi ricostruire la storia della rivista fiorentina nell’ambito della cultura del primo Novecento, sottolineando lo spirito di rinnovamento che animava Giuseppe Prezzolini e i principali collaboratori, ma anche i limiti di quella generazione di intellettuali. Nella seconda parte del libro Luperini dedica dei capitoli all’analisi della prosa vociana e ai principali scrittori che parteciparono all’attività della rivista e cioè a Slataper, Jahier, Boine e a Michelstaedter, mentre in appendice inserisce un Breve parallelo tra l’avanguardia primonovecentesca e la neoavanguardia degli anni Sessanta, pubblicato anche in Marxismo e intellettuali. Nella sua indagine lo studioso lucchese cerca di evitare sia la condanna morale e sia l’astratta impostazione ideologica, effettuando un discorso di carattere politico e stilistico, inquadrando la letteratura vociana e futurista nell’ambito dello sviluppo industriale che ha caratterizzato l’età giolittiana. Dal suo discorso emerge una nuova mappa dell’attività culturale e letteraria degli intellettuali del primo Novecento, la riscoperta e la rivalutazione di autori spesso trascurati dalla critica e dai lettori.

Id., Gli esordi del Novecento e l’esperienza della «Voce», Laterza, Bari 1976;
Id., Scipio Slataper, La Nuova Italia (Il Castoro), Firenze 1977;
Id., La crisi degli intellettuali nell’età giolittiana, D’Anna, Messina 1978.


Una nuova storia letteraria del Novecento. Il Novecento di Romano Luperini

Alla fine degli anni Settanta anche per la nuova sinistra è giunto il momento dei bilanci e dei rendiconti critici, magari con la necessità di ripercorrere la storia della cultura e della letteratura del Novecento, seguendo un ordine e un’ottica diversi rispetto agli schemi tradizionali. E lo si fa quando ormai la parabola di una stagione volge al termine. Caduta la certezza di una radicale trasformazione della società contemporanea, la parte più seria della sinistra s’interroga e riflette sulle ragioni che hanno condotto alla situazione di «scacco», in cui la crisi della ragione, del marxismo e del movimento operaio internazionale s’intreccia con la crisi e ristrutturazione del capitalismo. Scritto negli ultimi anni settanta, in un clima sociale e politico di ripiegamento e di riflusso, Il Novecento (Loescher, Torino 1981, 2 voll.) di Romano Luperini nasce proprio da questa profonda esigenza di natura politica, esprimendo in tal modo i segni di una lacerazione soggettiva e collettiva e il risultato davvero singolare di una profonda ricerca di identità, frutto di un grande lavoro di scavo, di analisi e di elaborazione teorica che non ha eguali nel panorama letterario italiano del tempo, nel difficile tentativo di recuperare “un punto di vista alternativo”, di rifondare e di ricostruire una cultura rivoluzionaria, una scienza marxista di opposizione. Nonostante però sia nato in un clima difficile e problematico, questo libro non porta i segni di una frattura rispetto al passato discorso luperiniano, bensì scaturisce dalla volontà di sistemare e di arricchire i risultati di una ricerca ventennale. Da questo punto di vista si può dire che Luperini sia uno dei pochi studiosi marxisti che continuano a lavorare sulla scia del ’68, sviluppandone le più importanti acquisizioni di carattere teorico, politico e culturale. Perciò, possiamo dire che il suo libro più che aprire una fase nuova ne chiuda una vecchia. A monte di tutto il suo discorso infatti egli pone la necessità di una critica radicale della cultura borghese e degli stessi limiti e aporie del marxismo tradizionale e di un serrato confronto con le scienze borghesi prodotte dalla divisione capitalistica del lavoro (strutturalismo, linguistica, antropologia, sociologia, psicoanalisi, ecc.), in direzione di una riappropriazione critica dei migliori risultati raggiunti nel campo della critica letteraria novecentesca, i cui presupposti metodologici vengono sottoposti a una verifica teorica e politica serrata. Infatti, in contrasto con la concezione storicistica del tempo e della storia come processo lineare («Il senso della storia come continuum e come progresso è stato distrutto non solo da due guerre mondiali ma anche dalla involuzione delle rivoluzioni socialiste.») e partendo dal livello della struttura economica e sociale, degli apparati culturali, del ceto intellettuale e dei sistemi formali, tra i quali istituisce delle omologie, Luperini cerca di individuare i momenti di contraddizione – che non si manifestano solamente tra rapporti di produzione e forze produttive, ma anche tra testo e contesto, e attraversano lo stesso prodotto letterario (tra valore d’uso e valore di scambio) – i vari momenti di rottura avvenuti nella storia e nella cultura del novecento, individuando tre fasi ben distinte: Età dell’imperialismo (1903-1925), Età delle origini del neocapitalismo e della sua ricostruzione (1926-1956) ed Età dell’apogeo e della crisi del neocapitalismo (1957-1979), alle quali fa corrispondere sul piano sovrastrutturale, gli anni del sovversivismo e delle avanguardie, gli anni del fascismo, dell’antifascismo e del rinnovamento democratico e gli anni della contestazione e della restaurazione progressista. Da questo particolare quadro cronologico e da questa periodizzazione, che rappresenta un’assoluta novità, deriva una mappa per molti versi inedita della letteratura italiana del Novecento dallo sviluppo nient’affatto lineare: una “selva intricata”, insomma. Infatti, il libro di Luperini oltre che un inquadramento storico più puntuale di figure, gruppi e movimenti culturali e letterari, offre un’analisi serrata della «evoluzione delle strutture narrative e poetiche e dei rispettivi linguaggi». Non è possibile in questa sede discutere tutti gli elementi portanti del discorso di Luperini: ci limitiamo perciò a sottolinearne alcuni aspetti che mi sembrano oltremodo significativi. Per quanto riguarda la produzione poetica, Luperini si muove, anche se in maniera critica, lungo le linee tracciate di recente da Franco Fortini e da Pier Vincenzo Mengaldo, ovviamente correggendole e integrandole di nuovi apporti, riservando molta attenzione alla poesia dialettale, in genere trascurata dagli studiosi. Sul versante della produzione narrativa, invece, è molto importante la precisazione che Luperini avanza a proposito della ripresa del romanzo avvenuta tra la fine degli anni Venti e l’inizio del decennio successivo (con ampio spazio riservato alla rivista «Solaria» per la funzione di guida che ha svolto durante gli anni duri del fascismo) e sulla differenza tra il «realismo» degli anni Trenta e il neorealismo postbellico. Inoltre egli riserva molta attenzione allo studio delle varie tendenze della critica letteraria contemporanea, del rapporto tra industria culturale e pubblico nella società di massa, spiegando i motivi del successo di tanta letteratura di consumo, con l’attenta rivalutazione di molti scrittori e poeti rimasti in ombra per molto tempo (si vedano i casi di Svevo, Saba, Gadda, Pizzuto) e dei vari generi letterari, con la sola esclusione della cosiddetta «letteratura popolare» e della produzione teatrale, fatta eccezione per il solo Pirandello. Un altro aspetto non meno importante di questo libro riguarda il particolare metodo usato da Luperini a proposito dell’analisi del testo letterario. In questo senso egli evita in maniera chiara di ridurre l’opera d’arte sia a pura «ideologia» che a «segno», per superare i limiti evidenziati dalle varie metodologie critiche correnti (siano esse di ispirazione marxista che di matrice strutturalista, sociologica, ecc. ecc.), precisando che «è nella struttura formale che si realizzano i suoi valori cognitivi» di un’opera letteraria e di tenere in alta considerazione i suggerimenti offerti dalla psicoanalisi e dalla concezione dell’arte come «ritorno del rimosso», o con variante significativa, «del represso». «Il testo – afferma Luperini nella Premessa (e qui è necessaria una lunga citazione) – non è solo un segno; è anche il sintomo di una lacerazione individuale e sociale, di una stortura soggettiva (sino, magari, alla nevrosi) e di una oggettiva. Il testo non “spiffera” unicamente il “segreto del capitale” (per riprendere un’espressione adorniana). Non è solo la manifestazione di una “forza-lavoro” o un’articolazione della produzione; è anche protesta contro la produzione. Protesta impotente (è la ‘miseria’ non soltanto della filosofia) e sublimata dalla formalizzazione estetica e dalla neutralizzazione ideologica. Eppure, ogni testo patisce la contraddizione d’essere un momento della produzione. L’aspirazione al valore d’uso che esso contiene non può essere mai del tutto cancellata dal pur predominante valore di scambio. Si tratta, di nuovo, di cogliere la contraddizione, non l’unità. Se il sistema sociale ed economico appiattisce a unità (l’unità della merce), questa non è una buona ragione per dimenticare che – anche in questo caso – l’uno può dividersi in due. Se l’arte per propria natura copre di fiori l’abisso su cui nasce (“Quante rose a nascondere un abisso!”, è un verso di Saba che abbiamo scelto a epigrafe del nostro lavoro), non è detto che sia nostro ufficio collaborare a quest’opera di rimozione». Il particolare compito che spetta all’analisi materialistica della letteratura, secondo Luperini, è perciò quello di liberare la capacità di conoscenza storica, il nocciolo di verità dell’opera d’arte («di che lagrime grondi e di che sangue»), di scoprire l’orrore grattando sotto il piacere gratificante, lo splendore neutralizzante della forma. Solo sforzandosi di interpretare il testo in questa luce si può evitare il pericolo di «rimanere chiusi nell’ambito di un’operazione critica puramente descrittiva». Ne deriva la contemporanea adozione di un doppio punto di vista, interno ed esterno all’opera d’arte, e cioè un’interconnessione tra opera letteraria e storia, tra testo e contesto, fra letteratura e società, secondo una tradizione teorica che fa della contraddizione il suo principio fondamentale. Sta qui la chiave per intendere l’interpretazione della letteratura del Novecento effettuata da Luperini nel suo libro, che non può essere considerato un semplice manuale di storia letteraria, almeno nel senso tradizionale del termine. In realtà il principale compito che si è prefissato lo studioso lucchese è quello di abbozzare una storia degli intellettuali-letterati italiani del Novecento, partendo ovviamente dall’analisi delle loro particolari risposte formali, dalla loro composizione sociale, della loro collocazione in rapporto e all’apparato produttivo e alla lotta di classe. Da questo punto di vista, partendo dagli appunti di Gramsci sugli intellettuali, Luperini arriva a dimostrare che, a differenza dell’epoca di Marx e della Russia di Lenin, nel Novecento gli intellettuali costituiscono, per la prima volta nel nostro paese (e Gramsci lo aveva ben capito), una massa e come tale reagiscono: formano uno strato sociale che ha una propria dialettica all’interno della lotta di classe, alla quale partecipano non solo ideologicamente ma rispondono a precise esigenze d’ordine materiale e sociale, e dalla quale comunque subiscono tutti i contraccolpi. Non aver capito questo è stato uno dei grandi limiti del movimento operaio tradizionale che, pur col mutare della situazione storica, ha continuato a basare, non senza forzature e mistificazioni, il proprio discorso politico e culturale sulle acquisizioni teoriche della tradizione marxista-leninista che considera gli intellettuali ‘organici’ alla borghesia, i quali solo come ‘transfughi’ possono aderire alla causa del proletariato. Con l’avvento della grande industria l’intellettuale, infatti, viene sempre più inserito nelle strutture produttive subendo in tal modo un graduale processo di proletarizzazione e di massificazione. Per concludere, non c’è dubbio che il libro di Luperini rappresenti uno degli avvenimenti culturali e editoriali più importanti di quegli anni, e ciò trova una conferma nel vivace dibattito che esso ha suscitato; un’opera per molti versi inconsueta, di grande originalità e di grande impatto culturale, in cui l’intensa passione politica e ideale dell’autore si sposa con la sua cultura agguerrita e vastissima.


Giuseppe Muraca
(n. 10, ottobre 2025, anno XV)


* Questo saggio è stato scritto nel 2011 e ora rivisto e ampliato.