Il Femminile come Principio: Campo, il Mito e la Tradizione

Per cogliere appieno la densità speculativa della visione del femminile nell’opera di Cristina Campo, è imprescindibile collocarla entro una duplice ascendenza: da un lato, la filigrana estetico-spirituale del Novecento europeo, alimentata dalle correnti più sottili della poesia metafisica e della mistica in esilio; dall’altro, e in modo ancor più determinante, quell’orizzonte sapienziale e archetipico in cui la donna si configura quale principium essendi, ovvero come fondamento ontologico e simbolo operante all’interno dell’economia cosmica. In tale ambito, che trova la sua più compiuta espressione nella metafisica tradizionale, la polarità femminile non è mai mero complemento del maschile, bensì ne costituisce la soglia trascendente, la radice segreta, il grembo invisibile da cui ogni forma riceve la propria misura e necessità. Questa duplice eredità, moderna e insieme arcaica, costituisce il vero fondamento del pensiero campoiano, laddove l’adesione alle forme più alte della lirica europea, da Hofmannsthal a Rilke, da Valéry a Eliot, si intreccia indissolubilmente a un sapere più antico, quasi pre-moderno, filtrato attraverso l'esperienza della Tradizione, intesa non come semplice conservazione del passato, ma come trasmissione vivente di un ordine simbolico inalterabile. Campo, infatti, non aderisce alle correnti del femminismo militante, né si lascia catturare dalle semplificazioni sociologiche del suo tempo. Il suo è un pensiero verticale, anagogico, che riconduce ogni apparenza sensibile a una realtà metafisica sottostante.
In questo quadro, la donna non è la «seconda» rispetto all’uomo, ma l’originaria rispetto al manifestarsi delle forme: non il prodotto di un’evoluzione storica, ma l’epifania del principio che precede il divenire. L’idea di un principium essendi femminile si radica, del resto, nella grande corrente della sapienza perenne, da Platone a Plotino, da Dante a Swedenborg, da Jacob Boehme a Guénon. Campo si muove, consapevolmente o per affinità elettiva, in questo paesaggio interiore, in cui l’essere si articola secondo polarità irriducibili e complementari, in cui il maschile rappresenta la forma, l’atto, la parola, mentre il femminile incarna la potenza, il silenzio, il ricettacolo sacro. È la struttura stessa del simbolo, e non della biologia, a fondare questa visione: la donna è soglia e custode, è recipiente dell’Assoluto, come la coppa che riceve il vino sacro, o come il tempio che custodisce la presenza divina. A questa luce, il femminile è la dimensione invisibile e misterica da cui ogni ente trae origine e verso cui ogni cosa ritorna. Campo, nella sua fedeltà a questa logica del sacro, rifiuta ogni riduzione della donna a categoria sociologica o funzione utilitaria. Ella sa, come sapevano i filosofi iniziatici, i Padri della Chiesa, i poeti mistici, che ogni vera realtà è preceduta da una struttura simbolica che la fonda e la sorregge. La donna, in tal senso, è l’invisibile che fa essere il visibile, il grembo cosmico in cui si inscrive il ritmo segreto dell’essere. Nella sua prosa rarefatta, nei suoi versi colmi di silenzio, e nei suoi saggi, specie quelli raccolti ne Il flauto e il tappeto, Cristina Campo allude continuamente a questa presenza femminile arcaica e sacra: la donna come pontifex tra la terra e il cielo, come guardiana dell’invisibile, come testimone di un ordine superiore e immutabile. È una figura che risuona, per analogia, nelle Grandi Madri dei culti mediterranei, nell’Iside velata dei Misteri egizi, nella Sapienza (Chokmah) della Cabala, nella Sophia gnostica, nella Dea Bianca evocata da Robert Graves, nella Vergine Maria come Arca dell’Alleanza nel pensiero cristiano.
Campo non si limita ad attingere da questi modelli: li ricompone in una propria personalissima mitologia, in cui il Femminile è custode del sacro, ma anche vittima designata di un mondo desacralizzato, che non ne sopporta l’alterità e ne vuole spegnere la luce. In questa prospettiva, la visione campoiana del femminile rappresenta un gesto radicale di resistenza spirituale: non un ritorno al passato, ma un’ascesa al principio; non una protesta, ma una rivelazione. E come tale, essa interroga, ancora oggi, le nostre categorie, costringendoci a ripensare l’identità, la relazione, la presenza del divino nel mondo. La donna, nella sua visione, non è un «tema» fra gli altri, ma è la soglia stessa del pensiero, la misura nascosta dell’essere, la cifra Cristina Campo non formulò mai, né avrebbe potuto o voluto formulare, una vera e propria filosofia della donna, nel senso sistematico e dottrinario del termine. La sua scrittura, refrattaria a ogni incasellamento concettuale, prediligeva il frammento, l’analogia, il lampo intuitivo; essa rifuggiva le costruzioni astratte, preferendo l’allusione simbolica alla definizione, il silenzio alla dichiarazione. Eppure, nel suo intero itinerario spirituale e letterario, si coglie con nettezza una visione profonda, quasi archetipica, del femminile: non già come categoria psicologica o sociologica, ma come figura sacra, manifestazione impersonale di un principio mediatore tra visibile e invisibile. Si tratta di un pensiero del Femminile che non è scritto, ma intessuto nell’opera, come una trama nascosta, come l’ordito invisibile che sorregge il tessuto poetico.
Tale concezione, per quanto mai teorizzata in modo esplicito, si dispiega con sorprendente consonanza a quella delineata da Julius Evola nella sua Metafisica del sesso, là dove il pensatore tradizionalista individua nella donna un punto liminale e sacrale: «punto d’interruzione e insieme di passaggio tra l’immanenza e la trascendenza». Campo sembra incarnarne la trasposizione cristiana, lirica e contemplativa, laddove Evola muove da una prospettiva eroico-sacrale, connotata da toni iniziatici e da una simbologia solare e virile. Se in Evola la polarità sessuale si inscrive in un ordine metafisico immutabile, in cui la donna rappresenta il ricettacolo della forza trascendente e insieme la soglia attraverso cui l’uomo può superare la contingenza del divenire, per Campo la figura femminile si colora di tratti mariologici e anagogici: essa non è tanto oggetto di un cammino, quanto luogo del cammino stesso; non è colei che agisce, ma colei che consente il passaggio. Tale ruolo di ponte tra mondi emerge con chiarezza nell’intero immaginario campoiano: dalla predilezione per le sante e le figure verginali, tutte votate al silenzio, alla purezza, alla serva umiltà, alla simbologia della soglia, del velo, del «tappeto» orientale, che nella sua scrittura allude sempre a un oltre non rappresentabile, ma percepibile nel tremore del sacro. Nel saggio Gli imperdonabili, Campo afferma che «ogni cosa che vale la pena d’essere detta è forma. Ogni forma è geroglifico della verità». Il femminile, nella sua scrittura, è precisamente una forma geroglifica, una figura che non rimanda a sé, ma all’invisibile. Il parallelo con Simone Weil, da lei amata e tradotta, è inevitabile. Per Weil, come per Campo, la donna non coincide mai con l’io empirico, con il soggetto moderno che vuole «prendere parola», ma con la condizione mistica dell’attesa. L’essere femminile è ciò che non prende, ma riceve; ciò che non domina, ma consente. Weil scrive: «Attendere è il più grande dei doveri. Dio è colui che viene. Ma per venire, ha bisogno di un vuoto». Ebbene, quel vuoto ha il nome di intercessione, di offerta muta, di fedeltà a una perfezione invisibile. È la stessa «perfezione lontana» cui allude ne Il flauto e il tappeto, quando scrive: «L’umiltà non è che la fedeltà all’Invisibile».
La figura femminile non è solo quella dell’attesa o della passività contemplativa: è anche memoria del cielo perduto, sapienza incarnata, Sophia dolorosa. In questo senso, la vicinanza a María Zambrano si fa più netta: come la filosofa spagnola, Campo considera il linguaggio non come strumento di comunicazione, ma come via d’invocazione, ritorno all’origine, rivelazione dell’anima. In Zambrano, la donna è custode dell’aurora, di ciò che precede il logos e che ne fonda la luce interiore; in Campo, è sacerdotessa di una liturgia della parola, custode della soglia tra l’umano e il divino. Entrambe restituiscono al femminile una funzione teofanica: quella di rendere possibile la visibilità dell’invisibile. In questa prospettiva, si può affermare che Cristina Campo non scrive mai sulla donna, ma a partire dalla donna come principio mediatore. Il femminile è la sua postura ontologica, il suo orientamento interiore, il suo asse simbolico. La donna, per lei, è quella che tace per lasciare che il sacro parli; è quella che non si oppone, ma cede perché la grazia possa fluire. È la serva del Signore, la sposa dell’Agnello, la custode del mistero. Non c’è, in lei, nulla della donna «moderna», rivendicativa, esposta, performativa. Al contrario: la sua donna è invisibile, è intoccabile, è ritirata, come il nome segreto di Dio nella Qabbalah, come il noli me tangere evangelico.
Cristina Campo si situa in un punto di assoluta originalità: ella non afferma il primato della donna, ma ne rivela la natura fondativa, ontologica, trascendente. Una rivelazione che, pur non passando per il linguaggio della filosofia sistematica, si manifesta come sapienza poetica e metafisica, come visione intatta di un ordine del mondo in cui il Femminile non è uno dei poli dell’esistenza, ma la condizione stessa della sua rivelazione. Così come il tappeto orientale, nella sua immobile compostezza, non rappresenta il divino ma lo attende, così la donna è lo spazio vuoto che consente all’eterno di manifestarsi: non agente nel mondo, ma ponte tra mondi. Emerge un’idea del femminile come trasparenza dell’essere, come apertura radicale all’Altro, nel senso più alto e ontologicamente fondato del termine. Non l’Altro come semplice alterità sociale o differenza culturale, ma l’Altro con la maiuscola: il totalmente Altro, il Mistero, il Principio. In tal modo, ci si situa ben lontano da ogni soggettivismo moderno, da ogni pathos dell’identità, da ogni psicologismo che riduce la figura femminile a pura funzione dell’io o del corpo. La sua è una visione ascetica, anagogica, sacrale. Ella non difende la donna in quanto tale, non ne rivendica un ruolo storico o politico: ne ricerca la vocazione metafisica, la potenzialità teofanica. Il femminile è ciò che si purifica per divenire forma dell’Invisibile. È un principio di trasfigurazione, non di espressione: ciò che si svuota, si annienta, si consegna alla luce, affinché la luce appaia. Come scrive ne Il flauto e il tappeto, il vero gesto femminile è quello della serva che intesse un tappeto non per sé, ma perché vi si inginocchi un re. È la logica della kenosis, dello svuotamento cristico, che nel pensiero mariano diviene potenza silenziosa, forza umbratile, fedeltà senza nome.
La Donna che Campo contempla è quella che rinuncia a se stessa per essere segno, per diventare figura, icona. In questo senso, la sua idea di femminile è ontologica e simbolica, mai identitaria. Non esiste, per lei, una «coscienza di genere», ma semmai una forma di essere al mondo in cui la donna, nel suo massimo grado, si fa dimora, soglia, custode del sacro. Non afferma: accoglie. Non lotta: veglia. Non conquista: attende. In ciò, la sua figura femminile non è debole, ma infinitamente più forte, perché fondata sull’abbandono, sulla vigilanza interiore, sulla regalità del silenzio. È qui che Campo si pone agli antipodi di ogni femminismo rivendicativo. Il suo non è il grido dell’emancipazione, ma il canto della vocazione. E la vocazione è sempre verticale, mai orizzontale. È questo che rende la sua scrittura, come la sua idea di donna, radicalmente altra rispetto alla modernità: un pensiero dell’elevazione, non della reazione. In ciò risiede la sua scandalosa attualità: nell’aver intravisto, in un secolo di frantumazioni e ideologie, la possibilità che il Femminile torni a essere sacrario e figura, lampada e soglia, secondo una logica del dono, non della pretesa. Quest’idea del femminile come trasparenza dell’essere, come vuoto che accoglie e trasfigura, trova un rispecchiamento profondo nelle grandi figure del mito e della letteratura occidentale, dove la donna non è tanto agente quanto segno, non soggetto della storia ma sua custode invisibile.

Penelope

Tra tutte, Penelope si impone come archetipo assoluto, imago perfetta di una fedeltà non psicologica, ma cosmica, inscritta nell’ordine del mondo come un principio strutturale, e non come una virtù morale. Penelope non è solo la sposa fedele: è l’axis mundi del regno interiore, il punto immobile attorno a cui ruota la disgregazione del tempo e la dispersione del maschile. La sua tela, che si fa e si disfa in un ritmo notturno e rituale, è immagine suprema del tempo liturgico, non lineare, ma ciclico, non progressivo, ma mistericamente reiterativo. Il gesto si trasforma in simbolo: tessere è custodire il logos, disfare è proteggere l’attesa. Come Cristina Campo, anche Penelope non agisce, non scrive, non proclama. Non conquista spazi pubblici, ma custodisce il tempo del ritorno, il battito segreto dell’essere. La sua è una vegliatura sacra, una funzione vigilante, simile a quella delle vergini nei Vangeli, che attendono con le lampade accese lo sposo che tarda. In tal senso, Penelope è il negativo sacro dell’azione maschile: ciò che resiste senza opporsi, che attende senza pretendere, che ama senza esigere. È proprio nel suo rimanere, radicata, silenziosa, imperitura, che si misura la verità di Ulisse. L’eroe dell’intelligenza errante, del travestimento, della navigazione infinita, può portare a compimento il proprio cammino solo tornando al talamo nuziale, che è insieme letto, ombelico. Quel talamo che Penelope non ha abbandonato né profanato, ma che ha custodito come centro inviolabile, come punto di convergenza tra terra e cielo. In ciò si compie il senso più alto dell’epos omerico: non nell’esplorazione, ma nel ritorno; non nella conquista, ma nel riconoscimento. Penelope, dunque, non è solo un personaggio mitico, ma una figura metafisica. Come scrive Cristina Campo a proposito delle grandi eroine silenziose, ella rappresenta la donna come sacrario del Principio, come custode del ritmo sacro, come colei che non genera eventi ma li rende significativi. L’eternamente femminino, per usare le parole di Goethe, non attrae verso sé, ma attira verso l’alto. Ecco, quindi, il mistero penelopico: essere la condizione stessa della fedeltà del mondo, la forma invisibile della verità.

Medea

Se Penelope incarna il principio del ritorno, della coesione, della conservazione dell’ordine, ordine ontologico, affettivo, cosmico, Medea rappresenta il suo contraltare oscuro, la frattura, il moto verso l’esterno, l’eruzione dell’hybris. In lei si manifesta un femminile che rompe la misura, che si oppone alla kenosis penelopica con la rivolta dell’ego ferito, della passione assoluta che non conosce legge se non la propria. Là dove Penelope veglia sul talamo e lo difende come centro sacro dell’universo domestico e simbolico, Medea lo profana, lo incendia, lo disintegra.
Non è un caso che nella tragedia euripidea, Medea non solo uccida i figli, gesto che lacera il legame verticale del tempo, ma distrugga la casa, ossia quel luogo di permanenza e significato che per Penelope è tempio e trono. Il suo atto è un’esplosione del no, un rifiuto dell’ordine maschile, sì, ma anche del logos stesso come principio costitutivo dell’essere. Non attende: agisce. Non custodisce: devasta. Non tace: urla. Medea si fa così figura del femminile desacralizzato, della potenza non più trasparente al Mistero, ma piegata alla volontà di dominio. Il confronto non è morale, non è questione di «giusto» o «sbagliato», ma ontologico. Penelope è figura dell’essere che attende. Medea è l’ente che reclama. Penelope è verticale: si collega al Cielo attraverso il silenzio e la fedeltà. Medea è orizzontale: brucia le vie del ritorno, rifiuta il limite, si fa auto-creazione, distruggendo tutto ciò che la precede. Nella sua furia, intravediamo la grande tentazione del moderno: la dissoluzione di ogni legame, il culto dell’io sovrano, l’odio per la dipendenza e per l’origine. In lei, il femminile si ribella alla maternità, al vincolo, alla parola data: nega la pazienza del divenire per imporsi come gesto assoluto, cieco, autodistruttivo.
Per Cristina Campo, come per Penelope, il femminile è figura del sacro: non crea mondi, ma li rende abitabili; non sfida gli dèi, ma ne custodisce le tracce. Medea, invece, è la dea decaduta: colei che ha conosciuto i segreti del fuoco e della metamorfosi, ma che ha scelto di usare il potere non per trasfigurare, bensì per annientare. Il suo fuoco non illumina: consuma. Ed è in questa differenza radicale che si gioca il destino del Femminile nella civiltà occidentale. Penelope e Medea non sono solo due donne: sono due forme del mondo. E così, nell’epoca della dismisura, della rivendicazione continua e dell’identità urlata, la voce di Campo, come quella di Penelope, ci appare scandalosa nella sua mitezza. Non perché difenda un modello passivo, ma perché oppone alla potenza del fare la forza del custodire, alla furia della libertà la regalità del vincolo. Il Femminile, per lei, non è possesso né ruolo: è simbolo e segreto. È ciò che si lascia abitare dalla luce.

Euridice

Euridice, poi: la donna che non può guardare, pena la dissoluzione, colei che può esistere solo nell’ombra, nel margine, nel battito muto del non detto. Figura liminale e sacrale, Euridice non è la donna che ama, ma la donna che scompare, che si nega, che retrocede nel buio come per custodire l’inviolabilità del suo essere. Simbolo purissimo di un femminile invisibile e irredimibile, essa appare a Cristina Campo come una sorta di sorella segreta, una figura speculare, e forse superiore, a quelle più celebrate del canone occidentale. Perché Euridice non seduce, non si narra, non prende parola: si sottrae. La sua intera ontologia è costruita sul non-esser-vista: basti il minimo cedimento allo sguardo, lo sguardo dell’amato, dello sposo, dell’artefice, di Orfeo, e l’incanto si rompe, il mistero evapora, l’essere si ritrae. Euridice non può essere guardata, e non perché manchi di dignità o di bellezza, ma perché il suo essere è esso stesso sottrazione, trasparenza, silenzio. Ella è solo nella distanza, nella tensione tra l’apparire e il non apparire, tra la presenza e la sparizione. È, per usare un lessico mariano, «figura del nascondimento», tempio che custodisce il fuoco ma non lo espone, presenza che abita l’assenza.
Campo, che, come Euridice, fu profondamente appartata e allergica all’esposizione pubblica, ne rievoca il destino con un tono elegiaco e sacrale, quasi a voler suggellare una consanguineità segreta. Euridice non è solo la sposa perduta: è la rappresentazione estrema di un femminile che esiste solo a condizione di non essere profanato. Non si tratta di una condizione subita, ma di una scelta ontologica: non essere vista per non essere ridotta, non essere nominata per non essere incatenata al linguaggio, alla logica maschile del possesso e della definizione. La sua morte definitiva, che segue lo sguardo trasgressivo di Orfeo, non è dunque punizione, ma sigillo. Sigillo d’un mistero che non può tollerare la chiarezza, d’una sacralità che esige il velo, non il palcoscenico. In questo gesto ultimo, l’addio senza parola, il dissolversi muto nell’ombra, si condensa il dramma metafisico del femminile nel mondo moderno: la progressiva perdita della sua dimensione numinosa, del suo legame con l’invisibile, della sua capacità di evocare, con la sola presenza, il tremore dell’infinito. Perdere Euridice, in questo senso, è perdere il mistero stesso. È smarrire quella zona d’essere che non si lascia rappresentare, né possedere, né comunicare, ma solo intuire. La sua scomparsa non è solo la tragedia di un amore, ma la tragedia dell’epoca intera, che pretende luce su tutto, visibilità su tutto, trasparenza totale, e così facendo, uccide ogni sacro. In Euridice, Cristina Campo riconosce l’ultima custode del pudore metafisico, colei che muore per sottrarsi all’idolatria dello sguardo e della parola, al delirio dell’illuminazione senza ombra.

Beatrice

Infine, Beatrice, non la giovane creatura eterea dello stil novo, non l’allegoria dell’amore cortese trasfigurato, ma la Beatrice escatologica della Commedia, la donna che, assisa tra le gerarchie celesti, ha già abbandonato ogni contingenza, ogni residuo terrestre, e si fa funzione teofanica, voce della visione e dell’ordine eterno. In lei, Dante non contempla più una donna, ma un principio mediatore, una intelligentia spiritualis che, pur mantenendo la forma del femminile, si innalza a canale diretto tra la creatura e il Creatore. Per Cristina Campo, questa Beatrice finale non è allegoria, né figura sublimata di un affetto terreno: è simbolo operativo, modello di un Femminile ormai purificato dalla storia e dalla carne, restituito alla sua vocazione originaria: condurre all’alto, rendere possibile la visione. La donna, in questa lettura, non ha per Campo una funzione sociale o politica, né psicologica o sentimentale. È teofanica o non è. Non media tra l’individuo e la comunità, compito sociologico che la modernità ha spesso voluto assegnarle, ma tra l’uomo e il divino, tra l’immanenza e l’oltre. Come Beatrice, ella si pone sulla soglia tra i mondi, come una scala giacobina rivolta verso l’alto, chiamata non a essere amata, ma a mostrare l’amore. Nel verbo dantesco «beatriceggiare», usato per designare non tanto la persona, ma l’azione della beatitudine che si diffonde per suo mezzo, Campo coglie un gesto altissimo: la donna non è soggetto ma veicolo, non fine ma epifania del Fine. In un tempo che ha desacralizzato l’eros, ridotto la figura femminile a ruolo o prestazione, la Beatrice dantesca, e con lei la donna campoiana, rompe ogni orizzonte profano, si sottrae al circuito del desiderio e della rappresentazione, per divenire trasparenza al Trascendente.
È significativo, del resto, che nella Commedia Beatrice non compaia mai come corpo desiderabile, né come presenza affettuosa, ma come sguardo che fulmina, come parola severa e luminosa, come giudizio e rivelazione. La sua bellezza non è da contemplare, ma da temere; non incanta, obbliga. In lei si realizza ciò che Cristina Campo ha sempre cercato nella donna: la potenza silenziosa della purezza, il rigore della forma che non concede nulla al caos del sentimento. Beatrice, dunque, non è «una donna ideale» in senso romantico. È l’ideale femminile come sacramento, la creatura che ha attraversato il fuoco del tempo per divenire luce. In questo senso, ella rappresenta la culminazione della tensione campoiana: non una donna da emancipare, ma da elevare; non un soggetto da difendere, ma una presenza da custodire nella sua funzione simbolica. Il suo posto è nel cielo, non perché estranea alla terra, ma perché solo da lì può indicare la via all’uomo errante, restituirgli la direzione, risvegliargli la sete dell’invisibile. In un’epoca che confonde il visibile con il reale, e che ha fatto della visibilità una forma di dominio, Cristina Campo, come Dante, restituisce alla donna la dignità tremenda della verticalità. Ella non è protagonista della scena, ma asse del mondo. Non si dà a vedere, ma orienta lo sguardo. Non parla, ma ordina la parola.
E come Beatrice, che guida Dante fino alla soglia dell’Empireo, ma poi tace, si ritrae, e lascia spazio alla visione ultima, così il Femminile, per Campo, non è destinato al possesso, ma alla rivelazione. In tale prospettiva, appare del tutto evidente come l’ideale di donna proposto da Cristina Campo si collochi radicalmente al di fuori di ogni dimensione meramente umana, intesa nel senso consueto e terreno del termine, cioè come ciò che è grezzo, contingente, biologico, e passionale. L’umanità, intesa come sfera del naturale e del sensibile, viene qui radicalmente messa in discussione: il femminile non si identifica con la semplice corporeità né con le istanze emotive che tradizionalmente si associano alla donna nella cultura moderna o contemporanea. Al contrario, per Campo il femminile si configura come una categoria teofanica, ovvero come una dimensione dell’essere nella quale si manifesta il divino, si rifrange la luce del Principio e si rende possibile una forma di rivelazione. La donna non è mai semplice soggetto o oggetto umano, ma un veicolo di trascendenza, una porta attraverso la quale il Mistero si rende presente nel mondo. Essa si fa così specchio limpido e senza macchia del divino, riflettendo quell’ordine primordiale che trascende il divenire storico e la caducità delle vicende umane. Di conseguenza, questa concezione impone una ferrea tutela della donna da ogni forma di degradazione e di riduzione: essa deve essere preservata con cura da ogni contaminazione di natura mondana, da ogni volgarizzazione storica che tende a trasformarla in semplice funzione sociale, in figura politicizzata o in attore di processi attivistici. L’«attivismo», inteso come partecipazione e militanza nel conflitto ideologico o come esibizione di sé nel foro pubblico, rischia infatti di sottrarre alla donna la sua dimensione originaria di funzione simbolica e spirituale, riducendola a mero «soggetto politico» o «categoria sociale», ossia a entità che, pur legittime in altri ambiti, nulla hanno a che vedere con la sua essenza più autentica. Per Campo, infatti, la donna non deve essere additata, né affermarsi attraverso rivendicazioni identitarie o lotte che la inseriscano nelle dinamiche fluide e spesso volatili della storia. Essa deve invece essere custodita, elevata, purificata, perché nel suo essere si manifesta la potenza originaria dell’essere, la scintilla che mantiene aperto il varco verso l’Assoluto. La donna, in questo senso, incarna un ordine sacro che non può essere compromesso dalla dialettica delle passioni, né contaminato dal protagonismo effimero degli eventi terreni. La sua funzione trascende dunque la soggettività e si inscrive nella sfera del sacro: è una presenza che radica il tempo nel suo fondamento eterno, che custodisce l’invisibile e l’imperscrutabile, che consente all’uomo di accedere alla realtà ultima attraverso il velo del simbolo e dell’intuizione.
Questo ideale femminile, che non ha dunque nulla a che fare con il femminismo contemporaneo o con le mode culturali del momento, si offre come un invito a riconoscere nella donna una dimensione di mistero e di luce, di «altro» radicale rispetto all’umano ordinario, capace di ristabilire l’ordine cosmico e spirituale che la modernità, con la sua disumanizzazione, ha teso a dissolvere. In ciò, Campo si pone con mirabile profondità nel cuore stesso della Tradizione perenne, quell’archetipo universale che attraversa tempi, culture e civiltà come un filo d’oro invisibile, tessendo una continuità di senso e di sacralità. In questa prospettiva, l’elemento femminile non è mai mera categoria sociologica o funzione transitoria, bensì una realtà ontologica fondamentale, un principio metafisico che rimanda al mistero primordiale dell’Origine e del Ritorno. Non si tratta semplicemente di una dimensione naturale, biologica o psicologica: il femminile si manifesta simultaneamente nella sua duplice natura, naturale e soprannaturale, e in entrambe è connesso a quella radice ineffabile da cui sgorga il cosmo e verso cui tutto torna. In questo senso, esso coincide con la forza creatrice e rigeneratrice che anima il mondo, con l’intelligenza divina che plasma la forma e sostiene l’essere.
Campo richiama, dunque, consapevolmente o meno, figure archetipiche che rappresentano questa sacralità femminile in diverse tradizioni spirituali. La Shakti indiana, energia dinamica e vivificante, è il principio femminile attivo e creativo che dà forma e vita all’universo; la Sophia gnostica, Sapienza divina, è colei che illumina e guida l’anima nel cammino verso la conoscenza dell’assoluto; la Virgo Sapientia dei padri medievali è la Vergine della Sapienza, immagine di una sapienza pura, immacolata e trascendente; la Shekinah della mistica ebraica è la presenza femminile di Dio nel mondo, l’abitazione celeste che rende il divino tangibile e vicino all’uomo. In tutte queste figure, la Donna non si riduce mai a mera funzione strumentale o a ruolo accidentale, ma si eleva a principio ontologico, fondamento stesso dell’essere e della conoscenza.
Questo principio, in quanto tale, è immutabile, eterno e incorruttibile. Non conosce evoluzioni contingenti né mutamenti temporali. Non è soggetto a emancipazioni, negoziazioni o riconfigurazioni. Preferibilmente, si custodisce gelosamente, si preserva nella sua purezza e nella sua integrità, perché in essa risiede il cuore segreto del cosmo, l’archetipo di ogni origine e il luogo ultimo del ritorno. La Tradizione perenne insegna, attraverso le sue molteplici espressioni, che il femminile autentico è un principio che supera la storia e la politica, un «porto immobile» dove il tempo si arresta e l’eterno si manifesta. Così, Campo si allinea con questa visione senza compromessi, opponendosi alla modernità che vorrebbe ridurre la donna a soggetto storico, a individuo impegnato nel divenire sociale. Per lei, come per le grandi sapienze del passato, la Donna è l’incarnazione del mistero e della rivelazione, un principio di ordine, bellezza e luce che non si piega né si dissolve, ma si custodisce nella sua intatta dignità ontologica. Ed è proprio in questo gesto supremo di custodia, di quel segreto intimo e sacro che abita la bellezza più autentica e il silenzio più eloquente, che si consuma tutta la nobiltà del femminile. Non una nobiltà che reclama visibilità o diritti in senso moderno, bensì una nobiltà che si manifesta nella regalità dell’anonimato, in una presenza discreta ma irresistibile, che non ha bisogno di proclami né di ostentazioni. Questa grandezza femminile si esprime nella capacità di essere custode di un’eco invisibile, di un’armonia nascosta, che risuona in chi ha orecchio per ascoltare. È una forza silenziosa, paragonabile a quel profumo tenue e inafferrabile dei fiori che crescono nei giardini segreti dell’anima, e che solo pochi eletti possono percepire. Un’essenza che, pur invisibile agli occhi del mondo, permea di senso e di mistero la vita stessa. Così, la figura della donna proposta da Campo si staglia con l’evidenza e la maestà di un sigillo nobile e immutabile, come un archetipo che sfida e si eleva al di sopra di un’epoca che ha smarrito la misura, l’arcano e la soglia. Un’epoca dominata dal rumore, dalla frenesia, dall’esibizione continua di sé, e che ha perso il senso della sacralità e dell’attesa. Cristina Campo, con la sua vita esemplare e le sue parole intrise di luce, ha voluto ricordare che la donna è, prima di tutto, la soglia. Essa non è semplicemente un passaggio o un confine, ma il luogo stesso dove il finito si congiunge con l’infinito, dove il visibile si apre all’invisibile, dove il tempo si arresta per lasciare spazio all’eterno. E come ogni soglia, essa si rivela solo a chi sa inginocchiarsi, a chi è disposto a piegarsi con umiltà davanti al mistero, a chi riconosce che la verità più profonda non si conquista con la forza, ma si riceve nel silenzio e nella contemplazione. Solo colui che sa questo può attraversarla senza rovina, accedendo così a una realtà che trascende la mera dimensione umana e si innalza verso il divino.


Giusy Capone
(n. 7-8, luglio-agosto 2025, anno XV)