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Cent’anni di Ossi di seppia: l’inizio della poesia moderna in Italia
Nel giugno del 1925, per i torchi delle Edizioni Peschici & All’insegna del Pesce d’Oro di Genova – nome già di per sé intriso di un’aura alchemica e vagamente ironica, a metà tra l’emblema erudito e la marca di una riservata nobiltà d’intenti – vedeva la luce Ossi di seppia di Eugenio Montale, raccolta poetica che, pur senza clamori o proclami, si impose con l’intransigenza silenziosa di ciò che è destinato a durare. Il suo ingresso nella tradizione non fu fragoroso né celebrato, bensì quasi clandestino, sotto il segno dell’asciuttezza e del ritegno; ma come accade, talvolta, nella storia della letteratura, fu proprio da questa sobrietà, da questa apparente marginalità, che si produsse una discontinuità decisiva. A distanza di un secolo, quel libretto di versi, essenziale come una stele, continua a interrogare e ad attrarre, come un punto di condensazione lirica in cui la modernità italiana prende coscienza di sé.
Non è, dunque, solo un dovere critico, ma una necessità intellettuale profonda, tornare a riflettere, oggi, sul significato e sull’eredità di Ossi di seppia. Il titolo stesso – con quella sua secchezza quasi entomologica – prefigura una poetica fondata non sull’eccesso dell’ornamento, ma sulla sopravvivenza dell’essenziale. L’«osso di seppia», fragile residuo calcareo abbandonato sulle rive da un mare che si è ritirato, assurge a metafora dell’atto poetico come ciò che resta, ciò che resiste all’usura e al rumore, ciò che sopravvive anche quando il corpo è venuto meno e l’organismo si è dissolto. Come la parola poetica stessa, che si offre come spoglia reliquia dell’interiorità in un tempo in cui l’anima sembra ammutolita. Vi è in ciò un gesto di sobria eroicità: Montale non chiede alla poesia di cantare, bensì di testimoniare.
Come ha acutamente osservato Mario Luzi, Montale è «il poeta che ha detto no». Quel «no» – pronunciato senza enfasi, con l’intransigenza di una coscienza critica irrevocabile – non è un semplice rifiuto del mondo, bensì l’affermazione negativa di un principio, la rivendicazione di una verticalità morale in un’epoca di dissoluzione simbolica. È il «no» all’ideologia della consolazione, al vitalismo estetizzante, alla falsa conciliazione tra individuo e cosmo che ancora permeava le ultime propaggini del dannunzianesimo e del simbolismo europeo. È il «no» al lirismo come narcotico e al linguaggio come veicolo automatico di senso. In quel rifiuto, severo e quasi sacerdotale, si radica tutta la forza di una poetica che ha fatto del limite il suo orizzonte, dell’assenza la sua figura, e dell’impossibilità della redenzione la sua unica forma di verità.
Non vi è in Montale alcuna nostalgia per un’unità perduta, né la malinconia dell’armonia infranta: vi è, quasi, la consapevolezza lucida che il mondo non coincide più con la parola, che tra il linguaggio e l’essere si è aperta una frattura insanabile. Ed è proprio in questo spazio vuoto, in questa fenditura, che nasce la poesia. «Non domandarci la parola che squadri da ogni lato», scrive Montale – e questa invocazione o, meglio, contro-invocazione, si staglia come uno dei più alti manifesti della poesia novecentesca. La parola non è più salvifica, né oracolare: è ciò che resta dopo il naufragio del senso, un frammento di coscienza che si aggrappa al reale non per possederlo, ma per renderne visibile l’opacità.
In tale orizzonte, Ossi di seppia appare non come una semplice raccolta d’esordio, ma come un gesto fondativo, un atto di rifondazione etica e formale della poesia italiana. In un momento storico in cui l’Europa intera – ferita dalla Prima guerra mondiale e affacciata sull’abisso dei totalitarismi – cerca nuove forme di espressione e nuovi modelli di salvezza estetica, Montale sceglie il deserto. Sceglie il paesaggio arido e spoglio della Liguria non per celebrarne la bellezza, ma per farne lo specchio di un’anima che ha smarrito le proprie consolazioni metafisiche. Eppure, proprio in questa scelta radicale, in questo rifiuto di ogni metafisica positiva, si manifesta una forma di dignità tragica, un’epica della resistenza spirituale.
Per questo, Ossi di seppia non appartiene solo alla storia della poesia italiana, ma alla storia della coscienza moderna. Il suo centenario non va dunque celebrato come una ricorrenza accademica, ma come una sfida ancora aperta, come un invito a riflettere sul senso della parola oggi, nel nostro tempo di logoramento simbolico e di saturazione comunicativa. Se la poesia ha ancora un compito, esso sta forse proprio nel custodire, come l’osso di seppia, una forma che non si piega alla dissoluzione del senso. Una forma fragile, certo, eppure irriducibile. Una forma che, proprio nel suo tacito «no», continua a dire il vero.
Quella di Ossi di seppia non è affatto la poesia esitante dell’esordio, né l’affiorare aurorale di un talento ancora in cerca della propria cifra. Al contrario, si tratta della prima, pienamente consapevole epifania di un’intelligenza poetica già temprata dall’ascesi formale e dalla lucidità tragica che definisce, sin dall’origine, la condizione moderna. Montale entra nella poesia non con l’impeto dell’iniziato, ma con la compostezza severa del testimone disilluso: la sua voce si afferma subito come una voce dell’esperienza, non della rivelazione; della disincantata vigilanza, non del canto estatizzato.
In queste pagine, e forse per la prima volta in modo così radicale nella lirica italiana novecentesca, non si dà più spazio alla voce profetica o all’estasi mistica che ancora alitavano – pur tra gli scricchiolii del tempo – nella poesia dannunziana e in certa elegia crepuscolare. L’eco del vate si è ormai spenta; il canto non si innalza più verso l’empireo, ma scende, anzi, si ritrae, come una risacca intellettuale che si sottrae al falso sublime e riconduce la parola alla sua essenzialità ultima. Montale, fin dalla prima stesura, afferma l’urgenza di una lingua prosciugata, dimessa, antioratoria, che rinunci consapevolmente all’ornamento per custodire un rigore interiore. E tuttavia non si tratta di una semplicità spoglia, bensì d’una precisione severa, come quella della scultura: ogni parola è selezionata, cesellata, incastonata con una cura quasi musicale, in un equilibrio formale che ricorda il lavoro minuzioso di un liutaio, più che l’estro improvviso dell’ispirazione.
In tale senso, la sua poesia si configura come esercizio di rinuncia, come forma di ascesi: non un’eliminazione dei significanti per compiacimento minimalista, ma un lavoro di scarnificazione condotto nel nome della verità e della necessità. Come ha scritto Giorgio Agamben, la lingua di Montale «ha sacrificato l’immediatezza espressiva in favore della densità allusiva»: ciò che viene perduto in empito lirico è riconquistato, parola dopo parola, nel dominio dell’implicito, del non detto, dell’interstizio semantico. È una parola che non vuole più rappresentare il mondo, ma lasciarne affiorare l’enigma.
In questa operazione si consuma una vera e propria rifondazione etica della poesia: Ossi di seppia non inaugura una moda o una scuola – e tanto meno un canone formale – bensì un principio di responsabilità linguistica. Si potrebbe dire che Montale riconduce la poesia sotto la giurisdizione della coscienza, restituendole una funzione che non è più quella di cantare il reale, bensì di testimoniarne l’opacità, di sopportarne il peso. E in ciò si distingue da ogni atteggiamento estetizzante o ironico, anche dai coevi tentativi di poetica del frammento o dell’anti-lirismo: la sua è una posizione tragica, ma non nichilista, poiché fondata sulla convinzione che la parola poetica, seppur spogliata di ogni aura sacrale, mantenga ancora un nucleo irriducibile di significazione e resistenza.
Così, Ossi di seppia si offre come fondazione non d’una scuola, ma di un’etica: un’etica del limite, del decoro, della forma come argine contro la dissoluzione. Montale non cerca la salvezza, né la proclama; ma proprio nel rifiuto delle consolazioni facili, nel suo dire «no» al canto come esaltazione, egli costruisce – pietra dopo pietra, verso dopo verso – una diga fragile ma necessaria contro il diluvio del nulla. La poesia non redime, ma veglia. E in questa veglia ostinata, malinconica e austera, si compie la vocazione più alta della parola moderna.
Il titolo stesso della raccolta, Ossi di seppia, non è semplice scelta evocativa o immagine poetica suggestiva: è, a ben vedere, già manifesto di poetica, dichiarazione di intenti, cifra emblematica di un’intera visione del mondo. L’«osso di seppia» – quel residuo calcareo, friabile e biancastro, scheletro disidratato d’un mollusco abbandonato sulle spiagge arse dal sole e dal vento – si erge a simbolo assoluto del disincanto e della disciplina formale. Nulla vi è di fiorito, nulla che rimandi alla lussureggiante ricchezza dell’immaginazione simbolista o all’effusione sensuale del panismo dannunziano: l’osso è ciò che resta quando ogni carne è stata dissolta, quando il corpo ha ceduto alla corrosione del tempo e dell’elemento, quando la vita si è ritratta lasciando solo una forma scheletrica, prosciugata, eppure non priva di dignità.
In questa immagine nitida e dimessa, Montale concentra il nucleo della sua poetica: l’opposizione netta a ogni estetica dell’opulenza, a ogni lirismo trionfante, alla retorica dell’«io» come centro radioso dell’universo. L’«osso» è l’antitesi dell’epifania, è ciò che sopravvive quando l’epifania è mancata, quando la rivelazione si è fatta inaccessibile. Esso non promette verità, né bellezza, ma testimonia una fedeltà silenziosa alla forma, anche là dove il senso vacilla. Lungi dal cercare un’identificazione armonica con la natura, Montale la contempla con occhio spoglio e disilluso, col passo dell’esule, consapevole che il paesaggio non parla più all’anima, ma oppone alla coscienza il suo mutismo minerale, il suo resistere inerte.
L’ossatura abbandonata diventa così immagine del resto, dell’inavanzo, del residuum: non il pieno, ma ciò che rimane dopo il venir meno del pieno; non l’illuminazione, ma l’ombra che ne segue. Una poetica del post, si potrebbe dire, del dopo, che rifiuta ogni pretesa di totalità e accoglie, invece, l’incompletezza come unica forma possibile di onestà intellettuale. Da qui la necessità di una parola che rinunci alla pretesa di dominio: «Non domandarci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe», ammonisce Montale in uno dei componimenti più noti e programmatici della raccolta, come se mettesse subito in guardia il lettore contro ogni aspettativa di pienezza, di trasparenza, di rivelazione.
È qui che si enuclea, con implacabile chiarezza, l’intero programma montaliano: la parola poetica non è più aurorale, non è veicolo del divino né musica dell’interiorità riconciliata con il mondo. È, al contrario, frammento inciso, segno esile e interrotto, traccia di una domanda che non trova appiglio nel reale. Se un tempo il verso pretendeva di squadrare la realtà, di darle forma compiuta e intelligibile, ora si limita a balbettare la propria inadeguatezza, a testimoniare l’infrangersi del senso contro il muro opaco dell’esistenza. La poesia non rivela, ma sopravvive – come un osso di seppia sulla riva –, e nella sua sopravvivenza residua una forma di etica.
È, in fondo, una poesia postuma alla sua stessa possibilità, come se nascesse dopo la morte del canto, e tuttavia decidesse di esistere ancora, nonostante tutto. In questo gesto si cela la sua grandezza: non nel dire di più, ma nel dire nonostante. È la parola che resta quando la voce si è fatta silenzio, quando il mondo non restituisce più alcun eco. Ma è proprio in quel silenzio che essa affonda le sue radici, ed è da quel vuoto che prende forma il suo irriducibile rigore.
La Liguria di Ossi di seppia – non quella oleografica delle cartoline solari, ma quella dura, scabra, bruciata dal sale e dalla luce implacabile – non è mai scenario neutro o pittoresco, bensì territorio esistenziale, paesaggio metafisico, orizzonte della disillusione. Non vi è traccia, nei versi montaliani, dell’idillio naturalistico o dell’estasi panica che, in diversa misura, informavano la poesia ottocentesca e la stagione decadente: il mare ligure non canta, la terra non fiorisce, il vento non accarezza. Al contrario, tutto è inciso, arido, refrattario alla dolcezza, come se la natura stessa si fosse pietrificata in una sorta di impassibilità cosmica. La costa ligure si fa così icona geografica dell’aridità spirituale della modernità, della perdita di senso, del venir meno di ogni intimità tra soggetto e mondo.
È in questo contesto che va letta una delle più celebri immagini montaliane, divenuta emblema di un’intera poetica: «Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto». Qui, il gesto più banale – il sostare in silenzio accanto a un muro infuocato – assume valore conoscitivo, quasi sacrale, eppure senza rivelazione. È una sospensione del tempo, un’ora vuota e immobile che non concede nulla allo slancio né all’attesa: e proprio in questa stasi accalorata si condensa l’intera condizione dell’uomo moderno. Un kairos rovesciato, privo di epifania: si è lì, inerti, consumati da un sole senza volto, mentre tutto attorno tace. L’inerzia del paesaggio diventa specchio dell’interiorità o, meglio, del suo svuotamento: non è l’anima che si riflette nella natura, ma la natura che, nella sua muta evidenza, rivela l’inanità dell’anima.
Il paesaggio ligure si configura allora come una sorta di correlativo oggettivo – per riprendere la formula eliotiana tanto cara a Montale – del senso di estraneità radicale che l’io sperimenta di fronte al reale. Nessuna armonia, nessuna comunione panica: ciò che permane è la distanza, la non-coincidenza, l’irrimediabile differenza tra l’io e il mondo. Franco Fortini, con la consueta lucidità, ha osservato che «in Montale, la natura è una geometria di pietre e spine, un’acustica del silenzio»: e in questa definizione – geometria e silenzio – si condensa una visione anti-lirica, rigorosa, spogliata di ogni residuo mitico. La natura montalianamente intesa non consola, non parla, non accoglie: si offre come presenza muta, come enigma indecifrabile, come tessuto sensibile in cui l’uomo si aggira, e da cui è escluso.
Se in Leopardi il paesaggio conteneva ancora una tensione drammatica tra finito e infinito, tra illusione e verità, in Montale esso è già del tutto disilluso, privo di tensione metafisica. È, per così dire, un paesaggio post-leopardiano, in cui la natura matrigna ha smesso persino di essere ostile: semplicemente, non è. L’ordine cosmico si è dissolto in una fenomenologia dell’indifferenza. Ma proprio in questa indifferenza si consuma la possibilità di una poesia non menzognera, capace di nominare il vuoto senza ornamento, di opporre alla retorica dell’armonia una lingua sobria, sorda al canto ma fedele alla verità del silenzio.
Montale non cerca un altrove in cui redimersi: si trattiene tra le pietre, nelle rotture del reale, nella luce obliqua che accende il profilo delle cose senza illuminarne il senso. Non vi è dunque fusione mistica, ma una resistenza vigile. E in questa resistenza, in questo «meriggio» senza ombra, si consuma il destino di una poesia che ha rinunciato all’assoluto per restare nel mondo, anche quando il mondo sembra aver rinunciato a noi.
Il paesaggio ligure, in Ossi di seppia, è investito di una forza radicalmente anti-idillica: esso non è il grembo pacificato della natura madre, né lo sfondo decorativo delle emozioni soggettive. Al contrario, si erge come un campo di forze ostili o, peggio, indifferenti, in cui l’io non si dissolve, ma si frantuma. Non vi è fusione, né rispecchiamento: l’io non è accolto, bensì misurato, stretto, assediato da un reale che non si apre mai fino in fondo alla comprensione né alla consolazione. Questo paesaggio, aspro e disseccato, è cifra e sintomo di una crisi: crisi della presenza, crisi della parola, crisi del senso. Non è uno scenario, è un evento. E l’evento è, per l’appunto, l’interruzione del legame fra l’uomo e il mondo.
Non è un caso, allora, che Ossi di seppia sia una poesia dello scarto, dell’inciampo, dell’epifania negata. Ogni componimento sembra aggirarsi attorno ad un’assenza, ogni immagine si volge verso qualcosa che manca o che sfugge. Al posto dell’illuminazione estatica, resta il relitto, la scheggia, il frammento: «il falco alto levato», figura che tradizionalmente rimanderebbe all’ascesa, al messaggio, all’irruzione dell’alto, si blocca invece in una stasi enigmatica. Esso non reca salvezza, non annuncia verità, ma si staglia nel cielo come un ideogramma indecifrabile, come una domanda sospesa nell’aria: «e il falco alto levato / par che il cerchio chiuda». Quel cerchio – si comprende – non si chiude davvero: resta una promessa non mantenuta, un sigillo rotto, una scrittura muta nel cielo terso.
In Montale, l’epifania non è solamente ritardata: è già fallita in partenza. Non vi è rivelazione, ma solo la nostalgia di ciò che avrebbe potuto esserlo. È questa la distanza irriducibile tra Montale e i mistici della modernità, da Rilke a Claudel, per i quali la parola poetica è ancora ponte verso l’invisibile, soglia dell’Assoluto. Se in Rilke il mondo è ancora trasparente al divino – «Denn das Schöne ist nichts / als des Schrecklichen Anfang» – in Montale è opaco, sordo, impraticabile. Nessuna «quarta dimensione» si apre oltre le cose: restano solo le cose, nella loro irriducibile contingenza, nel loro essere res non transitiva. La poesia non è più lo spazio dell’epifania, ma del lutto dell’epifania.
Ecco, perché il paragone più pertinente non è con i poeti del sacro, bensì con quei pensatori che hanno fatto dell’assenza e del vuoto la cifra stessa della condizione umana. Più vicino a Montale è Pascal, con il suo Dio silenzioso, il suo universo vuoto, «che mi sgomenta»; o ancora Leopardi, nel cui pensiero la natura ha cessato ogni funzione provvidenziale per farsi meccanismo cieco, teatro dell’illusione disfatta. L’«ermo colle» leopardiano – che pure contemplava ancora un residuo di dolcezza, un naufragio in cui abbandonarsi – si converte, in Montale, nel «rovente muro d’orto»: non un luogo elevato e contemplativo, ma una parete accaldata, un confine invalicabile, un muro che non apre orizzonti ma li serra.
Il «naufragar m’è dolce in questo mare» si trasfigura, con ironica crudeltà, nell’«odore dei limoni» che «per un momento, ci illude / che il destino ci scopra»: ma è un’illusione breve, effimera, fragile come la scorza dei frutti. Non vi è dolcezza in cui perdersi, ma solo l’amaro della coscienza che riconosce, anche nel barlume, il proprio abbaglio. L’esperienza lirica è un’esperienza della soglia, una soglia che non si spalanca. Proprio per questo è tragicamente moderna: perché dice, senza infingimenti, che l’oltre non si dà, e che all’uomo non resta che restare in ascolto di un silenzio che non si rompe.
Questa poesia dello scarto e dell’assenza non è però rinuncia o afasia: è etica del disincanto. In un’epoca che pretende redenzioni facili, Montale ha avuto il coraggio dell’incompiutezza, della parola che non si gonfia, della visione che manca. In ciò consiste la sua grandezza e la sua irriducibile attualità. Scrivere poesia, per lui, non era «aggiungere bellezza al mondo», ma nominare la frattura, mantenere aperta la ferita del senso. Un compito austero, ma necessario. Oggi, forse, più che mai.
Per Montale, la poesia non è oracolo né confessione, non è funzione sacrale né effusione dell’anima. È, piuttosto, esercizio del negativo, gesto critico, messa in forma dell’assenza. Essa non nasce da un’estasi né da una pienezza, ma da un vuoto che resiste alla nominazione e tuttavia la sollecita. È una parola che si pronuncia nonostante: nonostante il silenzio del mondo, nonostante l’inafferrabilità del senso, nonostante la consapevolezza che ogni nome è inadeguato. L’intero impianto di Ossi di seppia si fonda su questa coscienza intransigente del limite.
A ben vedere, la poesia di Montale si configura come una metafisica negativa, non troppo distante, nel suo rigore, da quell’arte del silenzio che fu, per altre vie, la pittura di Giorgio Morandi. Anche in Morandi, infatti, ciò che colpisce non è tanto l’oggetto in sé – bottiglie, vasi, scatole – quanto lo spazio fra gli oggetti, la loro disposizione, il ritmo quasi liturgico del vuoto che li separa. È la pausa, l’intervallo, a diventare significante. Così, in Montale: più che i nomi, contano le omissioni; più che le presenze, le assenze; più che l’affermazione, la reticenza. Come ha scritto Mario Perniola, «la grande poesia moderna è sempre poesia dell’intervallo» – ed è esattamente questo che accade in Ossi di seppia: un’arte fatta di sospensioni, di ellissi, di silenzi più eloquenti della parola.
L’io lirico si colloca sempre in una posizione decentrata, defilata, come se osservasse da un margine che è anche una distanza ontologica dal mondo. È un soggetto che non proclama, ma sussurra; non impone, ma accenna; non si afferma, ma si interroga. La sua voce è timida, ironica, spesso persino autoironica, e tuttavia incapace di tacere del tutto. Per quanto consapevole della propria inadeguatezza, egli non rinuncia al gesto poetico, che non è mai celebrazione né lirismo autoreferenziale, ma testimonianza. Testimonianza, sì, ma del vuoto: di ciò che non c’è, di ciò che non accade, di ciò che si desidererebbe ma che resta inaccessibile.
In questo senso, l’atto poetico in Montale non è tanto il tentativo di redimere la realtà, quanto quello di registrarne il diniego. «Solo ciò che è perduto / ci è dato veramente», scriveva Simone Weil: e questa frase potrebbe valere da epigrafe per l’intera produzione di Montale, che della perdita fa la sua verità più propria. La parola poetica non salva, ma resiste. Non illumina, ma attraversa l’ombra. Non redime, ma dice, con onestà quasi crudele, che nulla sarà redento.
Emblematica, in questo senso, è l’autodefinizione che Montale offrirà molti anni dopo, in Satura, laddove scrive: «colui che vive di negazioni, / che ama la luce perché la sa negata». In queste due linee si condensa tutta la sua poetica: vivere di negazioni non significa scegliere il nichilismo, ma assumere su di sé la responsabilità dell’ombra; amare la luce proprio in quanto negata è la forma più alta, più tragica e più consapevole, di fedeltà. La poesia non è dunque un lusso dell’anima, ma un esercizio ascetico, quasi una pratica della povertà: povertà di senso, povertà di linguaggio, povertà di consolazioni. Eppure, proprio in questa nudità si rivela la sua necessità: come scriveva Paul Celan, «la poesia è forse solo questo: un respiro». E Montale, più di ogni altro nel suo secolo, ci ha insegnato a respirare nel vuoto.
La disillusione che pervade Ossi di seppia non si configura come una posa intellettuale o un’espressione di stanchezza culturale, bensì come un habitus ontologico, una postura originaria dell’essere dinanzi al mondo. Non si tratta di un atteggiamento tra gli altri, ma del fondo stesso da cui scaturisce ogni parola poetica. In Montale, il disincanto non è il punto d’arrivo, bensì la condizione da cui si parte: non c’è mai stata un’età dell’oro da rimpiangere, né una perdita dell’armonia cosmica da narrare con malinconia elegiaca. L’uomo montaliano nasce già fuori dall’Eden, già separato, già straniero a sé stesso e al mondo. La poesia, in questo orizzonte, non è nostalgia, ma diagnosi.
La celebre immagine dell’«uomo che si china / per raccogliere un sasso, e si ferisce il ginocchio», oppure quella, ancor più icastica, del «male di vivere» colto nell’urto contro le cose – «ho incontrato il male di vivere. Era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l’incartocciarsi della foglia riarsa, / era il cavallo stramazzato» – non sono meri emblemi lirici, ma vere e proprie fenomenologie del trauma dell’esistere. In Montale, l’esistenza si manifesta come urto, come frizione, come kontaktnahes Erschrecken, per dirla con Benjamin: uno spavento a contatto ravvicinato con la materia opaca del mondo. Il reale, lungi dall’offrirsi come ordine intelligibile o come spazio di redenzione, si presenta sotto forma di ostacolo, di offesa, di indizio non decifrabile. In ciò si rivela la distanza di Montale da ogni fiducia umanistica nella razionalità della storia o nella trasparenza del linguaggio.
Il suo scetticismo, infatti, è radicale e senza rimedio: non si limita a negare il senso manifesto delle cose, ma si estende alla possibilità stessa che esse abbiano un senso. È, in fondo, un rifiuto metafisico, non ideologico, dell’ordine del mondo. Montale è il poeta che ha tolto alla natura il suo alone sacrale, alla storia la sua presunta razionalità, alla parola la sua pretesa referenzialità. Ogni sua immagine è una smentita dell’illusione, ogni suo verso una disarticolazione dell’enfasi lirica tradizionale. La sua è una poesia che, come scrive Giorgio Caproni, «ha visto Dio, ma solo di spalle, mentre se ne andava».
Da qui, deriva quella tensione profondamente tragica che anima tutta la raccolta: il poeta non può tacere, ma sa che la sua parola non redime; non può credere, ma non rinuncia del tutto alla domanda; non può aderire al mondo, ma ne resta dolorosamente invischiato. È il paradosso della modernitas in quanto tale, quello che già Leopardi aveva intuito – l’uomo condannato a cercare un senso in un universo muto – ma che Montale porta alle estreme conseguenze. Il dolore non è per lui un accidente dell’esistenza, ma la sua cifra essenziale, la sua verità più intima.
Come Pascal, Montale sente che l’uomo è «un roseau pensant», una canna pensante, fragile, destinata alla rovina, ma capace, nel medesimo istante in cui percepisce l’assurdo, di elevarsi per il solo fatto di comprenderlo. Eppure, a differenza del moralista francese, non vi è in lui alcun abbandono alla fede. Il male di vivere non trova compensazione teologica né sublimazione estetica. Resta lì, dato, come una pietra nel paesaggio ligure: urtato, non compreso. Ed è in questo urto che Montale riconosce la propria veritas poetica.
Non sorprende, dunque, che la sua parola non si cinga di aure mistiche né si travesta da sentenza. È una parola ferita, dimezzata, che sa di non poter essere fondativa ma che, proprio per questo, conserva una nobile onestà. Come ha scritto Guido Guglielmi, Montale è il poeta dell’«etica dell’inoperosità»: non nel senso di un nichilismo sterile, ma in quello di una resistenza del pensiero alla tentazione del compiacimento lirico. L’esistenza è opaca, il mondo è refrattario, il linguaggio è insufficiente – eppure, si scrive. Non per costruire cattedrali verbali, ma per registrare una mancanza. Non per fornire risposte, ma per porre con rigore, quasi con ascesi, la domanda che non si estingue.
Nondimeno, nonostante tutto – o, forse, proprio in virtù di tutto ciò – la poesia resta possibile. Anzi, paradossalmente, è proprio nel vuoto lasciato dalla caduta delle grandi narrazioni, nello smarrimento dell’io moderno, nella rarefazione delle certezze ontologiche ed etiche, che essa trova il suo spazio, la sua condizione di necessità. È a partire da questa povertas, da questa nudità radicale dell’essere, che la parola poetica in Ossi di seppia si fa nobile senza magniloquenza, classica senza accademismo, intellettuale senza ermetismo. Una parola che rifugge tanto il canto quanto l’oracolo, e che si colloca, con discrezione, nella zona del «quasi»: quasi musica, quasi profezia, quasi rivelazione.
Montale stesso, in una lettera a Sergio Solmi del 1931, parlava di un «fondo di disperazione quieta» da cui germina la sua poesia. Non è un caso che abbia scelto il lessico della calma, della compostezza: si tratta di una disperazione che non urla, non sbraita, non si abbandona al patetico; al contrario, si struttura come silenzio che affiora, come tensione contenuta, come rigore estremo. In ciò, la sua poesia è antitetica sia alla retorica dell’evasione lirica sia all’estetica dell’urlo avanguardistico. Montale sceglie la misura breve, l’andamento prosastico, il tono anti-celebrativo, come risposta morale prima ancora che formale alla crisi della parola poetica in un mondo disincantato.
In un Novecento attraversato da ideologie totalizzanti, da estetiche del sublime politico, da poetiche del delirio e della rottura, Ossi di seppia si colloca, con aristocratica alterità, come controcanto umile e insieme inesorabile. La poesia, qui, non si pone più come costruzione di un mondo, ma come feritoia, fenditura, strappo nella trama dell’opacità. È in questa luce che va letta una delle immagini più enigmatiche e folgoranti dell’intera raccolta: quella della «maglia rotta nella rete», dove «si può passare». L’apparizione non è qui concessa nella forma della visione piena, della teofania; al contrario, si dà nell’istante della mancanza, dell’anomalia. È proprio nella lacerazione del testo del mondo – come nella tela di Penelope prima che arrivi l’alba – che si può, per un istante, intravvedere ciò che non si lascia afferrare.
La «maglia rotta» è, così, l’epifania laica di una verità che non si impone, ma balugina; non redime, ma inquieta; non spiega, ma allude. Non è trasparenza, ma fremito d’opacità. In tal senso, Montale si pone come un moderno Orfeo che, ben sapendo che Euridice andrà perduta, non rinuncia al canto – ma un canto spoglio, spezzato, decantato fino all’osso. Non canta l’essere, ma la sua sottrazione; non la salvezza, ma l’attimo in cui, nel pieno del nulla, si apre una possibilità.
Questo gesto, al contempo stoico ed elegiaco, ha qualcosa dell’ethos classico dei grandi tragici greci, e insieme del rigore razionale di un Leopardi o di un Valéry. È una poesia che accetta la finitudine come orizzonte insuperabile, ma che proprio per questo non cede né al lamento né al cinismo. Montale cammina lungo un crinale difficilissimo: dire la verità della perdita senza farsi profeta della catastrofe, conservare il senso della forma in un’epoca che idolatra l’informe, esercitare la ragione senza spegnere del tutto il desiderio di una qualche salvezza negativa, come la chiamerebbe Adorno. Una salvezza che non arriva, ma la cui assenza diventa la condizione per continuare a parlare.
Cent’anni dopo la sua comparsa, Ossi di seppia non solo continua a parlare, ma lo fa con una voce che suona oggi più che mai necessaria. In un’epoca in cui la parola sembra aver perduto ogni gravitas, in cui il linguaggio poetico viene sovente degradato a flusso emozionale, a confessione rapida, a esibizione sentimentale o a vetrina identitaria, la lezione montaleana risplende come un monito severo e insieme liberatorio. Montale ci ricorda – con la forza tranquilla di chi non ha mai ceduto alle mode né ai clamori – che la poesia non è mai uno sfogo, né un’«espressione di sé», bensì un’arte dell’ascolto, del silenzio, dell’interrogazione. Come scriveva Paul Valéry, «la poesia non è il linguaggio naturale dei sentimenti, ma un esercizio di pensiero sotto forma di canto».
Ecco, perché Ossi di seppia ci appare oggi non come un monumento da commemorare, ma come un testo vivo, ostinato, capace ancora di sottrarci alla facilità del dire, al logorìo della chiacchiera, alla pornografia dell’intimità che pervade tanta parte della produzione lirica contemporanea. È un libro che insegna il pudore, la misura, il disincanto – ma non nel senso della sterilità o del gelo affettivo, bensì come etica della parola, come tensione al vero. In un’epoca che idolatra l’autenticità come spontaneismo, Montale insegna che il vero non è mai immediato, che ogni parola degna è il frutto di un’epurazione, di una resistenza, di un rigore. Non a caso, Italo Calvino parlava della «leggerezza montaleana» come della forma più alta della precisione: «levità non come fuga dal peso del vivere, ma come modalità per attraversarlo con grazia e fermezza».
La poesia di Montale si oppone, dunque, a due nemici egualmente nefasti: da un lato, la retorica dell’ineffabile come alibi dell’arbitrarietà; dall’altro, la trasparenza banale del sentimentalismo. Egli ci ricorda che nominare il mondo non è affatto un atto neutro, ma un’operazione che implica responsabilità etica, consapevolezza storica, esattezza formale. Ogni verso è un gesto sul ciglio dell’abisso, un passo nella penombra dell’ignoto. Per questo, nella poesia montaleana, come in certe tele di Morandi o nei silenzi più densi di Webern, lo spazio tra le cose parla quanto e più delle cose stesse. Si tratta di un’arte che sa che il vuoto ha una sua gravità, e che la forma è il solo modo per abitare l’informe senza esserne travolti.
In tal senso, la lezione di Ossi di seppia si fa oggi controcanto critico in un panorama culturale dominato dalla rapidità, dall’immediatezza, dalla perdita del senso del limite. Montale, con la sua poesia fatta di scarti, di pause, di fratture significanti, ci ricorda che ogni parola degna di essere detta deve essere guadagnata. Che la verità, se esiste, non è mai piena, mai definitiva, ma si affaccia – come la già evocata «maglia rotta nella rete» – solo in quanto mancanza. Ed è in questa rarefazione, in questo gioco sottile tra presenza e assenza, che la poesia trova la sua funzione più alta: non spiegare il mondo, ma renderne avvertibile il mistero.
Simone Weil, a cui Montale non fu estraneo, scrisse in una pagina folgorante che «la bellezza del mondo è l’ombra della giustizia di Dio». La poesia, se è grande arte, se rinuncia a ogni compiacimento e si radica nella privazione, può diventare allora non una forma di consolazione, ma una veglia. Una veglia nel deserto. In questa prospettiva, Ossi di seppia si mostra come una forma di teologia negativa secolarizzata: un tentativo di nominare ciò che sfugge, di dare figura al vuoto senza mai colmarlo. Non è teofania, ma traccia; non rivelazione, ma enigma. E proprio per questo – perché non promette salvezza, ma educa allo sguardo lucido e al passo sobrio – questo libro ci riguarda oggi più che mai. È il testamento di una poesia che sa di non poter cambiare il mondo, ma che si ostina a dirne il dolore, la frattura, l’inappartenenza. E nel farlo, lo onora.
Ecco perché Ossi di seppia non può essere relegato alla categoria, spesso fuorviante, dell’«opera prima». In esso non troviamo alcun fremito ingenuo, nessuna esitazione aurorale: vi è già, piuttosto, la cristallizzazione di un’intera Weltanschauung, la precipitazione stilistica e filosofica di una consapevolezza pienamente formata, anche se non ancora esausta. Non si tratta, dunque, del semplice esordio di un autore destinato a maturare col tempo, ma di una vera e propria opera fondativa: non l’inizio di una carriera, ma l’instaurazione di una nuova etica della parola poetica, capace di attraversare – e non eludere – la crisi della modernità.
In questo senso, Ossi di seppia rappresenta per Montale ciò che La terra desolata fu per T. S. Eliot o Mohn und Gedächtnis per Paul Celan: non la prima voce di un lungo cammino, ma una frattura irrimediabile, un prima e un dopo nella poesia del proprio tempo. In tutti e tre i casi, la parola poetica non si erge a sistematizzare il reale, né a consolarlo, né tanto meno a sublimarlo: essa interviene quando tutto è crollato, quando il linguaggio ordinario ha perduto credibilità, quando il mito si è dissolto e Dio si è ritirato. È, per così dire, ciò che resta dopo la catastrofe, un gesto minimo che resiste al collasso. La poesia, scrive Celan, «è un respiro che resta fedele alle sue origini» – e Montale, con la medesima ostinazione, plasma la sua lingua come residuo, come scoria nobile, come testimonianza senza trionfo.
Il titolo stesso della raccolta – Ossi di seppia – si fa così emblema di una condizione ontologica e gnoseologica insieme. L’«osso», scheletro calcareo lasciato dal mare su spiagge deserte, esprime la fragilità dell’umano dopo l’urto con l’assurdo del reale; la seppia, mollusco mimetico per eccellenza, richiama quella tensione tra presenza e occultamento che percorre tutta la poesia montaleana. Ma soprattutto, in quell’«osso» si condensa una poetica del residuo: ciò che sopravvive all’effimero, ciò che non ha più carne, ma che non per questo ha smarrito la sua forma. È l’essenziale che resiste – e proprio in questa resistenza muta, esposta, quasi mineralizzata, si conserva l’ultima forma possibile di dignità. Come scrisse Andrea Zanzotto, «la parola in Montale non salva, ma salva la possibilità della parola».
In tale gesto – scavato, ridotto all’osso, e tuttavia ostinatamente presente – si manifesta una poesia che non pretende di spiegare il mondo, ma si incarica del suo peso. Non canta, ma allude. Non rivela, ma segnala. E proprio perché non afferma, non impone, non consola, essa acquista un’aura di necessità. È l’arte povera, disadorna, disincantata che tuttavia, nel rifiuto di ogni inganno, custodisce un barlume di verità. In Montale, come in alcuni testi ultimi di Hölderlin o nei versi frugali di Emily Dickinson, è proprio il frammento – e non il sistema – a farsi custode del senso. L’osso è quanto rimane quando tutto è stato spolpato: e tuttavia, in questo avanzo spettrale, in questa scabra testimonianza, pulsa una fierezza irriducibile. La poesia – pur ridotta al suo minimo grado – non cessa di essere misura dell’umano.
Giusy Capone
(n. 6, giugno 2025, anno XV) |
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