Badanti romene in Italia: una scelta consapevole verso l’autodeterminazione

Nel presente studio si è voluto indagare il fenomeno delle donne romene che scelgono di lasciare il proprio Paese per venire a lavorare in Italia, andando a occupare un vuoto assistenziale, cioè la cura dei soggetti più fragili della popolazione: gli anziani.
Il lavoro che qui si presenta non è meramente teorico, bensì rappresenta il risultato della somministrazione di questionari, della realizzazione di interviste nonché di una serie di incontri con donne romene che lavorano come badanti (caregiver).
Per la ricerca, si è voluto utilizzare, tra gli altri, anche il metodo autobiografico, che ha consentito a queste donne di raccontarsi in prima persona, libere di riportare le loro esperienze, offrendo così l’opportunità di tracciare un quadro che, per quanto diversificato, mostra percorsi e storie comuni: quelli di donne maltrattate, a volte abusate, che abbandonano la loro casa, zona di confort nonostante tutto, e quelli di donne che colgono l’opportunità del lavoro in terra straniera per perseguire l’autodeterminazione e per poter in definitiva scegliere la direzione del proprio futuro.
Nell’immaginario di queste donne il viaggio rappresenta l’inizio di una storia di riscatto per loro e soprattutto per i loro figli, un miglioramento sostanziale delle condizioni sociali ed economiche di partenza, giacché provengono in gran parte da zone rurali particolarmente arretrate e depresse.
Certamente non sono storie facili, perché narrano sostanzialmente di abbandoni, non solo della terra d’origine, ma anche della famiglia e dei figli, abbandoni che sicuramente segnano nel profondo l’animo delle donne che vivono il distacco e il disagio della lontananza; lo si evince anche dalla difficoltà di stabilire con loro un contatto per farle aprire al racconto. Nonostante l’interlocuzione che ha portato alle narrazioni iniziasse sempre nella lingua madre delle donne intervistate e nonostante le domande dei questionari cartacei somministrati venissero poste anch’esse in romeno, non è stato affatto semplice iniziare a parlare con loro; si è dovuto, infatti, prima di tutto vincere una diffidenza di fondo, che è espressione anche di un certo retaggio politico-culturale e che nell’arco di 50-60 anni ha modificato, per così dire, l’attitudine di un popolo intero  il quale, in quanto latino, conserva pur sempre nel proprio DNA una cifra importante relativa al carattere aperto e all’indole solare e accogliente, tipica dell’area romanza europea, conosciuta anche col nome di «Romània». Per tale motivo è stato necessario instaurare un rapporto di interazione personale che, anche se non stretto (per l’esigenza di mantenere un certo rigore nella raccolta dei dati), trasmettesse la sensazione generale di una serena comunicazione, non solo per scardinare il muro di diffidenza nei confronti dell’interlocutore (che si presentava come interessato alle storie di migrazione per una ricerca universitaria), ma soprattutto per far sì che le intervistate si aprissero e si disponessero al racconto con naturalezza per condividere la loro storia personale [1].


Falle del welfare in Italia

Prima di arrivare però alle storie di queste donne e per capire la motivazione che le spinge a venire in Italia, è necessario prendere le mosse dalla situazione italiana stessa che, a causa di cambiamenti importanti in ambito sociale, in generale, e nell’organizzazione della famiglia, più in particolare, ha creato la necessità di dover fare ricorso ad aiuti esterni per la cura dei soggetti fragili all’interno della famiglia.
In particolare il settore domestico in Italia, e soprattutto nel centro-sud [2], vede la presenza numerosa di donne provenienti dai Paesi dell’Europa dell’Est, in particolar modo dalla Romania, le quali svolgono il ruolo di badante, termine che sta a indicare proprio quelle figure che si prendono cura, in maniera pressoché esclusiva, degli anziani e dei soggetti fragili di cui la famiglia per vari motivi non riesce più a occuparsi.
La necessità di assumere donne straniere, provenienti come abbiamo detto per lo più dai Paesi dell’Europa dell’Est, secondo quanto emerso dalla presente ricerca relativa alle regioni del Centro-sud Italia,  nasce principalmente dalla volontà di non affidare le cure dell’anziano a strutture specializzate, come ad esempio le case di cura o le RSA, ma di permettergli di rimanere nella propria casa, in modo da non fargli vivere il trauma dell’allontanamento e dell’abbandono di quella confort zone, che per una persona in età avanzata in particolare (o per un soggetto fragile più in generale) può essere costituita dai propri spazi – quelli noti, conosciuti a fondo e pertanto vissuti in sicurezza –, dai propri oggetti, dai propri  ricordi e, non da ultimo, dalle proprie abitudini [3]. In genere, infatti, viene offerto a queste donne, che vengono da molto lontano, anche una sistemazione che assicura tranquillità, con vitto e alloggio; vengono assunte infatti e per lo più accolte in casa, proprio per vivere insieme all’anziano, con orari di lavoro che, quindi, non sono certo quantificabili. Per queste donne si tratta in definitiva di trascorrere ‘pezzi di vita’ insieme a una persona bisognosa di cure a cui spesso e volentieri si affezionano.
Tutto ciò, come si è accennato dianzi, è l’epilogo di una serie di cambiamenti sociali a cui abbiamo assistito soprattutto nel corso degli ultimi 30.40 anni. In passato, prima degli anni ‘70, le famiglie italiane erano molto numerose [4].
Negli anni successivi invece, a partire dagli anni Settanta (dopo il ’68 e l’inizio del processo di emancipazione della donna), si è assistito a un vero e proprio calo delle nascite, per cui le famiglie hanno cominciato ad avere una prole assai più ridotta, non più di uno o due figli [5]. Inoltre, gli anni ’70 segnano un momento topico nel cambiamento dell’assetto sociale, in quanto non esiste più quella distinzione fissa e non superabile del passato, secondo la quale uomini e donne hanno ruoli definiti [6]; entrambi svolgono un lavoro fuori casa, per cui le donne non possono più occuparsi in maniera esclusiva dei soggetti più fragili, bambini e anziani, ma hanno bisogno di un aiuto che le sostenga in quelli che fino a poco tempo prima erano stati considerati i loro compiti specifici. Di contro, è cambiata la qualità della vita che ha fatto sì che aumentasse anche l’età media e con essa, di conseguenza, anche il numero degli anziani.   
Dal 1950 ad oggi, infatti, la popolazione italiana ha subito un forte invecchiamento, dovuto a due fattori principali strettamente connessi: un significativo aumento della speranza di vita e un forte calo della natalità.

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Fonte: ONU, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, World Population Prospects 2019,
Volume II: Demographic Profiles

L’Italia è il Paese d’Europa con la più alta incidenza di over 65 sulla popolazione totale; il 21,4% della popolazione ha più di 65 anni e l’11,7%, cioè più di sette milioni della popolazione totale, ha più di 75 anni [7]. Proprio l’innalzamento dell’aspettativa di vita ha portato a una maggiore preoccupazione per gli anziani, anche perché, lo si è visto, se da un lato è aumentata l’età media, dall’altro è diminuito il numero di figli, con una conseguente preoccupazione per la cura dell’anziano e per chi si deve occupare di lui.
Nonostante questi cambiamenti, sono sempre le famiglie ad avere l’onere di occuparsi degli anziani, sia quando se ne fanno carico direttamente, che quando delegano «l’assistenza a personale domestico o di prossimità che vive sotto lo stesso tetto, con livelli di professionalità limitati o comunque non formalizzati, rispetto alle norme del mercato del lavoro e del sistema d’istruzione italiano. Tale scelta garantisce, come è noto, costi di assistenza contenuti, nonché forme di personalizzazione e continuità del prendersi cura, socialmente apprezzate» [8].
Se infatti nelle famiglie numerose, la gestione dell’anziano era un tempo condivisa da almeno tre figli, oggi come si è detto si parla di nuovi tipi di famiglie, con uno o due figli al massimo o senza figli. L’evoluzione del nucleo famigliare nel corso degli ultimi decenni infatti ha subito evidenti cambiamenti, soprattutto rispetto alla sua composizione. Ciò significa che le famiglie sono cambiate e con loro sono cambiate anche le reti di caregiving.

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Ciononostante, nelle regioni oggetto della presente indagine, la possibilità di mandare gli anziani nelle case di riposo non viene presa in considerazione se non in casi estremi; del resto, il numero di persone anziane che in Italia risiedono nelle case di riposo, o residenze per anziani, è il più basso d’Europa. 
I miglioramenti che ci sono stati nella cura della salute e della persona in generale, hanno portato a un cambiamento della qualità della vita. Sempre più spesso, infatti, gli anziani sono autosufficienti, stanno bene, fanno movimento, mantengono il fisico e la mente attivi, sempre più frequentemente sono tutto sommato in discrete condizioni di salute anche in età avanzata e non intendono rinunciare alla propria libertà [9]. Per un lungo periodo dopo il raggiungimento dell’età della pensione, anzi, sono sempre più frequentemente proprio loro ad aiutare i figli, ospitandoli per esempio nelle proprie case (laddove gli affitti delle grandi città sono insostenibili da parte di famiglie che, per quanto piccole, dispongono comunque di redditi limitati) o occupandosi dei nipoti. Quando però non sono più così autonomi, sorge il problema della loro gestione.
L’Italia, e soprattutto l’Italia del centro-sud, è ancora combattuta tra due modelli totalmente distinti tra loro. Da un lato il modello tradizionale, che vorrebbe la donna a prendersi cura della casa e della famiglia, occupandosi di tutte quelle che sono considerate categorie fragili, cioè anziani e bambini; dall’altro, il modello moderno che vuole la donna lavoratrice, indipendente economicamente, con gli stessi diritti e doveri dell’uomo e che quindi non può più occuparsi da sola o in maniera esclusiva della cura domestica a tutto tondo.
Poiché l’Italia vive ancora in balia di questi modelli culturali contrapposti, la soluzione viene individuata nell’assunzione di persone, donne, donne straniere per lo più, che si fanno totalmente carico degli anziani e dei soggetti fragili più in generale. Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio DOMINA sul lavoro domestico, i lavoratori impiegati nel settore dei servizi di cura si dividono tra conviventi con l’assistito e non conviventi: tra questi, il 91% dei primi e il 77% dei secondi è di origine straniera [10].
Ciò detto, il trend dello sviluppo demografico, il conseguente invecchiamento della popolazione e l’ulteriore cambiamento atteso dei modelli sociali e delle strutture familiari, che si fanno sempre più frammentate, lasciano prevedere dunque per gli anni a venire un incremento del fabbisogno di badanti sostenuto dalla famiglia.


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La migrazione delle donne romene e la «Sindrome Italia»

Come già si è detto, la maggior parte delle badanti cui vengono affidati gli anziani italiani viene dalla Romania e, in particolare da piccoli centri rurali; queste donne sono disposte a lasciare tutto, famiglie, mariti e figli compresi, per garantire, non tanto a sé stesse quanto ai loro figli una vita migliore.
La maggior parte delle donne che sono state intervistate ha dichiarato di provenire da una situazione economica e sociale estremamente disagiata. Molte hanno reso una testimonianza importante, che aiuta a capire la motivazione che sta alla base della decisione di partire; nei racconti, descrivono le case che hanno lasciato in Romania: nelle zone rurali queste conservano ancora la struttura tradizionale contadina che prevede ad esempio i servizi igienici situati al di fuori della casa, nel cortile. A prescindere dalla situazione di partenza, queste donne sono disposte a lasciare tutti i loro punti di riferimento.
Le ricerche e gli studi che sono stati fatti fino ad ora (e anche i report di un certo giornalismo d’inchiesta) danno una visione sostanzialmente negativa del tipo di lavoro che le donne romene svolgono nelle case degli italiani; mostrano infatti come la cura degli anziani diventi di fatto la loro vita, volendo con ciò intendere che queste donne conducono una vita reclusa fra le pareti domestiche delle case che le accolgono, poiché non viene loro concesso alcun giorno libero, se non una o due mezze giornate durante la settimana, e non sono libere di tornare regolarmente in patria perché molto spesso non hanno rapporti di lavoro regolarizzati[11]. Normalmente, tutte le badanti che vivono in Italia e lavorano in un certo territorio (città o piccolo centro che sia), come un tam tam, si passano parola e scelgono tutte di poter godere della stessa mezza giornata di riposo (che quasi sempre è un giorno a metà settimana, il mercoledì o il giovedì) per potersi incontrare, stare insieme, scambiarsi informazioni, anche di natura professionale (come si misura per esempio la pressione, a quali segnali bisogna prestare più attenzione e via dicendo…), e per parlare nella loro lingua. In tutte le comunità in cui vivono donne romene, si elegge un luogo di incontro per vedersi e stare insieme e sempre più spesso anche per dare e ricevere informazioni relative alla richiesta di nuove badanti, babysitter e colf, e alla ricerca di lavoro più in generale, anche a ore; per esempio il luogo di incontro delle signore romene a Bari è il giardino antistante la Stazione Ferroviaria, a Palermo è il Giardino degli Inglesi, a Pescara è Piazza del Sacro Cuore.
Gli studi che sono stati condotti tra il 2005 e il 2012 sulla sofferenza e su una certa serie di sintomi delle donne romene che lavorano in Italia, evidenziano l’esistenza di una vera e propria forma di depressione che viene chiamata «Sindrome Italia» [12]. Questa serie di disturbi è stata descritta e diagnosticata per la prima volta nel 2005 da due psichiatri di Kiev, che hanno osservato sintomi simili tra le donne romene, ucraine, polacche, moldave e filippine che vengono in Italia per assistere anziani e persone non autosufficienti.
In realtà, al contrario di quanto si legge in articoli e report giornalistici che fanno riferimento a questi studi, la «Sindrome Italia» è stata considerata fin qui come un vero e proprio «fenomeno medico-sociale»; ciò si riferisce al fatto che si viene a creare un vero e proprio legame affettivo tra queste donne e gli anziani di cui esse si prendono cura. Di fatto le badanti si trasformano da carekeeper in caregiver, la loro opera cessa di essere meramente professionale, diventano parte integrante della famiglia di cui si prendono cura. Il tempo che passano con i loro anziani è un tempo prolungato; infatti, come già detto, spesso hanno solo mezza giornata di riposo oltre alla domenica, quindi allontanarsi da quello che doveva in principio rappresentare esclusivamente un luogo di lavoro diventa a volte realmente traumatico. Inoltre, non bisogna dimenticare che queste donne, per venire in Italia e cambiare vita, hanno dovuto lasciare tutto, delegando le cure materne a nonni, mariti e spesso anche a vicini di casa [13]. Tale sindrome si nutre della stanchezza e della solitudine delle donne, costrette a occuparsi da sole e per tempi lunghi di persone non autosufficienti, spesso sia di giorno che di notte; inoltre talvolta, una forte pressione viene esercitata dai familiari degli assistiti, che non solo delegano in toto la cura della persona malata all’esclusiva responsabilità della badante, ma attuano anche comportamenti a volte non sempre corretti nei suoi confronti. A tutto ciò si aggiunge, non solo il mancato riconoscimento dell’enorme sacrificio che le badanti svolgono, ma pure, in qualche caso, una ‘fredda’ accoglienza riservata loro anche dai famigliari ritrovati in patria al loro ritorno, dopo periodi molto lunghi o anni di
assenza da casa.
Secondo quanto si evince dalla descrizione della «Sindrome Italia», alla quale si è fin qui fatto riferimento, nel momento in cui tornano a casa, queste donne soffrono di una grave forma di depressione, per cui devono affrontare percorsi di cura molto lunghi, a volte di anni, arrivando in casi estremi anche al suicidio. «Un terzo delle ricoverate tenta almeno una volta il suicidio, e spesso ci riesce. Ma è una strage silenziosa, perché di solito è la famiglia a chiedere di «aggiustare» l’atto di morte: nella regione più povera dell’Ue, nella Iasi dalle cento chiese, com’è soprannominato questo capoluogo della Moldavia romena, i pope ortodossi negano funerali e cimitero a chi si toglie la vita» [14].


La «Sindrome Italia» e l’altra faccia della medaglia

Dalle interviste fatte e dai questionari somministrati per il presente studio, si delinea una realtà diversa rispetto a quella che emerge dalle ricerche sulla «Sindrome Italia», in quanto viene fuori l’esistenza di una vera e propria rete strutturata tra le donne romene che sono in Italia e quelle che vogliono intraprendere il viaggio [15]. Spesso, infatti sono le stesse donne romene che contattano altre donne loro connazionali, nel momento in cui si presenta un’occasione di lavoro. Queste, che decidono così di partire, nella quasi totalità dei casi non parlano nemmeno la lingua e certamente non conoscono nel dettaglio il lavoro che andranno a svolgere né possiedono competenze specifiche, relative all’assistenza dei soggetti fragili. Non vi è dubbio che sono consapevoli  di andare incontro a  una vita, almeno all’inizio, fatta di sacrifici, ma sono orgogliose di quello che al momento della partenza stanno per conquistare e poi, dopo anni di lavoro, di quanto  hanno realmente conquistato; con il loro lavoro infatti, come emerge dalla totalità dei racconti, hanno permesso ai figli di studiare (tante di queste donne provengono, in realtà, da  paesini molto lontani dai centri abitati più grandi, dove ci sono le scuole medie, e la famiglia deve provvedere al pagamento delle spese di una  casa per i figli, che spesso già a 14 anni vivono da soli), di prendere una laurea, di realizzare spesse volte il progetto di una vita migliore [16].
Il vero trauma che risulta dalle interviste effettuate, al contrario di quanto emerge dalle ricerche succitate relative alla «Sindrome Italia», riguarda proprio il ritorno in patria: il doversi riabituare a una vita rurale e priva in definitiva di piccoli agi, quelli stessi che hanno conosciuto, apprezzato e di cui hanno goduto durante la loro permanenza in Italia[17]. Infatti, alla domanda «come vedi il tuo futuro» gran parte delle donne intervistate (il 50%) ha risposto che vorrebbe rimanere in Italia, terra che viene considerata come una seconda casa, e una parte minore ha espressamente dichiarato di voler tornare il Romania (solo il 35%) [18]; le famiglie degli anziani di cui si sono prese cura sono diventate una vera e propria famiglia per loro, tanto da essersi istaurati rapporti di stima e fiducia che spesso continuano anche dopo la scomparsa della persona che hanno assistito. È abbastanza frequente infatti, come si evince pure dai racconti di queste donne, che una volta terminata l’assistenza alla persona anziana sia facile il passaggio successivo, cioè il prendere in carico la cura delle famiglie degli anziani scomparsi, in qualità di colf e/o di babysitter. Ciò testimonia infatti il grado di stima e di fiducia, ma più di ogni altra cosa testimonia l’apprezzamento del loro lavoro e la considerazione del valore della loro persona.
Non sempre però si verificano situazioni di continuità (che pure non sono rare) e che assicurano tranquillità economica. Più spesso infatti, proprio per il tipo di lavoro che le badanti devono affrontare, queste non hanno una casa propria, e quanto alla loro disponibilità economica, non si concedono molto perché scelgono di mandare alla famiglia di origine la maggior parte dei soldi guadagnati, per cui, quando gli anziani di cui si occupano vengono a mancare, si trovano nella necessità di cercare immediatamente un altro lavoro per rimodulare pure la loro situazione abitativa che preveda cioè anche vitto e alloggio, con una nuova casa, con nuovi anziani, con nuove famiglie alle spalle, situazioni nuove da affrontare, per non essere in definitiva obbligate in extremis a tornare in Romania.
Dai loro racconti emerge il fatto che spesso sono arrivate in Italia tramite amicizie di persone che erano già nelle località in cui si trovano adesso a lavorare; addirittura arrivano in gruppo dallo stesso villaggio perché vengono chiamate da sorelle, altre parenti o amiche che si sono già stabilite e ambientate da tempo in Italia. Ma, dopo un estenuante viaggio in pullman o in pulmini dedicati, al loro arrivo generalmente trovano ad accoglierle una persona di nazionalità italiana che inizialmente le ospita in casa sua, nell’attesa di ‘sistemarle’ presso le famiglie; questa persona inoltre trattiene i loro documenti fino all’ottenimento della cessione del primo stipendio, come stabilito al momento del loro arrivo, quale necessario step, diventato ormai prassi comune, soprattutto nelle grandi città del sud Italia. A volte, e sempre più frequentemente (come raccontano le stesse intervistate), la figura dell’«agente italiano» viene sostituita in toto da una donna romena che, principalmente per motivi di lucro più che per supportare le connazionali, si occupa di smistare la «forza lavoro», adottando la stessa formula sopra descritta e cioè a fronte della cessione della prima mensilità, in cambio dei documenti nel frattempo trattenuti [19].


Nuova vita e nuovi legami

Le donne che decidono di partire dalla Romania, dunque, pagano per venire a lavorare in Italia (tra i 1000 e i 1200 euro), ma soprattutto, pagano per partire e spesse volte sostanzialmente per liberarsi da situazioni particolarmente difficili. Ciò che emerge è che a volte i mariti che rimangono per occuparsi dei figli (almeno inizialmente e nelle intenzioni), dopo un certo periodo di assenza delle donne, iniziano a pretendere più soldi per crescerli e, addirittura, quando queste decidono di cambiare vita e divorziare (le donne intervistate per il 74% dicono di non essere attualmente sposate e per il 44% dicono di essere divorziate), insistono nella richiesta di denaro per lasciarle libere dal vincolo del matrimonio [20] e in alcuni casi anche per lasciare che i loro figli minori le raggiungano in Italia, mantenendo in questo modo un insano legame [21].
Ciò che emerge è proprio la voglia di rinascere di queste donne che hanno sofferto a volte la fame, il freddo e la violenza e che in Italia imparano a vivere una vita diversa, fatta di piccole cose e di piccoli agi che non hanno conosciuto prima. Esse stesse raccontano che non è tutto semplice, soprattutto all’inizio, in quanto nella quasi totalità dei casi al loro arrivo, non parlano nemmeno la lingua; quindi alla difficoltà ad ambientarsi si aggiunge pure quella di non poter comunicare agevolmente. Una volta abituatesi alla vita in Italia, però, la maggioranza non vuole più tornare nel proprio Paese, ma vede il proprio futuro in Italia. Ciò che accomuna queste donne è la voglia di riscatto: si sono sposate presto e l’età media in cui sono diventate madri è di circa 22 anni, quindi spesso in patria non vedono alcuna via d’uscita per un cambiamento della loro situazione.
Quando arrivano in Italia, dopo la prima fase di ambientamento, in cui soprattutto all’inizio capita che si possano sentire anche sfruttate, cominciano a professionalizzarsi, prendendo coscienza di sé, impegnandosi a migliorare la competenza linguistica, anche con l’aiuto delle famiglie presso cui lavorano, frequentando magari corsi per accudire gli anziani [22], prendendo la patente e diventando autonome in modo da poter richiamare a sé anche  i propri figli, e non solo minori, per garantire loro sostanzialmente una prospettiva di vita migliore.
Se dunque da una parte si parla di «Sindrome Italia» nei termini esposti dianzi, dall’altra non si può non tener conto delle testimonianze di altrettante donne che costituiscono per così dire l’altra faccia della stessa medaglia e per questo non meno preziosa della prima e non meno degna di considerazione.
Non sono tante le donne che vogliono tornare in Romania: la situazione che abbiamo riscontrato dai racconti autobiografici si articola all’inverso; con ciò si vuole   intendere che la crisi e la depressione arrivano invece spesso, per queste donne, proprio nel momento in cui esse sono costrette a rientrare nel proprio Paese, quando cioè si fa più netta la consapevolezza di dover tornare di nuovo a vivere quelle situazioni che si erano lasciate alle spalle anche con grande coraggio.
Molte delle donne, di cui si sono raccolte le narrazioni, raccontano una vera e propria voglia di affermarsi, di autodeterminarsi. Raccontano di mariti violenti, a volte dediti all’abuso di alcool, tanto che qualcuna ha anche affermato di aver preferito lasciare i propri figli ai vicini piuttosto che ai loro stessi parenti.
Come già detto, queste donne trovano in Italia una situazione completamente diversa, a volte scelgono di sposarsi con uomini italiani o con i vedovi delle anziane signore che hanno avuto in cura (con una differenza di età che può arrivare anche a 30 anni) o ancora, in qualche non raro caso, con i figli di queste ultime, scapoli impenitenti, di un’età che varia dai 50 ai 70 anni, rimasti in casa con le anziane madri che non hanno mai voluto lasciare. In casi del genere si crea una situazione di profonda frattura con la famiglia acquisita che nella quasi totalità dei casi non vede di buon occhio il matrimonio del loro caro, quasi esclusivamente per questioni relative agli assi ereditari.
Sulla base delle interviste fatte, in definitiva si può dedurre che la situazione delle donne che arrivano in Italia dalla Romania è indubbiamente controversa. Se da un lato la famiglia di origine e la loro terra ha certamente una importante forza attrattiva, dall’altro l’idea di un miglioramento della propria vita è ciò che le spinge a lasciare la loro situazione iniziale che è comunque di confort. Quelle che decidono di correre il rischio di ‘lanciarsi’ sono certamente donne forti, che non temono la fatica e che sono disposte a tutto pur di migliorare la propria condizione, ma soprattutto sono pronte ad affrontare ogni difficoltà e duri sacrifici, almeno inizialmente, pur di garantire ai propri figli quelle possibilità di cui esse stesse non hanno goduto. Infine, si può affermare che la «Sindrome Italia» è solo una faccia della stessa medaglia e non colpisce allo stesso modo tutte le donne romene. Una buona parte di loro desidera rimanere in Italia, perché qui ha capito di avere una possibilità per l’autodeterminazione personale, ha scoperto l’importanza dell’autonomia e soprattutto della libertà ed è evidente dalle narrazioni raccolte che molte di loro hanno centrato l’attenzione sulla opportunità di essere economicamente indipendenti per di poter scegliere il proprio futuro.


Gloria Gravina
(n. 5, maggio 2022, anno XII)



NOTE

1. Tutte le narrazioni e le testimonianze dirette, rese dalle signore romene che hanno accettato di raccontarsi davanti a una videocamera, sono state registrate con uno strumento semplice e di uso comune, uno smartphone dalla videocamera ad alta prestazione, che non ha creato troppo imbarazzo né sottolineato il momento della ripresa video come un momento topico né come un momento che snaturasse il senso e l’autenticità della comunicazione.
2. Abruzzo, Lazio, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia sono le regioni in cui è stata condotta la presente ricerca.
3. https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/06/07/la-cura-degli-anziani-esiste-questione-meridionale/  
4. Saraceno C., Naldini M., Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino, 2013.
5. Zuanna G., Gargiulo C., Gli anziani italiani nel prossimo ventennio. Modifiche socio-demografiche e nuove sfide per il welfare, in “I luoghi della cura”, n. 2, 2020.
6. Già con la Legge n. 66 del 1963, “Ammissione della donna ai pubblici uffici e alle professioni”, si inizia a parlare di parità tra uomini e donne e le donne hanno accesso a tutte le carriere, anche alla Magistratura (l’art.1 dispone inequivocabilmente che “la donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera”).
7. ISTAT, Aspetti di vita degli over 75.
8. Network Non Autosufficienza (a cura di), L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia: II rapporto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2010.
9. Il trasferimento in una casa di riposo o in un RSA è comprensibilmente vissuto dall’anziano come un’esperienza pesante di abbandono da parte del resto della famiglia e viene percepito come una dichiarazione esplicita della famiglia di non potersi più accollare l’onere della cura dell’anziano che diventa un “peso”, ostacolo al normale svolgimento della vita familiare.
10. Osservatorio Nazionale DOMINA sul Lavoro Domestico, 2020, 2° Rapporto Annuale sul Lavoro Domestico, Analisi, statistiche, trend nazionali e locali, disponibile on line su https://www.osservatoriolavorodomestico.it/rapporto-annuale-lavoro-domestico-2020
11. L’INPS, nell’annuale Osservatorio Italiano sul lavoro domestico – pubblicato a giugno del 2021 – registra un aumento del 7,5% in più rispetto al 2019 delle assunzioni di colf, badanti e babysitter (nel 2020 sono state 920.722).
12. Si parla di questi studi, anche in modo “strategico”, spesso in ambito di inchieste e report giornalistici, ma non sono reperibili pubblicazioni scientifiche cui fare un serio riferimento, come affermano anche altri studiosi italiani che si sono dedicati all’argomento.
13. È quanto risulta dai questionari somministrati tra maggio 2020 e giugno 2021 a un primo campione di donne romene che lavorano come badanti nelle regioni del centro-sud.
14. Battistini F., Sindrome Italia, nella clinica delle nostre badanti, in https://www.corriere.it/elezioni-europee/100giorni/romania/
15. Tra maggio 2020 e giugno 2021 sono stati somministrati questionari cartacei a un primo campione di donne romene che lavorano come badanti nelle regioni del centro-sud d’Italia. Tra ottobre 2021 e marzo 2022 sono stati somministrati questionari in modalità digitale a un secondo campione, analogo al primo per numero, per regioni e per tipo di lavoro svolto. In entrambi i periodi sono stati registrati in video narrazioni autobiografiche e racconti relativi al «viaggio». 
16. L’università in Romania è per lo più gratuita e anche l’accoglienza e la possibilità di alloggiare negli studentati nei complex studenteschi è quasi sempre alla portata di tutti, in quanto un posto letto in una stanza doppia ha un costo mensile molto basso e che si aggira intorno ai 180 Ron, cioè circa 40 Euro
17. Gli agi a cui ci si riferisce sono riconducibili ad esempio alla possibilità di seguire una dieta mediterranea, all’abbandono dell’abitudine del fumo,  alla possibilità di stare spesso a contatto con persone di cultura (gli stessi anziani e i loro cari) che con le donne che si prendono cura di loro non di rado (quando non è la demenza ad aggravare le situazioni) spendono le proprie conoscenze e competenze; e allora capita spesso che le badanti nei giorni liberi preferiscano fare piccole gite per visitare luoghi vicini di interesse culturale, consigliati dai loro “vecchietti” o ancora che imparino a godere della musica d’Opera, che il target dei loro assistiti conosce bene e frequenta con ascolti quotidiani, o che in definitiva imparino ad apprezzare la compagnia ricca di esperienze di vita dei loro assistiti oltre a quella fredda e impersonale della televisione. 
18. Dai dati dei questionari somministrati emerge anche che il 42% delle caregiver romene ritiene che il contesto lavorativo sia soddisfacente e per il 63% la loro dimensione lavorativa e sociale potrebbe evolversi in meglio nel prossimo futuro.
19. Dalle testimonianze reseci si evince una vera e propria attività riferibile in tutto a quello che comunemente si intende con il termine caporalato.
20. L’istituto del divorzio è contemplato nella confessione cristiana ortodossa e, pur trattandosi di donne provenienti soprattutto da aree rurali e quindi fortemente legate alle tradizioni, queste non esitano a scegliere la strada del divorzio che in Romania, a differenza dell’Italia, è ottenibile in tempi brevissimi, qualche mese.
21.  Questo tipo di comportamento tenuto da certi coniugi che rimangono in patria con i loro figli minori è emerso da più di un racconto autobiografico tra quelli raccolti per la presente ricerca.   
22. Più di una delle donne che si sono raccontate ha accennato a corsi per assistenti a persone anziane organizzati dalla CGIL online e gratuiti, anche con un elementare addestramento per utilizzare il mezzo informatico per avere accesso al corso.


BIBLIOGRAFIA

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