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 |  | Il contributo della tradizione patristico-medievale alla filosofia di Nae Ionescu (I)
 
  Sebbene la  filosofia di Nae Ionescu (1890-1940), nota come esperienzialismo (in romeno trăirism, da a trăire, esperire,  vivere), venga intesa, per altro correttamente, come il precipitato di tendenze  filosofiche di «avanguardia» (fenomenologia, vitalismo, filosofia dei valori,  esistenzialismo), cui il filosofo romeno ha conferito una inconfondibile  impronta mistico-religiosa in polemica con il paradigma positivista e kantiano,  di cui l’esperienzialismo si poneva allora come superamento, risulta non meno importante  e per certi versi decisivo, in vista di una sua adeguata comprensione, prendere  in considerazione il contributo  della tradizione patristico-medievale, con cui Ionescu si è mantenuto in  continuo dialogo e alla quale ha diversamente, ma costantemente, fatto  riferimento nell’ambito dei corsi tenuti presso l’Università di Bucarest  nell’arco di tempo compreso tra il 1919 e il 1938. Rievocando le lezioni  frequentate da studente, Mircea Eliade ha sottolineato la «rivalorizzazione  della filosofia medioevale» operata da Ionescu, l’attenzione rivolta alla  scolastica tomista e la sua propensione per Origene [1]. Da parte sua, Dora  Mezdrea, giudica fondamentale il contributo dato dalla tradizione  patristico-medievale alla formazione del pensiero ioneschiano, al punto da ritenere  che «non si possa comprendere la filosofia di Nae Ionescu senza la Patristica»  [2].
 Nelle pagine che seguono si  cercherà di esaminare l’apporto della filosofia cristiana nei molteplici ambiti  a cui il pensatore romeno si è applicato: da quello della logica, a quello  della teoria della conoscenza, della metafisica e soprattutto della filosofia  della religione. Prima di passare in rassegna i corsi  ioneschiani alla ricerca di autori e problemi, gioverà ripercorrere, almeno  sommariamente, la formazione filosofica del Nostro e gli incontri che hanno  favorito la sua prossimità a un certo universo di pensiero.
 
 
 Letture,  maestri e incontri
 
 Una prima considerazione  s’impone. Il pensiero patristico-medievale non ha occupato un ruolo di primo  piano negli anni di formazione accademica di Ionescu. Il periodo trascorso  presso l’Università di Bucarest, tra il 1909 e il 1912, è dedicato  all’approfondimento della filosofia antica, moderna e contemporanea, allo  studio della logica, della teoria della conoscenza, della psicologia e della  matematica. L’unico legame, seppure non trascurabile, con  l’“universo” medievale è rappresentato dalla letteratura italiana, per la quale  Ionescu dimostrò precoce interesse, specialmente per gli illustri esponenti  della tradizione trecentesca toscana: Dante e Petrarca.
 A Gottinga, dove si stabilisce nel 1913 per intraprendere il dottorato  di ricerca, Ionescu è completamente assorbito dall’interesse per la matematica  e la fenomenologia husserliana. È solo dopo essersi trasferito a Monaco di  Baviera che Ionescu affronta sistematicamente lo studio del pensiero  patristico-medievale, sotto la guida di Clemens Baeumker (1853-1924), docente  di metafisica e curatore della Beiträge zur Geschichte der Philosophie und  Theologie des Mittelalters [Contributo per una storia della filosofia e  della teologia medievali], edita a partire dal 1891 – una raccolta di testi  patristici e medievali, seconda per importanza solo alla Patrologia del  Migne. Tra i lavori del Baeumker, ai fini di questa disamina, merita poi  di essere ricordato il contributo al volume Kultur der Gegenwart, I [Cultura  del presente] (1909), a cura di Paul Hinneberg, Berlin/Leipzig, Teubner, 1909  [3]. Clemens Baeumker firma Die europäische Philosophie des Mittelalters [La  filosofia medievale europea], pp. 288-381, un breve profilo storico del  pensiero medievale, nel quale però non manca un riferimento all’opera di Dante.  La seconda edizione del 1913 comprende, oltre all’articolo già citato – il cui  titolo risultava così aggiornato: Die christliche Philosophie des  Mittelalters [La filosofia cristiana del Medioevo] –, un altro contributo, Die  Patristische Philosophie [La filosofia patristica], che andava a colmare il  vuoto temporale lasciato nella precedente edizione, dove l’esposizione della  filosofia antica, a cura di Hans Von Arnim, si concludeva con la trattazione  del pensiero tardo-antico, e quella del Baeumker si apriva con l’alta  Scolastica rimanendo ‘scoperta’ la parte relativa alla filosofia cristiana  delle origini.
 
 Con queste parole Ionescu presenta Clemens Baeumker a Elena-Margareta  Fotino in una sua lettera datata 19 aprile 1914:
 
 «Un uomo ben messo, dal volto apoplettico, incorniciato da capelli  bianchi; baffi all’inglese; un vieux marcheur del 1914, che ti parla  nello stile e con le idee della scolastica. Che ibrido accoppiamento! È  applauditissimo quando entra e quando esce – poiché, probabilmente, agli esami  è indulgente; e i ragazzi ci tengono a ringraziarlo; si presta, senz’altro, a  essere adulato. Per mezz’ora parla; l’altra mezzora detta, in riassunti  sistematici, ciò di cui aveva parlato in precedenza. Fa anche delle battute, di  cui però è il solo a ridere; solo da questo ci si accorge che ha fatto dello  spirito. Ad esempio: “Ci chiediamo cosa sia la filosofia, perché della sua  esistenza non possiamo dubitare!” (ride). Oppure: “die oberste Wissenschaft [la  scienza suprema]… non intendo qui Oberst [Colonnello] in senso militare,  bensì in un’accezione filosofica (ride). Dopo 10 minuti: “Also, die oberste  Wissenschaft…” (un’altra volta la stessa spiegazione, un’altra volta ride).  Dopo altri 10 minuti, ancora: die oberste, spiegazione e risata: una  risata soddisfatta, rumorosa, che gli scuote tutto il corpo. Imbecille. Conosce  però moltissime opere di filosofia medievale. Seguirò un seminario di storia  delle fonti filosofiche scolastiche. È una questione di erudizione – e per  questa non c’è bisogno di uno intelligente» [4].
 
 Il ritratto che ne risulta non è certamente lusinghiero. D’altronde, è  noto che Ionescu non aveva risparmiato pesanti critiche neppure a Husserl,  definendolo un «impostore» e augurando a sé stesso di non doversi mai ridurre  come lui. Comunque sia, al di là dei giudizi tranchant espressi dal  Romeno nella sua corrispondenza privata, i rapporti tra l’allievo e il  professore dovettero essere certamente ottimi. Al termine della prima guerra  mondiale Ionescu discusse infatti la propria tesi di dottorato sotto la guida  di Baeumker, e durante il periodo di prigionia trascorso presso il castello di  Celle-Schloss (vicino Hannover), si tenne in rapporto epistolare con il  professore, al quale si raccomandava  persino per un lavoro in Germania.
 Durante la permanenza a Celle, Ionescu incontra anche un sacerdote  carmelitano con il quale condivide la lettura di Agostino. «Mi sono fatto amico  un sacerdote, così ora leggo le Enarrationes [in Psalmos]di  Sant’Agostino», scriveva in una lettera datata 24 novembre 1916 alla moglie  Elena-Margareta Fotino [5]. L’amico sacerdote qui menzionato è Père Jérôme de  la Mère de Dieu, al secolo Polydore Meerschaut (1870-1954), un carmelitano di  nazionalità belga, docente di teologia presso l’Università di Lovanio,  internato a Celle a seguito dell’invasione tedesca del neutrale Belgio, e col  quale Ionescu rimarrà in rapporto anche dopo la fine della guerra.
 In seguito alla liberazione dal campo di prigionia,  Ionescu troverà impiego come redattore presso la Tyrolia Verlag, casa editrice specializzata  in letteratura religiosa, con sedi a Innsbruck, Vienna e Monaco, il che gli  consentirà di entrare in contatto con personalità religiose e laiche di primo  piano, tra cui monsignor Ignaz Seipel, sacerdote e docente di teologia, futuro  cancelliere austriaco dal 1922 al 1924 e autore nel 1907 de Die  Wirtschaftsethischen Lehren der Kirchenväter [La dottrina dell’etica  professionale nei padri della Chiesa], Aemilian Alois Schöpfer, sacerdote e  pubblicista cattolico, cofondatore del Partito cristiano sociale tirolese e  fondatore della stessa Tyrolia Verlag e l’allora nunzio apostolico in Baviera  cardinale Eugenio Pacelli, futuro Papa Pio XII.
 «Tyrolia redigeva, pubblicava e metteva in  circolazione manuali di teologia e religione, libri di filosofia sociale e  politica, testi ufficiali della Chiesa rivolti ai fedeli, studi neotomisti,  nuove traduzioni dei testi biblici, libri di divulgazione della dottrina del  bene comune, trattati di filosofia cristiana, opuscoli di socialismo cristiano  antimarxista firmati spesso da reverendi coinvolti nel movimento politico  tirolese o nelle correnti del pensiero cristiano sociale tedesco» [5].
 La collaborazione con la casa editrice Tyrolia impegna Ionescu in  frequenti viaggi all’estero, nel corso dei quali partecipa a convegni su tematiche  religiose, che si svolgono soprattutto nella neutrale Svizzera, dove ha  occasione di incontrare professori, teologi e accademici cattolici.
 Il 3 aprile 1919, può finalmente discutere la sua tesi di dottorato dal  titolo Die Logistik als Versuch einer neuen Begründung der Mathematik [La  logistica come ricerca di una nuova fondazione della matematica].
 Rientrato in patria, Ionescu diverrà assistente di Constantin  Rădulescu-Motru e suo collaboratore su alcune riviste specialistiche di  filosofia. Parallelamente all’attività di studioso, docente universitario,  direttore degli studi presso il Liceo dell’ex-monastero Dealu di Târgoviște, a partire  dal 1922 Ionescu è cofondatore, azionista e amministratore delegato della Centrale  del Libro, società di distribuzione libraria, finanziata dal magnate ebreo  Aristide Blank, preposta alla diffusione nel Regno di Romania dei libri  pubblicati dalla casa editrice Cultura Națională e di libri stranieri. È nell’ambito delle  iniziative di promozione editoriale legate alla Centrale del Libro che Ionescu  si mette in contatto con Monsignor Vladimir Ghika e da questo è presentato al  circolo neotomista di Jacques Maritain come «l’ancien compagnon de captivité du  P. Jérôme». Nel carteggio tra Ionescu e Ghika, tuttora inedito, il filosofo si  propone di presentare Maritain al pubblico romeno. Eppure, commentando il più  recente saggio di Maritain, Réflexions sur l’intelligence et sur sa vie  propre (1926), osserva che l’introduzione del libro è scritta «con un tono marcatamente apologetico. Ciò infastidisce qui da noi. In  definitiva, è necessario che le idee fondamentali penetrino. L’etichetta è  superflua, penso che se le mie lezioni dell’anno scorso sulla filosofia della  religione hanno avuto un uditorio eccezionale, è perché proprio quando toccavo  questioni di teologia, lo facevo sans avoir l’air. I problemi  filosofico-religiosi interessano molto oggi; è un dovere di noi tutti  presentarli in una forma attuale, abbandonando il linguaggio e l’atteggiamento  scolastici, che allontanano [gli studenti]» [6].
 
 Circa i limiti dell’esperienza neotomista, è interessante citare  l’impressione riportata durante uno degli incontri filosofici svoltisi a Meudon,  presso l’abitazione dei Maritain, e riferita alla moglie Elena-Margareta Fotino  (lettera del 28 giugno 1925):
 
 «Sono stato, dunque, da Maritain. Un uomo perbene, giovane sui  quarant’anni, dalla capigliatura folta, bionda, e un pizzetto incolto. Occhi  piccoli, bruni e sempre sorridenti. Una certa inquietudine – ovvero insicurezza  in sé stesso. Chiuso – nel senso che ti lascia dire quel che vuoi, ma lui  continua a credere quel che sa. Vulnerabile. Non resiste ad attacchi bruschi e  sinceri. Si sbottona, allora, di fronte a tali metodi. C’è molta gente. Fino a  quaranta persone. Sacerdoti, monaci, studenti di teologia o filosofia,  scrittori. Tè servito alla buona, sans façons, maldestramente e con modi  “piccolo borghesi” dalla sorella della signora Maritain. La Signora Maritain:  simpatica, gentile, si avvicina molto al tuo tipo; ma pacata, forse malaticcia  e, di certo, bas-bleu. La conversazione interessante. Preludio: “la  polemica”, con molta verve e spirito, di alcuni scrittori francesi. Caffè  letterario. Potin-ezzi. Protagonista, un dannato studente di  letteratura, assai vivace. Il cuore della discussione: il tentativo di  unificazione delle attività culturali cattoliche. “Relatore”, un prete giovane,  loquace, ispirato, inquieto, di larghe vedute. Piani e prospettive. Incredulità  da parte degli altri. Il mio intervento a favore del relatore, con esempi dalla  Germania: “Hochland”, Max Scheler. Proteste. Irritazione da parte mia. La dichiarazione di  M[aritain], in fine, che non l’ha letto. Aha! Punto. Sfregamento di sedie. E,  infine: un sacerdote, gesuita, con un naso à la Paganini, dalla figura  “in galosce”, con gli occhiali: brutto, severo, il tipo del delatore sottile,  ma sicuro della dottrina. Mi precipito su di lui. Vuole evitarmi. Lo afferro  per la tonaca e lo espongo al coro delle proteste di tutti. Un monaco, domenicano.  Aspetto tragicamente maestoso, agghiacciante nella sua calma. Parla poco e  malvolentieri. Fende l’aria con la mano. Nessuna concessione. La dottrina prima  di tutto. Parla citando San Tommaso. E sembra abbia cinquecento anni. Deve  soffrire terribilmente dentro di sé. Silenzio. Una doccia fredda. Sorrisi  imbarazzati. E di nuovo strofinamenti di sedie. Tè. Commiati. E, infine, io con  Maritain. So cosa vuole fare lui. Fa bene, ma non basta. Non è completo e non è  vivo. Quel che vuole lui, io lo faccio a Bucarest da quattro anni. Ma io vivo  con la storia. Lui la ignora. Lui crede o si comporta come se credesse che  D[io] non avesse nulla a che fare con la storia. Io valorizzo la storia, ma le riconosco il carattere della  necessità. Lui la nega semplicemente.  Descartes, Rousseau, Kant, Lutero, “je vous les cède”, ma “à ma  manière”. Accolto. Piani di lavoro. Esposizioni sommarie, propositi  abbozzati, ecc., ecc. Verrà a trovarmi. Tornerò a trovarlo. Mi tiene sulla soglia circa mezz’ora. Sua moglie gli  porta il pardessus. Ce n’era bisogno. Me ne vado» [7].
 
 Ionescu sembra prendere le distanze da una certa «impostazione  scolastica», basata sul principio di autorità e sulla infallibilità della  tradizione, e soprattutto dal «linguaggio» desueto, non più adatto ai tempi, di  cui i neotomisti ancora si servivano. Registriamo anche il fatto che Ionescu  considerasse una necessità agevolare la penetrazione di alcune «idee  fondamentali», sebbene ritenesse che il modo migliore di farlo fosse astenersi dall’assumere  un tono apologetico. Come ebbe in seguito a dire a un giovane Eliade, che  esitava nel chiedere al proprio maestro se credesse o no in Dio, «la religione  vince la causa in contumacia» [8]. La sua ventennale esperienza didattica presso  l’Università di Bucarest (a partire dal 1919, come assistente di Constantin  Rădulescu-Motru, poi, dal 1926, come conferențiar confermato in storia della Logica e Metafisica, e infine,  dal 1937, come professore associato di Logica e Metafisica) è stata  caratterizzata da un approccio non dogmatico alla filosofia tradizionale, una «pedagogia  negativa» tesa a risvegliare nel proprio uditorio la preoccupazione metafisica  senza offrire tuttavia soluzioni positive a tale esigenza. Per tutta la durata  del suo mandato di docenza, costanti e molteplici sono stati dunque i  riferimenti al pensiero patristico e medievale – riferimenti che, per comodità  di esposizione, raggruppiamo per temi nelle pagine che seguono.
 
 
 Il Medioevo come categoria dello Spirito
 
 Nella prolusione inaugurale sulla Funzione epistemologica dell’amore (1919), Ionescu sostiene che il Medioevo ha rappresentato il tentativo di  una sintesi fra tre elementi eterogenei, destinati alla lunga a crepare il  blocco, apparentemente monolitico, della metafisica ufficiale: l’ellenismo,  l’idea romana di Stato e il cristianesimo. Altrove, egli parla del Medioevo  come di un’epoca apocalittica, di penitenza, seguita alla crisi del mondo  antico. Ionescu non sembra condividere tuttavia la vulgata secondo cui l’età di  mezzo corrisponderebbe «ai secoli bui», a un’epoca di oscurità dello spirito.  Se il Medioevo fosse stato davvero questo, argomenta il Nostro, non si  riuscirebbe a spiegare da dove sia potuta scaturire la prorompente fioritura  del Rinascimento. È stata, l’età di mezzo, semmai una fase di «purificazione»,  preparatoria a una nuova creazione dello spirito.
 Nell’ambito del corso di storia della logica tenuto nel semestre  invernale 1929-1930, Ionescu si sofferma per un’intera lezione a considerare la  cesura intervenuta nella storia del pensiero con il Rinascimento. Prima e dopo  il Rinascimento sono esistite due strutture spirituali ben diverse, due epoche,  due «mondi», un «mondo antico» e un «mondo nuovo». La frattura non è netta,  giacché nella tarda scolastica, alcuni movimenti religiosi di carattere  gnoseologico e metafisico, segnatamente il nominalismo anglo-sassone  francescano, presentano forti analogie di struttura con lo spirito  rinascimentale, e per quanto non possano inquadrarsi appieno nel mondo moderno,  ne costituiscono evidentemente il momento aurorale. All’approssimazione della  cronologia, stante la difficoltà di datare con esattezza l’inizio del mondo  moderno, Ionescu oppone, memore delle lezioni di Iorga (per il quale la storia  non è questione di fatti, ma di facies, «forme»dello spirito),  la precisione della morfologia. Ragionando in termini di «categorie dello  spirito», di «strutture spirituali», Ionescu può procedere con sicurezza alla  definizione del proprio oggetto di studio, selezionando il materiale storico a  sua disposizione, senza dover render conto alla linea del tempo delle proprie  inclusioni o esclusioni [9].
 La forma dello spirito del mondo antico e medievale è caratterizzata da  un fondamentale dualismo tra l’uomo, da una parte, e ciò che sta al di fuori e  al di sopra di lui, dall’altra. Il centro dell’esistenza e dell’intero universo  risiede oltre l’uomo, in un essere onnipotente, Dio. Così forte appariva la  tensione dialettica tra i due poli, che l’uomo antico e medievale sentiva la  necessità di negare sé stesso per poter tanto più affermare l’altro termine del  rapporto. La concezione che accomuna il pensiero antico e quello medievale è  dunque il teocentrismo. A essa si oppone l’antropocentrismo rinascimentale.
 È degno di nota il fatto che per illustrare il passaggio dalla  concezione teocentrica a quella antropocentrica, Ionescu faccia riferimento ai  due più illustri poeti italiani di età medievale, Dante Alighieri e Francesco  Petrarca. Dante «non ha niente ha che fare con il Rinascimento, e neppure la Divina  Commedia. La Divina Commedia è la Summa teologica di Tommaso  d’Aquino, da cui non si discosta di un solo passo […]. Dante non fa parte del  Rinascimento, non è un precursore del Rinascimento, bensì è l’espressione più  compiuta del Medioevo» (IV, 29).
 
 Diverso il caso del Petrarca, il quale in effetti può essere  considerato un anticipatore del Rinascimento. Prova della «modernità» del  Petrarca è la celebre Ascesa al monte Ventoso, l’epistola inviata dal  poeta all’amico Dionigi di Borgo  San Sepolcro, il monaco agostiniano da cui lo stesso Petrarca aveva ricevuto  una copia delle Confessiones di Agostino. La salita al Mont Ventoux, in  compagnia del fratello Gherardo, fu compiuta da Petrarca tra il 24 e il 26  aprile 1336. Il Petrarca descrive nel corso della lettera, che Ionescu considera  una sorta di «diario di viaggio» [jurnal de călătorie], le difficoltà  del salire e la maestosità del paesaggio che si offre allo sguardo del poeta, mostrando  in ciò un’attitudine naturalistica, tipicamente rinascimentale. Anche sotto il  profilo psicologico, la sensibilità del Petrarca risulta del tutto estranea  alla struttura spirituale del Medioevo. «Un uomo che redige un diario è un uomo  interessato alla propria persona, a ciò che accade dentro di lui. Fino a quel  momento l’uomo non esisteva che come creatura di Dio, come un essere che deve  persino chiedere scusa di esistere» (ibid.). L’esistenza umana nel mondo  antico è percepita come un peccato, un affronto a Dio. Il sentimento tragico  dell’esistenza affonda le proprie radici nel concetto greco di moira, e  la coscienza del peccato inibisce nell’uomo ogni gioia di vivere. Al contrario,  il Petrarca eleva l’uomo, a cominciare da sé (scrivendo di sé, delle proprie  impressioni e dei propri stati d’animo), a fenomeno degno di interesse,  annunciando la svolta antropocentrica che attraverso il Rinascimento avrà esito  nell’epistemologia kantiana.
 Da questo radicale mutamento di prospettiva discendono alcune conseguenze,  anzitutto di natura «teologica». Nel quadro del teocentrismo, Dio era concepito  come qualcosa di onnipotente e incondizionato. Ciò portava gli antichi a  formulare una teologia essenzialmente «apofantica», non potendo assegnare a Dio  alcun predicato oggettivo, tanto meno quegli attributi che sono propri della  natura umana, pena il tradirne l’essenza. Ma ciò implicava anche un’altra  conseguenza, e cioè il fatto che la valorizzazione della realtà e la sua  gerarchizzazione, essendo Dio il criterio supremo di ogni accadimento e di ogni  ente, ovvero la causa da cui tutto dipende, fossero assolute e  incontrovertibili. Nel Rinascimento, invece, è l’uomo a occupare il centro  dell’universo, e con l’antropocentrismo torna in auge l’antropomorfismo (già  irriso da Senofane di Elea) secondo cui non è il tutto a doversi adeguare a  Dio, ma Dio a doversi adeguare all’uomo. Ad andare irrimediabilmente perduta è  l’unicità stessa di Dio, da cui segue la frammentazione dell’esperienza  religiosa nei vari credi: protestante, cattolico, gallicano, etc. Se l’uomo  torna ad essere la misura di tutte le cose, non può che venir meno  l’assolutezza di Dio, giacché ogni giudizio umano è inevitabilmente  condizionato e parziale, e da ultimo la realtà stessa finisce per assumere un  valore relativo.
 Ionescu rileva poi un’ultima conseguenza, di ordine gnoseologico. Nel  Medioevo, vi era la convinzione che si potesse passare dall’apparenza delle  cose alla loro essenza, giungendo al possesso ultimo dell’esistenza.
 
 «Tutto quanto appare ai nostri sensi, alle nostre facoltà conoscitive,  nel mondo della realtà sensibile, era per gli antichi piuttosto la rivelazione  [aparițiune] di un mondo nascosto; era una sorta di segno  [semn] di questo mondo nascosto. Ogni circostanza, ogni condizione  concreta dell’esistenza, celava qualcosa, nascondeva un senso più profondo. La  realtà raddoppia, triplica, si moltiplica, come una somma di realtà. Vivevamo  tutti in un continuo mistero, dalla nascita alla morte. Dalla nascita alla  morte tutto era un mistero intorno a noi, perché dietro la realtà, l’apparenza,  si nasconde il vero senso dell’esistenza. Perciò, tutto il mondo viveva nel  simbolo» (IV, 31).
 
 Per dare un’idea di cosa volesse dire lo spirito del Medioevo,  Ionescu invitava provocatoriamente i suoi studenti a leggere l’Acatisto  della Madre di Dio, L’Epistola della Madre di Dio e altre opere  della letteratura religiosa ortodossa, suscitando l’ilarità dei suoi  ascoltatori [10]. Il mondo degli antichi «parte dal concreto e si muove verso l’essenziale»  (IV, 31). Il principio fondamentale su cui si basa l’ontologia medievale è  quello della partecipazione. «L’esistenza è condizionata dalla partecipazione a  qualcosa di superiore: in Platone, la partecipazione all’idea; mentre il cristianesimo  affermava che le cose non esistono se non in Dio, esattamente quanto affermava  Platone» (IV, 31-32). Gli antichi erano incapaci di compiere operazioni di  semplificazione logica, riducendo più esemplari di una medesima realtà a un  concetto comune, per mezzo di un’astrazione. Due alberi, spiega Ionescu, non  sono due esemplari della stessa realtà, «l’albero», bensì due realtà separate e  distinte, come se la prima persona del verbo parlare «io parlo» e la seconda persona  «tu parli» non fossero due declinazioni della stessa radice verbale, ma due  realtà in sé diverse e irriducibili.
 «Il mondo qualitativo non conosce la riduzione  logica e tutto il mondo che precede il Rinascimento non si basa sul processo di  astrazione, sulla riduzione logica, si basa al contrario sul processo di  essenzializzazione della realtà sensibile; esso mirava all’essenza della realtà  sensibile, non al concetto che da questa realtà si astrae e che di questa  realtà è il segno» (IV, 32).
 È questa la principale differenza tra i due «mondi»,
 «Il mondo nuovo astrae dalla qualità  individuale e mira al concetto, alla forma generale, alla legge generale del  maggior numero di oggetti, non alla loro essenza creatrice, non alla loro  partecipazione creatrice, bensì alla formula, alla legge generale, statica. Il  mondo nuovo opera attraverso concetti, il mondo antico operava con le essenze.  Il mondo nuovo opera con la quantità, perché rappresenta il momento in cui  l’uomo ha fatto astrazione dalla qualità individuale» (Ibid.).
 Dopo il Rinascimento,  non ci si basa più sulla realtà, ma sulla misura della realtà, la sostanza cede  alla relazione, al rapporto [11].
 Da ultimo, nell’ambito di alcune considerazioni di ordine metafisico (corso  di metafisica, 1937-1938) intorno ai concetti di nazione e di comunità di  destino, Ionescu definiva il Medio Evo un’«epoca totalitaria». Questa  espressione, che tradisce un forte interesse politico, descrive la condizione  per cui l’individuo medievale era inserito in diverse categorie: la famiglia,  il ceto, la corporazione, la Chiesa. L’individuo faceva comunque parte di un «tutto»,  di una collettività trascendente le singole particolarità. La Chiesa cattolica  rappresentava in assoluto la più ampia universalità in cui l’individuo  medievale si inserisse. Ionescu osserva però che tale universalismo aveva in sé  qualcosa di artificiale in quanto l’appartenenza alla comunità d’amore (comunitatea  iubirii) era determinata dal riconoscimento estrinseco di alcune  affermazioni dogmatiche, non «da una realtà organica», come d’altronde dimostra  la frammentazione del cattolicesimo in varie Chiese locali e gruppi interni (come  il francescanesimo) al limite dell’eresia. Ciò porta Ionescu a concludere che l’unica  totalità «concreta» a cui si possa appartenere sia la nazione, la comunità di  destino che sopravvive nel tempo e per la quale sola l’individuo è tenuto a  sacrificarsi.
 
 
 Igor Tavilla(n. 7-8,  luglio-agosto 2022, anno XII)
 
 
 
 * Nel corpo del testo, i riferimenti alle Opere di Nae Ionescu  (voll. I-XVI, a cura di Marin Diaconu e Dora Mezdrea, EMLR, București 2016-2020), sono abbreviati riportando tra parentesi  tonde l’indicazione del volume (in numeri romani) e della pagina (in numeri  arabi). Là dove non diversamente indicato, la traduzione è nostra.
 
 NOTE
 
 [1] «Ero affascinato dalla mistica e, come molti altri della mia  generazione, seguivo attentamente la rivalorizzazione della filosofia  medievale, che trionfava in Francia sotto l’influenza di Étienne Gilson e di  Jacques Maritain. Nae Ionescu discuteva tale rivalorizzazione nelle sue  lezioni, senza però accettarla interamente, perché, sebbene ci obbligasse a  leggere san Tommaso d’Aquino, le sue simpatie andavano verso la teologia  bizantina, e in particolare verso Origene che considerava il più profondo genio  filosofico della cristianità orientale. A questo riguardo, Nae Ionescu aveva  anticipato di vent’anni la ‘riconsiderazione’ di Origene da parte dei teologi  cattolici». M. Eliade, Le promesse dell’equinozio. Memorie I. 1907-1937,  tr. it. di Roberto Scagno, Jaca Book, Milano 1995, p. 139.
 [2] Dora Mezdrea, Biografia, voll. I-II, EMLR, București 2015, vol. I, p. 237.
 [3] Vale la pena ricordare che al volume contribuirono anche il Wilhelm  Wundt, per la parte relativa alle origini della filosofia e alla filosofia dei  popoli primitivi, l’orientalista Hermann Oldenberg, per la filosofia indiana, e  il filosofo Wilhelm Von Windelband, per la filosofia contemporanea.
 [4] Corespondența de dragoste, a cura di D. Mezdrea, 2a  edizione, voll. I-II, EMLR, București 2016, vol. I, pp. 424-425.
 [5] Ivi, vol. II, p. 127. Come precisa in nota la curatrice del  carteggio, l’opera di Agostino citata da Ionescu poteva essere letta soltanto  nella Patrologia di Jacques-Paul Migne (Santi Aurelii Augustini Opera  Omnia: Patrologiae Latinae Elenchus, Ed. Garnier, Paris 1844-1855). La  stessa Mezdrea ipotizza che Ionescu fosse con ogni probabilità l’unico  possessore nella Romania interbellica della Patrologia del Migne in 167  volumi. Alla morte del filosofo, la moglie avrebbe ceduto la collezione al  reverendo ortodosso Benedict Ghiuș, stareț (superiore) del Monastero Antim di Bucarest negli anni 1948-1949.  Successivamente, la Patrologia sarebbe passata alla Biblioteca del  Patriarcato.
 [6] T. Niculescu, Nae Ionescu. Il seduttore di una generazione,  tr. it. di Horia Corneliu Cicortaș e Igor  Tavilla, Castelvecchi, Roma 2021, p. 90.
 [7] Corespondența de dragoste, cit., vol. II, pp. 421-422.
 [8] M. Eliade, Gaudeamus, tr. it. di Celestina Fanella,  postfazione di Roberto Scagno, Jaca Book, Milano 2021, p. 51.
 [9] Così, a titolo di esempio, un Raimondo Lullo, pur appartenendo in  termini cronologici al Medioevo, precorre la tendenza, tipicamente moderna, di praticare  la logica come l’arte dell’invenzione.
 [10] L’acatisto (dal greco ἀκάθιστος, «non seduto, in piedi») è  un inno di lode, intonato stando in piedi, al Salvatore, alla Madre di Dio e ad  altri santi, chiedendo protezione e aiuto per coloro che pregano. Uno degli  inni acatisti più antichi e conosciuti è quello della Madre di Dio o dell’Annunciazione.  Composto da ventiquattro contaci e altrettante strofe (ikos), che  celebrano vari episodi della vita della Beata Vergine Maria, a cominciare da quello dell’Annunciazione.  L’Epistola della Madre di Dio è uno scritto religioso popolare apocrifo,  contenente elementi leggendari, fantastici e apocalittici sulla vita eterna,  che si discostano dall’insegnamento della Chiesa ortodossa. Tale scritto (i cui  autori, rimasti anonimi, appartenevano per certo al mondo orientale e bizantino),  tradotto dallo slavo ecclesiastico, ha cominciato a circolare in Romania a  partire dal XVI secolo.
 [11] Ciò si riscontra già a partire  dalla tarda scolastica con Duns Scoto, il quale aveva colto la natura  essenzialmente relazionale del numero. L’esempio portato da Ionescu è il  seguente: il quattro definisce se stesso in rapporto al tre e al cinque, ma se  il quattro non esiste che in rapporto al tre e al cinque significa allora che  il numero è rapporto (IV, 217).
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