L’infinito tra poesia, filosofia e sentire

Quando parliamo di poesia pensante e di pensiero poetante di Leopardi, immediatamente si presentano alla nostra mente i versi di due particolari Canti: l’Infinito e il Canto notturno di un pastore errante.
Il secondo appare immediatamente, nella sua luce lunare, poeticamente spietato nel suo realismo, perché intriso di domande che sgorgano da riflessioni meditative e filosofiche universali che ricordano pagine bibliche. L’Infinito appare invece più misterioso e sottile. E tale rimane nonostante la miriade di interpretazioni, mistiche e laiche, che nel corso del tempo sono state proposte.
L’Infinito leopardiano: un mistero simile a una malia che parla soprattutto a un sentire personale e che perciò stesso non appare né definibile né sviscerabile nella sua verità. Le diverse analisi letterarie probabilmente non riescono a rendere completamente il senso profondo della lirica che rimane celato e forse colto solo a livello intuitivo dalle gentili anime, quelle anime che il poeta desiderava come suoi lettori e che ricordò con il verso di un altro Canto, ma non solo.  Al giovane ammiratore francese Charles Lebreton il poeta scriveva:

«se cercassi un qualche consenso, il suo, signore, non mi sarebbe affatto indifferente; è proprio per anime come la sua, per cuori teneri e sensibili come quello che ha dettato la sua gentile lettera che i poeti scrivono e che anch'io, se solo fossi stato poeta, avrei scritto».

Solo queste anime, questi cuori potranno forse avvicinarsi al nucleo del momento primigenio esperito dal poeta, e percepirne il tremito. Anime che non cercano l’analisi, ma il sentire.
Leopardi condannava la ragione (la raison illuministica) che pretende di analizzare cose e sentimenti perché la riteneva insufficiente a scoprire i grandi misteri dell’esistenza. Per questo che ho sempre pensato che per avvicinarsi alla sua poesia pensante, ma altrettanto al suo pensiero poetante,sia necessario un metodo, di pascaliana memoria, che unisca alla ragione il cuore (ragione calda e ragione fredda, egli dice).
Quei quindici versi dell’Infinito,che il «semplice» lettore ascolta e sente,quasi come preghiera, sono significativi anche dal punto di vista teoretico. La lirica, dunque, coinvolge nella ricerca del suo senso profondo non solo letterati ma anche, e forse soprattutto, filosofi, teologi e persino esponenti della scienza.


Bertrand Russell, ad esempio, pensava all’Infinito come alla più significativa sintesi del suo stesso pensiero, una poesia che, egli dice, «più di ogni altra ch’io conosca, rende i miei sentimenti riguardo all’universo e alle passioni umane». Si sa, da una conversazione privata, che il filosofo frequentava la lirica leopardiana e da essa traeva ispirazione considerando «la poesia e il pessimismo di Leopardi la più bella espressione di ciò che dovrebbe essere il credo di uno scienziato».
Il tentativo di avvicinamento all’Infinito che ho provato a sviluppare qualche anno fa era scevro da ogni intento di analisi; eppure a quel tentativo sono stata condotta, quasi presa per mano, dal filosofo per eccellenza: Immanuel Kant e, dunque, dalla ragione.

Un’immagine eidetica luminosa ha fatto nascere un «Incontro»: quello tra il rigoroso filosofo e il poeta-filosofo.
Leopardi e Kant e un punto in comune: l’insufficienza della ragione. Per il filosofo della «ragion pura» si può approdare solo alla conoscenza di ciò che appare e la ragione pura si rivela incapace di attingere alla sfera noumenica, luogo dell’inconoscibile verso il quale l’uomo si sente comunque attratto.
La ragione per Leopardi è piuttosto strumento di distruzione che di costruzione, è «nemica d’ogni grandezza» (Zib. 14, 1817) e non essendo nelle sue possibilità «l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita» (Zib. 3242 del 22.8.1823) deve cedere il passo all’immaginazione e al cuore.
C’è però un altro livello di avvicinamento rintracciabile in un particolare concetto: quello di limite. Per il filosofo si tratta del riconoscimento del limite che la ragione incontra nel suo esercizio e su cui riflette; per Leopardi, invece, si tratta del limite che sperimentiamo nel tentativo di conseguire la felicità.

Il limite nella riflessione leopardiana si identifica con la «privazione»:

«L’anima umana desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti I. né per durata, 2. né per estensione. […] [E] la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso […]. [Perché] l’anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova, già non può esser soddisfatta. Dove lo trova, abborre i confini». (Zib. 165-183, 1820)

L’uomo è limitato, privo della possibilità di accedere alla felicità continua e ancor più grande sarà l’infelicità nei grandi spiriti che non possono accontentarsi delle piccole felicità dell’esistenza.
Per Kant invece il limite riveste anche una determinazione positiva. Teorizzando il concetto egli usa due termini: Grenze e Schranke, in italiano resi, rispettivamente, con «limite» e «confine».
Il primo rivela il limite inteso in senso positivo ovvero come qualcosa che determina la compiutezza di un ente (ad esempio, un tavolo è tale grazie ai suoi limiti perché sono questi che permettono che esso si distingua da ciò che è intorno); i confini invece mostrano una mancanza, una privazione; si può comprendere il concetto pensando al sapere scientifico mai compiuto, i cui confini si spostano sempre in avanti. La ragione in Kant ha a che fare con il limite inteso in senso positivo e, dunque, si comprende come compiuta e si situa tra il mondo fenomenico dell’esperienza e il mondo noumenico, per noi sconosciuto. Il limite dunque «appartiene sia al campo dell’esperienza, sia a quello dell’essere del pensiero» e così inteso appare simile a una soglia, varcando la quale si uscirebbe dal campo della conoscenza determinata, fenomenica, per affacciarsi sul piano di ciò che rimane mistero per la ragione.
Leopardi scrive che l’anima s’immagina quello che non vede: un albero, una siepe, quello che una torre gli nasconde, «e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose non potrebbe se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario». (Zib. 171, 1820)

Il filosofo dello Zibaldone si trova necessariamente confinato dentro gli argini della razionalità, all’interno di un «esserci» segnato ontologicamente dalla limitatezza, ma i limiti saranno annullati grazie alla poesia che gli consentirà di librarsi in quello «spazio vuoto» di cui parla Kant.
L’Infinito ne è la prova.
Per mezzo del suo cuore – riconosciuta sede di quel «sentimento ingenito e proprio dell’animo nostro» e che ne rivela la stessa natura – cui solo «spetta il sentire […] e penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita», (Zib. 3242, 1823), Leopardi trascende la sua natura sensibile e la sua stessa razionalità e può così oltrepassare il limite che si frappone fra il mondo dell’esperienza e quell’al di là sconosciuto, quella «soglia» varcando la quale ci si affaccia all’universo che Kant chiama noumenico. Il limite che non si può superare che ci dice la definitività della conoscenza metafisica è, d’un balzo, annullato e il Poeta, «sedendo e mirando» al di là della siepe, va oltre l’umano conoscere, leggero e libero del fardello di una razionalità che, come un’ancora, lo trattiene al territorio del finito. La ragione lo ha condotto sul limite, sulla «soglia» («Io nel pensier mi fingo»), egli sa, vuole immaginare; ciò che non conosce, ciò di cui è inconsapevole è l’universo verso il quale lo porterà la facoltà immaginativa, il mistero dell’oltre la soglia. L’immaginario, il noumenico che noi possiamo solo pensare ma non conoscere, si spalanca davanti a lui. Egli si immerge in quello spazio che per lui non è più vuoto, che prima poteva solo pensare e che ora, per pochi istanti, gli è dato di conoscere, assaporando «sovrumani silenzi» e «profondissima quiete». La ragione, rimasta sul limite, anzi, essa stessa limite, è sopraffatta dalle emozioni del cuore, che per poco «non si spaura» per l’esperienza di aver oltrepassato ciò che gli era interdetto. Il ritorno è sottolineato dal «vento» che stormisce tra le piante e si insinua nel fuso del tempo intorno a cui si avvolgono le umane vicende.

Un «viaggio» che però non ha consentito alla ragione, la «facoltà più materiale che sussista in noi», per essere rimasta necessariamente sul limite, di afferrare qualcosa di quello «spazio vuoto» che, pur per pochi attimi, si è reso luminoso agli occhi del cuore del Poeta.
Ed egli vivrà nel rimpianto di questo qualcosa che solo il suo cuore ha intuito e goduto ma che la ragione non conoscerà mai. E poiché è grande poeta, di questo viaggio gli rimarranno le parole (sempre inadeguate ma per noi sublimi) per offrirci almeno una parvenza di quel suo contemplare, simile, ci sembra, a quello del prigioniero liberato di cui parla Platone, abbagliato dalla visione dell’essere nel suo massimo splendore: l’Idea del Bene. Catturato dall’ «immensità», mentre «tutta l’anima sua è occupata dall’immagine dell’infinito […] non è capace di nulla, né di cavare nessun frutto dalle sue sensazioni»; solo «dopo» egli può trovare il modo di esprimersi perché «l’infinito non si può esprimere se non quando non si sente». (Zib.714-15, 1821)

L’uomo è ontologicamente limitato e, per Leopardi, «la mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppur concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia.» (Zib. 601-602, 1821), così come per Kant sarebbe un non senso sperare di conoscere qualcosa che non fa parte del mondo dell’esperienza. Eppure l’uomo si sente come sospeso tra il nulla e l’infinito, attratto da un richiamo cui, a volte, non sa dare il nome; un richiamo che gli proviene da quell’inattingibile di cui parla Kant e che viene catturato solo dal poeta, poiché il filosofo è gravato di quel peso che si chiama ragione.
Il «filosofo» Leopardi, dimentico involontario di quella pienezza, memore solo di una sensazione, unico dono che quello «spazio vuoto» gli ha lasciato, si abbandonerà, come tutti gli uomini, al desiderio illimitato di felicità, respingendo quello stesso limite che egli, con un volo del cuore, aveva superato per andare oltre la «siepe». Canterà, allora, con l’universalità delle sue liriche, il lamento dell’uomo-ragione, confinato nel fenomenico, con nel cuore il rimpianto del senza tempo, del senza spazio, del senza corpo, dell’annegare, contentandosi di «naufragare» in qualcosa che l’uomo, disponendo solo di categorie della sensibilità, non saprà mai neppure nominare.

Fin qui il mio tentativo di unire filosofia e poesia ma volendo accennare ad alcune sensazioni che catturano l’animo sensibile di chi sale su «quel» Colle posso ricordare come per riuscire a sentire serva una forza d'immaginazione non comune («io nel pensier mi fingo»)… L'immaginazione, infatti, può far vivere nel pensiero quegli «interminati spazi» suggeriti a Leopardi dal paesaggio marchigiano. Può consentire alla mente di vagare nello spazio, nel vuoto luminoso… Vuoto? Oppure pieno? Vuoto di fenomeni, di cose, di esperienza oppure pieno di qualcosa che di esperienza non ha nome, eppur sentita, provata?
«Lingua mortal non dice...» perché non può dire, non lo potrà mai fare... Perché? Perché il linguaggio umano non può dire un sentire.
Ancora Leopardi che ricorda come l’uomo «non desideri conoscere ma sentire infinitamente». «Misterio eterno dell'esser nostro»!
«Misterio» inteso non come qualcosa di enigmatico, di arcano e oscuro, ma come qualcosa che la nostra mente limitata non può abbracciare e non può ridire.  
E l’Infinito è proprio questo!


Loretta Marcon
(n. 12, dicembre 2021, anno XI)



* Parte del presente contributo è tratto dal saggio “Incontro” sul limite: Kant e Leopardi, «Rivista di letteratura italiana», n. 2, 2002, Pisa-Roma, ora anche in Kant e Leopardi. Saggi, Guida, Napoli 2011.