La concezione della morte presso il popolo romeno

Se solo pensiamo al fatto che i romeni sono gli unici al mondo ad avere un «Cimitero Allegro», certamente non stupisce scoprire presso di loro una concezione della morte diversa da quella degli altri popoli. A tal fine, richiamerò innanzitutto l’attenzione su alcune consuetudini e alcune idee espresse in certe opere letterarie che possono rispecchiare, secondo la mia modesta opinione, la visione globale del popolo romeno su ciò che altri popoli del mondo considerano essere l’ultimo e più tragico evento della vita di una persona.
Bisogna dire che fin dal tempo dei Daci, i nostri antenati, era costume inviare come messaggeri al dio – Zamolxis – i ragazzi più robusti della comunità, lanciandoli in alto e lasciandoli cadere sulla punta delle lance, senza che i giovani prescelti si sottraessero al loro dovere. Al contrario, consideravano ciò un grande onore. Sempre loro, i Daci, erano pressoché invincibili in battaglia proprio perché, non avendo paura della morte (visto che essa avrebbe significato l’incontro con il loro dio supremo), combattevano con più coraggio degli altri popoli.

La stessa mancanza di paura nei confronti della morte appare nella ballata Miorița, che rappresenta uno dei miti fondanti della cultura romena [1], il mito della transumanza. A lungo il nostro popolo è stato considerato un popolo che si rassegna senza combattere, che si assoggetta al destino, essendo sfuggita ai più la vera motivazione del gesto del pastore, il quale pur essendo venuto a sapere dalla sua pecorella prodigiosa della morte che si sta preparando per lui, non fa nulla per salvarsi.
È vero che il pastorello si sottomette in un certo senso al destino, ma il suo pensiero si rivolge al modo in cui potrebbe passare nel mondo delle anime dell’aldilà contento, pacificato grazie a un rito nuziale di natura cosmica, portando a compimento la funzione sociale dell’uomo. La morte in sé non è vista quindi come una tragedia, questo sembra dirci il pastorello, che sa invece di dovere arrivare nell’altro mondo con l’animo leggero, perché diversamente l’anima potrebbe non trovare pace, trasformarsi in fantasma, e ciò sarebbe certamente una cosa ben peggiore. Per questo lui si prefigura il funerale come un matrimonio e per questo nel mondo rurale romeno si continuano ancora a celebrare i funerali delle persone morte giovani e non sposate sotto forma di matrimoni, una pratica conosciuta e descritta nel libro della studiosa americana Gail Kligman, The Wedding of the Dead [2].

A testimonianza di tutto ciò, sopravvive ancora nei villaggi una tradizione, che coinvolge tutte le persone vicine al defunto (familiari, compaesani…), la quale prevede che non si debba lasciare da solo il morto per tre giorni e due-tre notti, il periodo in cui il defunto si crede resti ancora nel mondo dei vivi prima che venga celebrato il funerale. Durante questo tempo spesso ci si distrae con diversi giochi, alcuni anche divertenti [3], come avviene d’altronde in occasione del pranzo rituale in onore del morto, dove i convitati parlano della persona defunta con rispetto, ma si fanno anche degli scherzi verbali sul suo conto o si ride ricordando momenti divertenti della sua vita, pratiche che mostrano ancora una volta il modo in cui i romeni si relazionano alla morte.
È pur vero che la tristezza provocata dalla morte è presente tra coloro che sono rimasti in vita e viene trasmessa nel mondo dei villaggi specialmente mediante i bocete, poesie popolari composte il più delle volte sul momento, sotto l’impulso del dolore di colei che piange il morto. In ogni caso, comunque, la morte è vista come qualcosa che fa parte dalla vita, non come la fine definitiva di tutte le cose, ma piuttosto la fine della vita terrena e l’inizio della vita eterna, in un’altra dimensione. In questo senso, va menzionato anche il legame che i romeni istituiscono tra la vita dell’uomo e quella della natura, essendo attestate sul territorio del nostro paese pratiche come quella di piantare un abete alla nascita di un bambino, il suo addobbo per le nozze e il suo taglio alla morte della persona.

L’idea del rapporto del romeno con la natura, idea che lo ha anche protetto nel corso della storia nei momenti di difficoltà, è molto ben rispecchiata in genere in gran parte del folklore letterario romeno. Ne sono un esempio il quadro naturale in cui il pastorello della ballata Miorița s’immagina il modo in cui vorrebbe essere sotterrato: «Che mi dian sepoltura /Qui, nella radura, / Dentro il recinto, / Per restarvi accanto; / Dietro i capanni,/ Per sentire i miei cani», come pure le poesie di alcuni poeti colti, tra cui Mi resta un solo desìo di Mihai Eminescu: «Mi resta un solo desìo, /Nel calmo tramonto/ Morir con il vostro oblìo /All’orlo del mare; / Mi sia il sonno lieve/ Il bosco fratello, / Sulle distese acque / Mi sia il ciel sereno. / Bandiere non voglio, / Né feretro fiero, / Bensì un verde letto / Di teneri rami» [4], o la poesia del poeta del Maramureș romeno, passato a miglior vita pochi anni fa, Petre Got, che nella poesia Radici si presenta così: «Io vengo da un paese di sogno,/ Dalla regione di Maramureș,/ C’è tanta elevata luce lì/ Che ti viene [la] voglia di piangere./ Nessuno muore, nessuno muore,/ Solo alla fine si ritira/ In un fiore».
Non c’è ragione, dunque, di vedere la morte come una tragedia, perché morendo ritorniamo alla natura madre. È vero che le persone care non le vedremo più, però ciò sarà solo per un tempo circoscritto perché prima o poi tutti ritorneremo ad essa, e alla fine saremo di nuovo tutti insieme.

In tanti villaggi della Romania, i morti non sono sepolti fuori del paese, o ai suoi estremi margini. Troviamo piuttosto il cimitero al centro del paese, vicino alla chiesa, dove i congiunti hanno la possibilità di fare visita ai loro cari ogni volta che vanno in chiesa e non solo. In più, i morti continuano a fare parte del mondo del villaggio, noi non smettiamo di rapportarci a loro, perché non sono usciti definitivamente dal nostro mondo e, in alcuni momenti, legati alle feste dell’anno, si crede che si aggirino liberamente nel mondo dei vivi (per esempio dal giovedì prima della Pasqua fino alla festa del 24 giugno, chiamata Rusalii [5] nel calendario religioso e Sânzienele nel vecchio calendario agrario), ogni tanto i parenti o quelli a loro vicini accendono un cero, fanno un’offerta per la loro anima e pregano per essa.
Anche il «Cimitero Allegro» di Săpânța [6], distretto del Maramureș romeno, è collocato, secondo questo criterio, al centro del paese, vicino alla chiesa. Non ha le croci dipinte in colori freddi, così come si usa in altre parti del mondo, ma in colori accesi, come quelli che caratterizzano il mondo di coloro che vivono ancora. Solitamente sulle croci non troviamo epitaffi tristi, ma immagini della vita dei morti e componimenti poetici (anche sotto la forma specifica dei «verșuri la mort» [versi in morte]) che scherzano in qualche modo sulla vita di coloro che sono sepolti là, presentano in modo vivace, o quanto meno sereno, la loro vita. [7]
Il «Cimitero Allegro», diverso da altri cimiteri, si integra perfettamente in questa concezione, propria del romeno, secondo cui la morte è in realtà soltanto il ritorno al mondo da cui proveniamo, il ritorno alle origini. La vita è una parentesi, più o meno lunga, e la morte comporta la nostra reintegrazione nel ciclo cosmico.

Un esempio di componimento del genere è quello scritto da una nuora per sua suocera: «Sotto questa pesante croce / Giace la mia povera suocera/ Se viveva ancora tre giorni / C’ero io sotto e lei leggeva/ Voi, che passate di qui, / Cercate di non svegliarla, / Perché se torna a casa, / Ricomincerà a brontolarmi / Ma io farò in modo, / Che non torni più. / Voi che leggete qui/ Come a me non vi succeda/ Suocera giusta vi troviate, / Con essa ben viviate», che riesce a rispecchiare l’eterno conflitto tra suocera e nuora in un modo simpatico e scherzoso.
Tante persone della Romania, specialmente del mondo rurale, quando parlano della morte lo fanno in piena serenità, attenendola come qualcosa di normale. Si preoccupano soltanto di compiere quanto più possibile delle buone azioni, di non fare del male a nessuno, prima di incontrarla, per potersene andare via con serenità, per essere in armonia con tutti coloro che lasciano dietro di sé.
Anche un proverbio romeno, sintesi della saggezza del nostro popolo, recita in modo molto significativo: «Chi teme la morte ha perso la vita», essendo la morte, indirettamente, anche un impulso a vivere la vita con serenità, nella consapevolezza che l’esistenza terrena è solo una parte della nostra vita, breve, ma della quale dobbiamo approfittare per il tempo che ci è dato, sia per gioire noi, sia per portare gioia alle persone intorno a noi, per non andare nell’aldilà avendo dei rimpianti.
Quindi, il popolo romeno sa che la vita è un dono, che deve essere vissuta nel modo più bello possibile, in armonia con gli altri e con la natura, ma sa altresì che la morte è una cosa ugualmente naturale e che non ci deve fare paura. Sarebbe non soltanto inutile, perché impossibile da evitare, ma ci farebbe perdere anche momenti belli e brevi della vita che ci è stata donata, pienamente consapevoli della verità espressa in quella canzone popolare che dice: «Questa vita non è molto facile, / Ti innalza e ti abbassa / Questa vita è passeggera / Come i petali del fiore leggero».


Lucia Ileana Pop
(n. 1, gennaio 2022, anno XII)



NOTE

[1] A detta di George Călinescu la cultura romena ha quattro miti fondatori. Gli altri tre sono: il mito dell’etnogenesi del popolo romeno (che appare nella ballata popolare Traian e Dochia), il mito della creazione (presente nella ballata popolare Il Monastero di Argeș ovvero Il mastro Manole) e il mito erotico (presente nel poema di ispirazione folclorica Zburătorul di Ion Heliade-Rădulescu).
[2] La tradizione è molto ben descritta nella traduzione romena dell’originale: Nunta mortului, ritual, poetică și cultură populară în Transilvania, Polirom, Iași, 1998, scritto da Gail Kligman dopo approfondite ricerche in uno dei villaggi del distretto di Maramures, Ieud (Romania), che meglio conservano usi e costumi della tradizione; da leggere anche Ioanna Andreesco-Mihaela Bacou, Morire all’ombra dei Carpazi. Dieci anni di indagine nella Romania rurale, Jaca Book, Milano, 1990.
[3] Si veda Simion Florea Marian, Înmormântarea la români III. Studiu etnografic, Ed. Academiei Române, București, 1892.
[4] Traduzione di Marco Cugno.
[5] La festa conosciuta con il nome di Pentecoste in Italia.
[6] Unico al mondo, è visitato ogni anno da turisti provenienti dai quattro angoli del pianeta.
[7] Un inventario e uno studio filologico-critico di questi epitaffi che apparivano sulle croci fino al 1999, e che in buona misura ancora vi compaiono, si ritrovano nel volume Le iscrizioni parlanti del cimitero di Săpânța, a cura di Bruno Mazzoni, Edizioni ETS, Pisa, 1999.