Giuseppe Pontiggia e il viaggio nella parola

Il viaggio nella parola

Non si può parlare di Giuseppe Pontiggia senza affrontare il tema del linguaggio, tema che diviene una trama e che percorre le sue opere dai saggi ai romanzi e viceversa. E senza affrontare il tema della parola: nella bellezza della sua ricerca etimologica, identitaria e storica e nella ricerca della sua possibile polisemia. Perché nella scrittura la parola non è mai da sola ed è sola allo stesso tempo.           
Così scrive Pontiggia: «Nella storia delle parole ci attrae il mutamento, ma la continuità è altrettanto misteriosa. Essa si impone con l’evidenza del presente, che sembra esaurire il tempo dell’attualità. Eppure, se c’è una meta che la cultura ha sempre, e fatalmente, perseguito, è proprio di distruggere questa illusione, risalendo alle origini, ritrovando i significati che la parola ha acquistato lungo il percorso, per riapprodare infine nell’immediatezza. Ma essa, a questo punto, è scomparsa. È come se nel viso di un vecchio si cercasse il bambino. Questo sdoppiamento, nell’immediatezza ci è precluso. Al massimo, se conserviamo di lui memorie o immagini, riusciamo a sovrapporle al presente, ma non a farle coincidere: possiamo, alternativamente, vedere l’oggi e l’ieri, l’uno escludendo ogni volta l’altro […] Attirati dai rami, dimentichiamo le radici, solo perché non le vediamo. Mentre l’attrattiva di quegli universi di parole che sono i vocabolari è proprio di favorire il viaggio nei due sensi: in quello di procedere e in quello del ritornare» [1].       
Lo scrittore parla di un viaggio, un viaggio nella parola, di un viaggio che non si compie in un unico senso, perché non si possono escludere le «radici» delle parole e allo stesso tempo apprezzarne il valore nella contemporaneità. Questo viaggiare va dal presente al passato e dal passato al presente, scambievolmente e senza fermarsi, nella sua ciclicità, perché la lingua è mobile e, nella sua composizione ed evoluzione, acquisisce nuovi elementi dal presente e dal passato e ne perde altri per poi magari riacquistarli, ancora trasformati nel loro sviluppo. Nel tempo.   
La lingua nel suo processo evolutivo ricorda quello che succede, in ambito scientifico, nella ricombinazione genetica o crossing-over. Dopo la fecondazione, cioè dopo l’unione dei gameti maschile (spermatozoo) e femminile (cellula uovo), si verifica uno scambio – crossing-over, appunto –, dei vari geni e caratteri tra i cromosomi umani maschili e femminili. Ogni nuovo essere che nasce è espressione di una nuova ricomposizione di geni provenienti dal patrimonio genetico del padre e della madre. Questo complesso fenomeno bio-genetico determina una nuova espressività di caratteri somatici e psichici, dando luogo alla varietà degli esseri umani, diversi da chi li ha generati, ma somiglianti allo stesso tempo, appunto a causa della ricomposizione genetica, unica in ogni individuo. Una ricostituzione e un rinnovamento nell’evoluzione della specie.  Mi piace pensare che, tra il presente e il passato e anche il futuro delle parole, avvenga un fenomeno simile crossing-over nella ricomposizione delle parole, dei loro significati e della lingua. Fenomeno che nel corso dei secoli la vivifica e la rinnova e la proietta nel futuro. La lingua, dunque, è sempre rinnovata nell’attualità e nel futuro, ma non può disfarsi dell’antico, della coscienza della sua storia e delle sue parole che, in alcuni casi, si presentano anche in contraddizioni e forme «ermafrodite», come ci dice Pontiggia.  
La parola, nella storia delle sue trasformazioni e accezioni, stabilisce una reciprocità con i significati più moderni e viceversa. Una mappa le parole, che ci portano a riflettere e ad assumere la responsabilità delle stesse e dei significati, anche contraddittori, acquisiti nel tempo, fino a portarci a una riflessione complessa e articolata sulla comprensione del mondo, sull’umanità, sulla sua storia. Questo afferma lo scrittore a proposito della parola rivoluzione: «Un caso singolare è quello della parola ‘rivoluzione’, che oggi ha due significati apparentemente opposti: quello di ‘mutamento radicale’ e quello di ‘ritorno’ e di ‘rotazione’ in senso astronomico. Nella tarda latinità, quando cominciò a diffondersi, essa significava ‘rivolgimento’ in senso materiale (rotolamento della pietra dal sepolcro di Cristo) e ‘giro’ in senso traslato (sant’Agostino parla delle ‘rivoluzioni’ delle anime attraverso diversi corpi). L’accezione astronomica di ‘rotazione cosmica’ dei corpi celesti si impose nel Rinascimento, grazie alla popolarità del libro di Copernico. Ma intanto l’altra accezione, ora legata alla metafora sociale e politica del ‘rivolgimento’, persisteva, anzi si divulgava rapidamente, a conferma della natura ermafrodita della parola». E come se: ‘l’apparizione del nuovo e riscoperta dell’antico trovassero un loro misterioso punto di coincidenza’» [2].       
Pontiggia sostiene l’accuratezza, la chiarità della parola e del linguaggio, che non è mai estetismo o estetizzazione ma è un «prendersi cura». E il prendersi cura necessita di una esperienza di conoscenza e di un sentimento di empatia. Il prendersi cura è una sapienza. Pontiggia ci porta verso un sentimento della parola che è conoscenza e riconoscenza, è amorevolezza. Ci porta verso una civiltà.      
A tal proposito Daniela Marcheschi, nel saggio introduttivo alle Opere dello scrittore, così si esprime: «Strumento della cultura umana da cui è alimentata, sempre pronta a logorarsi ma anche a rinvigorirsi, la parola si stratifica nella storia, riempiendosi di significati molteplici con cui un autore deve fare i conti se vuole ridonare energia alla propria scrittura» [3].  
Ne Il miraggio della normalità così scrive Pontiggia: «Vedo in televisione la giovane madre, animosa e ansiosa, di un bambino emofiliaco, che dichiara: ‘Noi non la consideriamo una malattia. È un difetto, un semplice difetto che si può curare benissimo’. Più avanti aggiunge: ‘È un bambino assolutamente normale, come tutti gli altri’. Si intuisce dalla veemenza con cui ripete un avverbio precario come assolutamente, che lo sforzo, prima di convincere gli altri, è di convincere sé stessa. La si può capire, in una società che coltiva il miraggio della normalità e la scambia per una perfezione di massa: ovvero che esercita una coazione, funzionale ai consumi, a imitare modelli in cui solo pochi idioti (moltissimi) si riconoscono. A cominciare da quelli fisici: dalle donne fenicottero delle sfilate, sopravvivenze vacillanti a diete paranoidi, agli uomini muscolati delle palestre estetiche, campioni di una virilità resa latitante dai farmaci. Quanto alla normalità intellettuale, meglio non indugiarvi, se pensiamo agli stupidi che ci assediano. La stupidità collettiva è il territorio della satira moderna. Che ne ha fatto, più che un’isola felice, un continente gremito di abitanti. La si può capire questa madre, in un pianeta telematico succube di associazioni demenziali: salute perfezione – felicità. E che è atterrita a pronunciare una parola come malattia quanto liberata a pronunciare una parola come normalità. Ha il panico dei nomi, non privo di legittimità in un mondo che ha fatto delle distinzioni nominalistiche il principio di discriminazione odiose e spesso fatali. Milioni di uomini sono stati perseguitati e uccisi in nome dei nomi. Questa madre però ha sperimentato la malattia di suo figlio e sa che, chiamandola difetto, non ne attenua i disturbi. Non dovrebbe temere di pronunciare quella parola […] Noi viviamo nell’universo della pubblicità commerciale, dove non esistono la malattia e la morte, tranne che in quella dei farmaci e delle pompe funebri. Ma nei momenti duri della vita gli uomini ritrovano la verità della parola. Questa madre dovrebbe approfittare delle difficoltà per ritrovare un linguaggio in cui riconoscersi. Dovrebbe parlare di una malattia che si può fronteggiare. Se avrà fiducia nel linguaggio, il linguaggio la cambierà» [4].   
Lo scrittore, in questo pezzo, è molto duro verso la costruzione di modelli di ogni tipo, compreso il tentativo di costruire un modello di linguaggio che altera la realtà. È duro lo scrittore verso quella «normalità intellettuale» e quella «stupidità collettiva» che appiattisce e consuma anche le parole alterandole, per occultare la loro verità, quando invece è necessario illuminarla. Quel linguaggio manipolato che propina «il miraggio della normalità» e altera o abolisce alcune parole come morte e malattia che comprendono verità umane profonde. Vi è una parte della società che aderisce a linguaggi ornamentali, modelli verbali standardizzati, che non sostengono la verità e propinano a volte anche la menzogna, l’occultamento di verità dell’esistenza. Ma tradire il linguaggio significa tradire il pensiero, il ragionamento, la storia cognitiva e affettiva delle parole che, come abbiamo visto, portano con loro la complicatezza dell’esistenza umana sia individuale che collettiva. Spetta alla letteratura salvare la lingua, la sua complessità, la sua verità e, se la letteratura abdica a questo, non è più letteratura. È duro Pontiggia in questo pezzo, ma non lo è con quella madre che ha ascoltato in televisione, della quale vede tutta la fragilità umana nell’ affrontare la malattia del figlio, che chiama difetto. Voglio ancora ribadire le parole emblematiche e commoventi, piene di compassione dello scrittore: «La si può capire questa madre […] Questa madre dovrebbe approfittare delle difficoltà per ritrovare un linguaggio in cui riconoscersi. Dovrebbe parlare di una malattia che si può fronteggiare. Se avrà fiducia nel linguaggio, il linguaggio la cambierà» [5].  
L’autore ancora una volta afferma la forza delle parole e del linguaggio, non solo come portatori di conoscenza, ma anche come portatori di verità, e di sentimento del sapere. Di possibilità di riconoscimento di sé stessi. Essi hanno il potere di cambiare l’uomo, l’umanità, così come hanno il potere di distruggerli: pensiamo al linguaggio dei regimi, capillarmente costituito e manipolato, finalizzato al condizionamento del pensiero. Un vero e proprio attentato alla vita psichica, all’apparato pensante dell’uomo. Daniela Marcheschi, sempre nell’introduzione alle Opere dello scrittore: «Si tratta di non far proliferare la falsificazione del linguaggio, la ‘rettorica’, e di dirigersi consapevolmente verso la verità, qualunque essa sia. La verità su cui fa perno il lavoro di Pontiggia trascende i limiti dell’enunciato linguistico: è nell’evidenza, è la sostanza etica di cui si alimenta e di cui dovrebbe alimentarsi l’esistenza degli uomini» [6].    
Pontiggia aveva pensato di scrivere un libro sul linguaggio autoritario su sollecitazione della Marcheschi. Riportiamo qui la parte iniziale o i primi appunti del saggio che ha lasciato incompiuto, pubblicato insieme ad altri interessanti testi inediti: «Sentenza. Profezia. Comando. Le tre funzioni in cui si articola il linguaggio autoritario possono coesistere: ‘Guai ai vinti!’, sentenza e profezia, esprime anche il comando del vincitore. Le tre funzioni attuano la volontà di dominio sui tre tempi in cui si articola l’esperienza: passato, futuro, presente. Il passato, irrevocabile, è imprigionato nella sentenza. Il futuro, inaccessibile, è anticipato dalla profezia. Il presente, l’unico in nostro potere, viene sottomesso al comando e sottratto all’angoscia dell’imprevedibile. La forza dirompente delle ideologie nasce dalla convergenza delle tre funzioni, sentenza, profezia, comando, che hanno assunto rispettivamente nomi nuovi: scienza, utopia, rivoluzione. Il passato, decifrato dalla scienza, rende inevitabile il futuro dell’utopia purché il presente passi attraverso la rivoluzione. Questo purché incrina il dominio sul passato e sul futuro e rende più imperativo l’appello all’azione. La paura del dubbio alimenta il fanatismo. Si parla di degenerazione autoritaria delle ideologie, quando si tratta invece del loro compimento» [7].            
L’arte della scrittura deve appropriarsi del ruolo di sostenere, dare responsabilità e valore etico, verità artistica alla parola e al linguaggio, opponendosi a ogni linguaggio autoritario e violento, e divenendo lingua del sapere umano.           
E cosa avrebbe detto e scritto oggi Pontiggia in merito al sempre più nutrito repertorio di parole in uso, che non danno dignità alla lingua e dunque alla persona? Ho immaginato di dialogare con lui riguardo agli insegnamenti magistrali che ci ha lasciato. Faccio riferimento alla definizione diversamente abile usata per qualificare soggetti e in particolare bambini, che presentano delle patologie neuropsichiche anche gravi. Questa espressione nasce senza intenzioni malevole, anzi, magari nasce con lo scopo di alleggerire la portata della malattia, ridurne la gravità clinica; nasce per dare la speranza che ci possano essere delle abilità residuali in un paziente colpito duramente da un deficit; ma essa finisce con il negare la stessa disabilità, depistando la verità. Le abilità diverse, del diversamente, non sono le abilità residuali, perché queste andrebbero definite in altri termini, senza ambiguità. È una situazione simile al caso citato da Pontiggia: dove la madre chiama difetto una malattia complessa come l’emofilia, annullando una parte della realtà e della componente del vero clinico. Ancora di più accade nella locuzione diversamente abile, in cuiviene escluso,completamente, il riferimento alla malattia, anzi, viene a spiccare il termine abilità che nega la disabilità stessa. Ma questo non è un bene né per il malato né per la lingua, perché affrontare la verità della lingua, ricorda Pontiggia, dà coraggio, ci permette di «fronteggiare» meglio l’esperienza della malattia, l’esperienza della vita stessa. Lo scrittore ci ricorda di avere «fiducia» nel linguaggio, di ‘riconoscersi’ nel linguaggio: e allora il linguaggio diventerà elemento di «cambiamento». Un elemento identitario.     
Fare verità sul linguaggio è necessario per chi ha a cuore la parola, per chi ha anche il coraggio, come Pontiggia, di fare della propria esistenza una ricerca etica di verità attraverso la lingua. Attraverso la parola. Attraverso la letteratura. E quando la parola viene distorta, falsificata, corrotta, anche il pensiero subisce lo stesso destino. «Scrittura precisa e ‘densa’» la definisce Amedeo Anelli, «per la tensione fra scrivere e intendimento etico» [8]. 
Anche Papa Francesco pone il problema del linguaggio, del linguaggio con il quale parlare di Gesù, e scrive così: «Certo non con il linguaggio dell’abitudine. Il linguaggio della vera tradizione è vivo, vitale, capace di futuro e di poesia. Il linguaggio dell’abitudine è invece stantio, noioso, cerimonioso, ovvio […]. Il peggio che possa accadere è tradurre la potenza del linguaggio evangelico in zucchero filato: attutire l’impatto delle parole, smussare gli angoli delle frasi, addomesticare il senso del discorso» [9]. Papa Francesco è chiaro sulle parole, in questo caso del Vangelo; esse vanno lette nel loro significato, senza abbellimenti o enfatizzazioni, senza diminuzioni, o attenuazioni ipocrite. La potenza delle parole è tutta lì per chi le legge senza filtri o distorsioni ideologiche.

Dello stretto rapporto tra verità e linguaggio e tra linguaggio e creatività danno un esempio i bambini. Studi e ricerche sullo sviluppo del linguaggio nei piccoli hanno messo in evidenza che questo avviene non solo per imitazione ed evoluzione biologica, ma anche per specificità di combinazioni e uso individuale dei suoni e delle parole. Per noi ciò fa parte della creatività dei bambini che, attraverso la sperimentazione del linguaggio, inventano una vera e propria lingua [10].  Nelle varie fasi di sviluppo del linguaggio i bambini mantengono uno strettissimo rapporto tra l’oggetto e la parola: la parola significa la cosa e viceversa. Mantengono una strettissima relazione con il mondo. Non c’è posto per la mistificazione, la falsificazione: stanno imparando a nominare la vita. L’apprendimento del linguaggio, poi, non è disgiunto dallo sviluppo sensoriale e cognitivo, relazionale e affettivo, corporeo e motorio: la lingua viene incarnata. Per ogni bambino lo sviluppo linguistico è anche una forma di composizione, di creazione soggettiva, identitaria, della propria lingua in formazione, e della realtà; l’una influenza l’altra. Il linguaggio, dunque, costruisce il mondo e il mondo il linguaggio. Ed è proprio in questo processo evolutivo e creativo che «linguaggio e vita si confrontano e interagiscono: la vita che costruisce il linguaggio e il linguaggio che costruisce la vita. Dal linguaggio si apprende come dalla vita e viceversa» [11]. Da grandi il linguaggio che abbiamo imparato e creato è la nostra lingua: ci identifica, identifica la nostra affettività, il nostro pensiero, la nostra coscienza. E questo avviene, a maggior ragione, per la scrittura: poetica, narrativa e critica, dove si conservano i tratti distintivi linguistici dell’autore.     
«La lingua dell’adulto porta l’impronta di come è stata appresa e di tutti gli elementi che hanno contribuito alla sua costruzione sia cognitivi che affettivi, sia sonori che di meraviglia. Se si è appresa ridendo o piangendo, giocando o in contesti sfavorevoli di privazioni, maltrattamenti e abusi. La lingua parlerà, quando saremo adulti, così come fa il corpo» [12]. Dovremmo recuperare questa modalità di apprendimento, di stupore e creatività che hanno i bambini. Come dice Pontiggia, è necessario riconquistare e costruire la nostra lingua nella «artificialità della pagina»: è questa la sfida della letteratura e dell’arte della scrittura, della poesia, dove è indissolubile il rapporto tra linguaggio e verità, lingua e creatività. La vera arte riesce a ritrovare il linguaggio e l’anima di quella lingua, che è stata anche la nostra, quando siamo stati bambini. Eliot così scrive: «Il popolo che cessa di curare la propria eredità letteraria s’incammina verso la barbarie; il popolo che smette di produrre letteratura cessa di progredire in pensiero e sensibilità. La poesia di un popolo prende vita dal linguaggio del popolo stesso, e a sua volta gli dà vita; e rappresenta il suo più alto grado di coscienza, il suo maggior potere e la sua più delicata sensibilità» [13].         
A proposito del linguaggio orale e del linguaggio scritto, così scrive Pontiggia: «Il linguaggio della prosa è un linguaggio radicalmente diverso dal linguaggio orale. Il linguaggio orale è il linguaggio della parola e del corpo, il linguaggio della prosa è un linguaggio artificiale circoscritto alla pagina: non ci sono pause, gesti, toni di voce. Il linguaggio orale è infinitamente più articolato, più ricco, più espressivo. Noi attraverso il concorso del corpo e delle parole comunichiamo infinitamente di più di quanto la pagina nei suoi limiti tecnici può fare» [14]. Nel linguaggio scritto dunque, spiega Pontiggia, manca tutto quel complesso sonoro della voce, del movimento e della gestualità, della mimica del corpo, dello sguardo, di quello che noi chiamiamo linguaggio non verbale, e si apprende anch’esso nel corso dello sviluppo. Nella scrittura manca il corpo nella sua espressione fisica e sonora. La parola è sola. La parola è sola sulla pagina, nelle mani dello scrittore. La voce ci parla con tante sfumature e ci dà tante informazioni su quanto detto e come detto, perché chi parla ha anche un corpo, la scrittura, invece, non ha un soma. È un «linguaggio circoscritto alla pagina».        
L’emissione della voce è il risultato di un complesso meccanismo anatomico e fisiologico. La voce è una espressione del corpo; fa parte del corpo con le sue corde vocali, la laringe, la faringe, la cavità orale, la lingua e tutto l’insieme dell’apparato broncopolmonare con l’attività respiratoria. Così scrive Leonardo da Vinci: «Non pò essere voce, dove non è movimento e percussione d’aria, non pò essere percussione d’essa aria, dove non è strumento, non pò essere strumento incorporeo» [15]. Questo a dimostrazione di quanto la voce sia corpo, di quanto la parola sia incarnata. E ciò è ben chiaro a Pontiggia.  
Pontiggia ci riporta al dato di fatto che «nello scrivere ci si affida all’artificialità della pagina […], che la pagina ha dei limiti meccanici molto precisi» [16], e che «le parole devono interagire e devono produrre certi effetti: o li producono o il testo è mancato […]. Il testo presuppone tutta una esperienza fantastica e speculativa dell’autore e del lettore, però va giudicato nei suoi limiti» [17].          
In tale concetto riproposto dallo scrittore mi piace far rientrare l’idea di limite di cui si è occupata la giovane critica Sara Calderoni: «Il limite è innanzitutto per l’autore […] un punto di consapevole osservazione della realtà, entro il quale riconoscere il valore dell’esperienza; ma è anche una possibilità di superamento di sé per riprogettarsi nella vita in modo più autentico» [18].  
Il bisogno di dare espressività in particolare alla voce, e in genere al non verbale, è molto sentito da Pontiggia nella scrittura dei suoi romanzi, tant’è che egli a volte insiste sulla rappresentazione delle varie modulazioni della voce stessa: «‘Ascoltami’ rispose Mario a voce bassa, come a suggerirle la tonalità» [19]. E ancora voglio riportare un’altra sequenza, così come proposta dall’autore nella successione degli a-capo:    

«Provò a dire ad alta voce:     
‘C’è sempre tempo’   
e poi: 
‘C’è ancora tempo’     
ma l’effetto era sempre lo stesso.       
Allora, a voce più bassa, ripeté:          
‘C’è sempre tempo’    
Guardò il buio davanti a se e, con voce cupa e grave, disse:  
‘C’è sempre tempo”» [20].
In questo passo, che è anche poetico, è evidente come nella scrittura le rappresentazioni di variazioni tonali della voce e il suo ritmo si embrichino nella maestria anche delle pause.   
Se nella prosa, dunque, non può esserci il suono diretto della voce, le infinite modulazioni, la prosodia, il ritmo, tutti questi possono essere riprodotti attraverso strategie di scrittura e l’inventiva dell’autore.   
L’importanza della rappresentazione del non verbale della voce viene pure teorizzato dallo scrittore in una metariflessione; dove narrativa, poesia e pensiero saggistico si incontrano: «E scopriva i poteri magici delle parole sia quando le diceva, sia quando vi rinunciava. Quei vuoti inattesi, quelle intermittenze del discorso, quei silenzi commossi creavano un linguaggio parallelo, eclissi di parole che ne suscitava l’eco» [21].  
Pontiggia teorizza l’esistenza di un mondo non verbale che chiama «linguaggio parallelo»: quel linguaggio che rimanda al corpo, un non verbale pieno di significati e di contenuti, e fisicamente esistente. Il contrario di come inteso da alcune correnti letterarie e di pensiero che, nell’estremizzazione concettuale, giungono alla dematerializzazione della realtà. Per Pontiggia il mondo non verbale ha la sua fisicità che la scrittura può rappresentare. Quello che è specifico della vocalità o del corpo può avere dunque una sua rappresentazione nella scrittura, nell’«artificialità della pagina», quindi nella maestria tecnica e nell’invenzione dello scrittore: questo afferma Pontiggia.     
L’autore ci parla di un incontro in parte misterioso e allo stesso tempo consapevole, dell’incontro che avviene nella pagina: una interazione tra il genio creativo dell’autore e la parola scritta. E Pontiggia, nei suoi romanzi, ma anche nei saggi, ce ne dà esempio. Nella narrativa appare evidente questo corpo a corpo tra lo scrittore e la parola, tra lo scrittore e la pagina. E la pagina è il fantasma della parola. La pagina è la sfida del non parlato e del parlato della voce, che devono essere riscritti.  È il processo di costruzione della scrittura, dell’arte del linguaggio, dove è necessario mette insieme abilità letteraria e creativa e abilità tecnica, sapienza linguistica. Ma questo deve avvenire nella pagina, oltre la quale la scrittura non può andare. Se dobbiamo cercare di rappresentare la voce, le sue inflessioni o il corpo, non si può andare oltre la scrittura e la pagina. Pagina che lo scrittore definisce «artificiale» e non artificiosa – lui, così attento all’etimologia: significando che la pagina ha delle regole tecniche dalle quali non si può prescindere. Questo richiede l’arte della parola scritta. Ma lo stretto della pagina non è una restrizione alla fantasia artistica, alla creatività; è solo una diversa condizione di espressione dell’arte, possibile con la scrittura. Mentre nell’arte del cinema e del teatro la parola può essere parlata dalla voce dell’attore con le sue modulazioni, ed essere accompagnata dalla mimica facciale, dai movimenti del corpo, la scrittura richiede qualcosa di diverso, perché è sola sulla pagina, è senza un soma che la rappresenti. Nel teatro, però, ci può sfuggire un movimento, una espressione mimica, una sfumatura della voce, che la scrittura può sottolineare e rendere memorabile. Pensiamo ancora a quanta tecnica e inventiva sia necessaria per la rappresentazione, nella scrittura, di un linguaggio mistificatorio o falso. Nel soggetto parlante, in diretta, è facile accorgersi della discrepanza tra il linguaggio verbale e non verbale; nella scrittura, invece, ciò lo si deve rappresentare.       
«Scrivere significa essere consapevoli della grande responsabilità della parola, di quello che si comunica, di quello che si lascia alle nuove generazioni» [22].


Dai romanzi: la trama della lingua, il sentimento dell’ironia e della compassione

Pontiggia, in alcuni romanzi, mette in risalto il falso linguaggio conformato della borghesia e gli ambienti che fanno da cornice a questo: che non sono solo luoghi fisici ma anche psichici, mentali e dello spirito. L’autore ci rimanda ad alcuni personaggi fragili, incompiuti, preda di modelli fisici e relazionali, affettivi e soprattutto linguistici, di cui sono solo parzialmente consapevoli. La voce dello scrittore è lì, tra di loro, tra le loro parole, le loro mosse. È una voce in prevalenza riflessiva che intelaia vicende e personaggi, le loro relazioni, che annota le loro parole, le posture.  È una voce che tende quasi a sostenerli per tirare fuori la loro di voce e darne un’immagine rappresentativa, memorabile, attraverso le loro stesse parole. I personaggi sono tipizzati in particolare per «quello» che parlano, per «come» lo parlano: sono le loro stesse parole, il loro linguaggio. Quella voce riflessiva, fuori campo, mette in luce senza mai deridere, evidenzia senza denigrare; e, senza mai stigmatizzare, coinvolge il lettore in un sentimento compassionevole, quasi di pietas e allo stesso tempo ironico; e anche di conoscenza. Un esempio è il personaggio del portiere descritto nel romanzo La grande sera: «Si sentiva un comandante alla guida di un transatlantico. Imponente nella livrea gallonata culminante in un berretto da ammiraglio […] Il custode aveva una tale coscienza della professione che i due termini in lui coincidevano, come un tempo si auspicava per i medici e per i militari. Si sentiva perciò innaturale – come accade appunto a certi ufficiali – quando si toglieva la divisa: e provava una pena oscura per le proprie carni bianche, per una nudità non più protetta dai paramenti. Solo con la divisa diventava sé stesso, unico di una serie. Del resto, la maggioranza degli uomini aspira, e spesso vanamente, alla originalità di una copia» [23]. Nello stesso romanzo, nel capitolo Una serata di poesia erotica, lo scrittore dà una rappresentazione di quello che ruota intorno a una lettura pubblica di poeti, e dei poeti stessi: una condizione umana dove si infrangono le aberranti parole di poesie improbabili, infarcite di cumuli di vocaboli e termini in sequenze che danno l’idea della velleità e convinzione di sentirsi poeti. Il risultato è un effetto straniante per il lettore e di alienazione: nell’alienazione delle parole stesse. Un aspetto della condizione umana che suscita ironia e compassione allo stesso tempo. Eccone un esempio: «La prima poesia fu accolta da applausi esitanti e da quelli, inconfondibili, della signora in terza fila. Dini, senza alzare la testa, disse: ‘Leggerò Entropia’. Fluirono immagini di lattuga, di seni, di acqua. Liquidi invisibili si diffondevano nell’aria. Le piccole mani porcine sottolineavano le parole, ‘palpitante’, ‘sorgente’, ‘amata’» [24]. E ancora descrive un poeta, nel discorso introduttivo alle sue poesie: «Era un rovinio di parole, un ingorgo di suoni inarticolati che gli esplodevano in bocca. Tra brandelli di frasi si riuscì a capire ‘abisso’, ‘scacco dei referenti’, ‘preconscio’. Dopo quest’ultimo vocabolo divenne più calmo. ‘Ora leggerò le mie poesie’» [25].   
Il capitolo presenta una strutturazione teatrale, come se per lo scrittore fosse necessaria una messa in scena nella messa in scena dei poeti a rafforzare l’aspetto ironico in un ibrido letterario-teatrale. Vi è la presenza di tante voci: il pubblico, il presentatore, i poeti, e la voce dello scrittore stesso che ne esegue la tessitura. Si assiste a paradossi linguistici di personaggi paradossali, quasi surreali; espressioni e locuzioni modellate su luoghi comuni. Emergono aspirazioni letterarie non realizzate di poeti, di false identità: una sorta di umanità malinconica e triste. Un quadro ironico e mesto, a tratti anche grottesco e surreale. Ma, come si diceva prima, lo scrittore non assume mai toni denigratori, anzi ci fa guardare meglio attraverso la sua narrazione. Eccone un altro pezzo esemplare dove il presentatore introduce il tema della serata facendo riferimento all’eros e al desiderio.  E dove il tema del linguaggio si gioca ambiguamente tra il «desiderio del linguaggio» e il «linguaggio del desiderio» in una sorta di stortura linguistica e di significato: «‘Perché il desiderio non ha limiti. Non dobbiamo avere paura del linguaggio’. Gli occhi lucidi fissavano il fondo della sala. ‘Per questo siamo qui’. Respirava a fatica. ‘Per affrontare le potenze che si annidano nelle parole. Perché il desiderio del linguaggio…’ ‘Basta’ sibilò una voce, a metà della platea. ‘Perché il desiderio del linguaggio’ ripeté con un tono più assorto ‘diventi il linguaggio del desiderio’. Qualcuno applaudì, non si capiva se per esprimere consenso o dissenso, mentre lo spettatore di prima ripeté ‘Basta!’ rannicchiato nella sua poltrona. ‘Cedo la parola.’ L’oratore alzò la mano in un gesto ampio. ‘Cedo la parola alla poesia, cioè alla parola del desiderio’» [26]. Non c’è enfasi in Pontiggia, non ci sono linguaggi altisonanti, non paroloni. È una lingua equilibrata la sua, dentro variabili modulazioni. Non c’è disprezzo per i personaggi e per i fatti narrati, per le parole, ma una sincera ricerca di verità attraverso la creazione letteraria; perché, uno degli obiettivi principali dello scrittore è di rappresentare che il linguaggio può divenire uno strumento di verità, nella ricerca di una verità umana più universale. Così scrive Gino Ruozzi: «L’essenzialità di Pontiggia punta alla verità: essa è frutto di dati, osservazioni e interpretazioni puntuali e sovente smaschera luoghi comuni e ambigue certezze. Servendosi soprattutto dell’uso appropriato e calzante della lingua» [27].      
Pontiggia evidenzia quanta finzione e confusione, sia consapevole che inconsapevole, ci sia nel linguaggio dei suoi personaggi, quanti aspetti di finzione e disfunzione, quanto vuoto di pensiero e sentimento ci siano nelle vite di uomini e donne: sospesi nelle loro parole. Un «anatomista del linguaggio» lo definisce Renato Minore [28]. E io aggiungo che, di riflesso, lo è anche dei sentimenti e del pensiero.   
Anche nel romanzo Nati due volte, il cui nucleo centrale della narrazione tratta di un ragazzo con tetraparesi spastica, lo scrittore si confronta con il linguaggio della malattia e con il linguaggio della scienza medica, della clinica, riportando le parole alla loro dignità umana, mantenendo un rigore e un controllo della scrittura, senza mai cadere in sentimentalismi e pietismi. Difficile, ancor di più, perché Pontiggia ha vissuto come padre questa esperienza [29].           
La lingua, segnala Pontiggia con le sue opere, ci porta verso un coraggioso atto identitario e di riconoscimento di sé stessi e dell’altro: un atto di vitalità e adesione consapevole alla vita.


Margherita Rimi
(n. 11, novembre 2023, anno XIII)



NOTE

[1] G. Pontiggia, Il giardino delle Esperidi, in Id., Opere, a cura di D. Marcheschi, Milano, Mondadori «I Meridiani», 2004, pp. 727-728.
[2] Ivi, p. 729.
[3] D. Marcheschi, La letteratura in «Prima persona» di Giuseppe Pontiggia, in G. Pontiggia, Opere, cit., pp. XI- LXV: XVII.
[4] G. Pontiggia, Prima persona, in Id., Opere, cit., pp. 1735-1737.
[5] Ibidem.
[6] D. Marcheschi, La letteratura in «Prima persona» di Giuseppe Pontiggia, in G. Pontiggia, Opere, cit., G. Pontiggia, pp. XV-XVI.
[7] G. Pontiggia, Il residence delle ombre cinesi, con saggio critico di A. Franchini, Milano, Mondadori, 2020, pp. 215-216.
[8] A. Anelli, L’incontro fra «Kamen’» e Giuseppe Pontiggia, in Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca, a cura di D. Marcheschi, Rimini, Guido Conti Editore-GuaraldiLAB, 2013, p. 11.
[9] Papa Francesco, Chi dite che io sia?, in A.  Spadaro, Una trama divina, con prefazione di Papa Francesco, Venezia, Marsilio, 2023.
[10] Cfr. M. Rimi, Una lingua non basta. Contributi su poesia e infanzia, Palermo, People&Humanities, 2018.
[11] M. Rimi, La civiltà dei bambini, Voghera, Libreria Ticinum Editore, 2015, p. 30.
[12] M. Rimi, Il popolo dei bambini, Bologna, Marietti, 1820, 2021, p. 156.
[13] Th. S. Eliot, L’uso della poesia e della critica, in Id., Opere, 1904-1939,a cura diR. Sanesi, Milano, Bompiani, 2001, p. 1095.
[14] G. Pontiggia, Il linguaggio della narrativa, in «Kamen’», XXXII, 63, giugno 2023, p. 105.
[15] L. da Vinci, Scritti letterari. Contro il negromante e l’alchimista, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2009, p. 417.
[16] G. Pontiggia, Il linguaggio della narrativa, cit., p. 106.
[17] Ivi, p. 107.
[18] S. Calderoni, Coscienza e amore del limite in Pontiggia, in Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca, cit., p. 31.
[19] G. Pontiggia, La grande sera, in Id., Opere, cit., p. 821.
[20] G. Pontiggia, Il giocatore invisibile, in Id., Opere, cit., p. 224.
[21] G. Pontiggia, La grande sera, in Id., Opere, cit., p. 867. [22]
[22] M. Rimi, La poesia è il sogno dell’arte. Parola d’autore, in «L’EstroVerso», VI, 4, settembre-ottobre, 2012, p. 14.
[23] G. Pontiggia, La grande sera, in Id., Opere cit., pp. 902-903.
[24] Ivi, p. 805.
[25] Ivi, p. 807.
[26] Ivi, p. 801.
[27] G. Ruozzi, Giuseppe Pontiggia e gli aforismi, in Spazio Giuseppe Pontiggia, in «Orizzonti Culturali Italo-Romeni», n. 2, febbraio 2023, anno XII, http://www.orizzonticulturali.it/GiuseppePontiggia.html
[28] R. Minore, Un «Anatomista del linguaggio», in Con Giuseppe Pontiggia. Le voci della Notte Bianca, cit., p. 94.
[29] M. Rimi, Nati due volte. Apprendere dalla disabilità, in «Secondo Tempo. Libro quarantasettesimo. Numero monografico dedicato a Giuseppe Pontiggia», 2013, pp. 85-90.