Carducci, una poesia per sempre

Cosa rende classico un poeta, classica una poesia, nel senso etimologico del Latino classĭcus, ovvero «appartenente alla prima classe dei cittadini», e, riferito a scrittori, «di prim’ordine»[1], nel segno di quella perennitas, ossia aeternitas che contrassegna indelebilmente la classicità greco-latina, di là dallo spazio e dal tempo? Se della lingua quel poeta facesse un magistero tecnicamente perfetto ma anche soavemente modulato; se la retorica sapesse padroneggiarla come strumento, mai come fine, altissimo; se la forza espressiva fosse pari alla compostezza elegantissima della forma; se la raffinata iconicità delle immagini poetiche fosse sostenuta da una metrica ed un ritmo cadenzati come una ‘musica dell’anima’; se la misura complessiva rendesse l’insieme tanto intenso quanto armonioso come una statua di Prassitele; cosa chiedereste di più per chiamarlo ‘classico’? E non chiamereste allora ‘classico’ Carducci, e ‘classica’ la sua poesia?
Troppo drasticamente, quasi stereotipicamente, questo maestro toscano fra Otto e Novecento, dallo sterminato background culturale, è stato incasellato nella categoria dei poeti magniloquenti e sonanti, legati ad una sensibilità tutta ottocentesca e quindi al tramonto: tratti che non mancano, certo, nella parte meno rilevante della sua vasta produzione (mai disgiunti, però, dalla perizia tecnica e dai baluginii repentini del grande poeta), ma che non ne esauriscono la vena complessivamente non solo di altissimo livello estetico, ma anche innovativamente presaga del secolo a venire [2].
La metrica [3], in primis: Rime e ritmi (1889-1898), Mezzogiorno alpino.

Nel / gran / cér / chio / de / l'ál / pi , / su 'l / gra / ní / to                                    3, 6, 10
Squál / li / do e / sciál / bo, / su' / ghiac / ciái / can / dén / ti,               1, 4, 8, 10
Ré / gna / se / ré / no in / tén / so e / d ìn / fi / ní / to                                        1, 4, 6, (8), 10
Nel / suo g / rán / de / si / lén / zio il / mèz / zo / dì.                                        3, 6, 8, 10

Pí / ni e / d a / bé /  ti / sen / za áu / ra / di / vén / ti                                          1, 4, 7, 10
Si d / rí / zza / nò / nel / sól / che / glí / pe / né / tra,                                         2, (4), 6, (8), 10
Só / la / gar / rí / sce in / pí / cciol / suón / di / cé / tra                          1, 4, 6, 8, 10

L'á / cqua / che / té / nue t / ra i / sá / si f / lu / ì.                                              1, 4, 7, 10


E poi, la ricchezza dei temi che percorrono le sue poesie come Leitmotiv che oscillano da quei motivi interiori tipicamente carducciani che attingono direttamente al mondo delle emozioni più arcaiche ai mitemi di amplissimi riferimenti culturali e storici.  Sapientemente evocativa, tra favolistica popolare e poesia docta catulliana, è la memoria autobiografica del 1874 di Davanti San Guido (Rime Nuove, 1874), con il celebre incipit scenograficamente visionario nei suoi vivi e sonanti endecasillabi:

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.


I toni della favola popolare, elegantemente rielaborati in chiave romantica e colta, che come una emergenza dall’inconscio riannodano al presente gli anni di un’infanzia mitizzata nel ricordo e il rimpianto emblematico di Nonna Lucia, si sviluppano in una sorta di inserto dalle vertiginose fascinazioni meta-poetiche, nel quale lo scrittore riesce perfino a sapidamente inserire un fulmineo indimenticabile passo di critica letteraria («La favella toscana, ch'è sì sciocca / Nel manzonismo de gli stenterelli»):

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.


E se cercaste lacerti (per dirla continianamente) della poesia di Giosuè negli anni a venire? se cercaste suoi intrepidi consecutori, suoi influssi sul nuovo secolo letterario, quasi chiuso il precedente dal riconoscimento internazionale del Premio Nobel che lo riconfermava vate e poeta ufficiale dell’Italia in vorticosa trasformazione di quegli anni? Beh, ne trovereste a iosa, a cominciare, procedendo a mo’ di exempla paradigmatici, dal primo D’Annunzio al grande Caproni, finissimo campione di una linea di poesia anti-ermetica e metafisica con le parole di tutti i giorni:

Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo.

Come ho avuto già modo di scrivere a proposito di codesti versi di Come un’allegoria (1932-1935), «Si colgono qui alcuni dei moduli compositivi proprî della poesia caproniana: la ‘leggerezza’ quasi impressionistica del tocco, il morbido surrealismo delle immagini («apre assonnati occhi d’acqua»), in cui si stempera la pur presente concretezza delle cose, l’aspra dissonanza dell’enjambement attributo/sostantivo («primi / pensieri»), la ricchezza dei referenti culturali (i carducciani pensieri della conclusio, tutt’uno con quelli di San Martino)» [4], poesia composta nel 1883 e raccolta in Rime nuove (1887):

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.

Arriviamo ora, caro lettore, al libro II delle Odi Barbare, che – non dimentichiamolo mai – sono la prova di una miracolosa bravura tecnica e metricologica non meno che l’afflato del profondissimo conoscitore del mondo greco-latino, in una medesimezza (per dirla alla Salinari) stupefacente con la classicità: Alla stazione in un mattina d’autunno, capolavoro della lirica italiana che rielabora i moduli e le sensibilità ottocentesche in un prodigio di stile pienamente ‘moderno’. I temi del taedium vitae latino, ma anche del’accidia petrarchesca e del moderno spleen baudelairiano prendono vita attraverso uno spericolato descensus nell’inconscio, in una prodigiosa esplorazione di sentimenti e sensibilità novecentesche: la lonely crowd da Poe ai sociologi americani moderni («Dove e a che move questa, che affrettasi / a’ carri foschi, ravvolta e tacita gente? ») [5]; la donna salvifica della tradizione italiana, dai contorni estetici tanto sublimi quanto indefiniti, qui montalianamente e capronianamente calata nel grigiore della routine quotidiana («Tu pur pensosa, Lidia, la tessera / al secco taglio dài de la guardia»); l’immobilità di un tempo senza tempo,  fermo nell’attimo fuggente che se ne va nel nulla della sua dimensione metafisica, già proteso alla nostalgia del ricordo, lungo la medesima temperie emozionale del Nevermore verlainiano [6] («e al tempo incalzante i begli anni / dài, gl’istanti gioiti e i ricordi», brillantemente sostenuto dal bell’enjambement 15/16). Lidia, dall’evocativo nome classico, è ‘un volto nella folla’ (ricordando il bel movie di Elia Kazan: A Face in the Crowd, 1957), nel quale il poeta sa far vibrare tutte le misteriose fascinazioni dell’ ‘eterno femminino’ (Das Ewig-Weibliche di goethiana memoria) [7]; e straordinaria è la drammatica icasticità cromatica dell’immagine dei vigili incappucciati di nero sullo sfondo del convoglio nero che agitano plumbee mazze di ferro, inquietanti fantasmi senza requie di un Ade inesorabilmente terreno e baluginante (vv. 16-19).
Sul piano metricologico, si fanno notare, pur nella perfetta tornitura formale del testo, i virtuosistici endecasillabi sdruccioli, con valenza fonosimbolica, ai vv. 9 e 34, dove sono da notare anche la dialefe 2 e sinalefe 9 nel primo, dialefe 6 nel secondo:


Dó / ve / e à / che / mó /  ve / qués / ta, / che a / ffré / tta / si                          1, (3), 5, 7, 10

Sba / ttén / do / l’á / le / glì / a / mór / miei / pór / ta / si.                                             2, 4, (6), 8, 10

Intensa ma misurata la ricchezza dei tropi, con frequenti iterationes (particolarmente rilevante quella del penultimo verso: «io voglio io voglio»), κλῖμαξ («Flebile, acuta, stridula fischia»; «anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei») e forti spezzature determinans / determinatum o verbo / predicato od oggetto / verbo  (ad esempio vv. 10-11;  15-16; 17-18; 19-20; 20-21 strofica; 21-22; 23-24; 25-26; 26-27; ecc.); laddove colpisce la sensibilità ‘futuristica’ ante litteram del treno-mostro audacemente personificato nella sua «metallica / anima» non meno che la generale suggestione emozionale e metaforica della scenografia del tempo d’autunno, d’un melancolico novembre che è tutt’uno con l’animus classicamente e petrarchescamente accidioso del poeta e  la bellezza evanescente e languida dell’angelica Lidia: 

Oh quei fanali come s’inseguono
accidïosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri foschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
piú belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre8 [8].

Meglio a chi ’l senso smarrí de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

La conclusio di marca esistenziale, che riprende elegantemente i τόποι del taedium della tradizione letteraria, con la stagione autunnale e caliginosa come sfondo, fa da contraltare al quadro della bellezza medievalmente gentile – ma anche misteriosamente inquietante, e perciò moderna – di madonna, con i suoi eterei attributi stilnovistici sullo sfondo dell’estate metafora luminosa del ricordo: il «pallor roseo», gli «stellanti occhi», la «candida / tra’ floridi ricci inchinata / pura fronte con atto soave!».
La bellezza e la sua vertiginosa ‘messa in forma’ come una Gestalt dell’anima, le emozioni vivide come in un amoroso psicodramma del cuore, tutta una tradizione letteraria italiana ed europea ripercorsa sull’onda prodigiosa di 60 perfettissimi versi, la verlainiana «musique avant toute chose» [9] e la nuance impressionistica e simbolistica del tocco risolti in una serie abbacinanti di Einsicht per il lettore…
Cosa chiedereste di più ad un poeta? cosa potreste pretendere di più da una poesia? 



Roberto Pasanisi
(n. 12, dicembre 2019, anno IX)


NOTE

1. Il Vocabolario Treccani. Nuova Edizione.
2.  Cfr., per una visione più intimistica e meno paludata del poeta, che permetta di formarci una più corretta idea del suo ‘privato’, Rita Gaspari (a cura di), Giosuè Carducci – Luisa Grace Bartolini, Carteggio (1860-1865), Pistoia, Libreria dell’Orso, 2000, che raccoglie l’epistolario carducciano con la poetessa di origine irlandese vissuta per lunghi anni a Pistoia.
3. Cfr., per l’analisi metricologica secondo il nostro modello della Metroanalisi, Roberto Pasanisi, Metrica e rima del Poema Paradisiaco, in «Testuale», 6, 1986, pp. 63-69; Id., Saggio di Metroanalisi, in «Annali dell’Istituto Universitario Orientale» Sezione Romanza, XXIX,1, 1987, pp. 187-194; Id., Per una nuova scienza: teoria della Metroanalisi, in «Italian Studies in Southern Africa» («Studi d’Italianistica nell’Africa Australe») (Pretoria, South Africa), XIII, 1, 2000, pp. 9-24; Id., Per una nuova scienza: teoria della Metroanalisi, in Generi, architetture e forme testuali (Atti del VII Convegno SILFI, Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, Roma, 1-5/X/2002), a cura di Paolo D’Achille, Firenze, Franco Cesati Editore, 2004, vol. II, pp. 719-726.
4. Roberto Pasanisi, Le «muse bendate»: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa - Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000 (Prefazione di Constantin Frosin; Postfazione di Carmine Di Biase), p. 80.
5. Cfr. David Riesman - Nathan Glazer - Reuel Denney - Todd Gitlin, The Lonely Crowd. A Study of the Changing American Character, Abridged and Revised edition [1950], New Haven, CT (USA), Yale University Press, 2001. Ma fondante su questo tema è Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti [1955], tr. it., Torino, Einaudi, 1981. Cfr. pure Roberto Pasanisi, L’ ‘uomo-massa’ e la ‘morte della bellezza’: la coscienza dell’Occidente alle soglie del Nulla, in «Pragma», 1, 1990; Id., Omul-masa si moartea frumusetii constiinta occidentului în pragul neantului (trad. in Rumeno di Constantin Frosin), in «Antares» (Revista de cultura sub egida Uniunii Scriitorilor) (Galaţi, Romania), I, 12, 1999 e Id., La forma della bellezza: la genesi della poesia di Mallarmé come specimen della lirica moderna, in «Esperienze Letterarie», XXI, 2, 1996.
6. «Souvenir, souvenir, que me veux-tu? L'automne / Faisait voler la grive à travers l'air atone, / Et le soleil dardait un rayon monotone / Sur le bois jaunissant où la bise détone. // Nous étions seul à seule et marchions en rêvant, / Elle et moi, les cheveux et la pensée au vent. / Soudain, tournant vers moi son regard émouvant / “Quel fut ton plus beau jour?” fit sa voix d'or vivant, // Sa voix douce et sonore, au frais timbre angélique. / Un sourire discret lui donna la réplique, / Et je baisai sa main blanche, dévotement. / Ah! les premières fleurs, qu'elles sont parfumées! // Et qu'il bruit avec un murmure charmant / Le premier oui qui sort de lèvres bien-aimées!» (Poèmes saturniens / Melancholia II, 1866).
7. L’ultimo verso del Faust: «Das Ewig-Weibliche Zieht uns hinan».
8. Così, come modello paradigmatico del motivo metaforico dell’autunno e della caduta delle foglie ingiallite, Juan Ramón Jiménez in una lirica modernista e neo-barocca preziosa come una gemma, Otoño: «Esparce octubre, al blando movimiento / del sur, las hojas áureas y las rojas, / y, en la caída clara de sus hojas, / se lleva al infinito el pensamiento. // Qué noble paz en este alejamiento / de todo; oh prado bello que deshojas / tus flores; oh agua fría ya, que mojas / con tu cristal estremecido el viento! // ¡Encantamiento de oro! Cárcel pura, / en que el cuerpo, hecho alma, se enternece, / echado en el verdor de una colina! // En una decadencia de hermosura, / la vida se desnuda, y resplandece / la excelsitud de su verdad divina». Non meno classica la Chanson d'automne verlainiana, dalla prodigiosa musique: «Les sanglots longs  /  Des violons  / De l'automne / Blessent mon coeur / D'une langueur / Monotone. // Tout suffocant / Et blême, quand / Sonne l'heure, / Je me souviens / Des jours anciens / Et je pleure, // Et je m'en vais / Au vent mauvais / Qui m'emporte / Deçà, delà, / Pareil à la / Feuille morte».
9. Così canta la celeberrima Art poétique: «De la musique avant toute chose, / Et pour cela préfère l'Impair / Plus vague et plus soluble dans l'air, / Sans rien en lui qui pèse ou qui pose. // [...] // Car nous voulons la Nuance encor, / Pas la Couleur, rien que la nuance! / Oh ! la nuance seule fiance / Le rêve au rêve et la flûte au cor!»