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Il Cantico delle creature a 800 anni dalla composizione
Il Cantico delle creature o Cantico di Frate Sole ha compiuto 800 anni. Secondo la maggior parte degli studiosi fu scritto infatti nel 1225; altri ritengono invece che sia stato scritto a più riprese tra il 1224 e il 1226, terminato quindi poco prima della morte, avvenuta il 3 ottobre del 1226. Fu composto a S. Damiano, dove Francesco, tormentato da diversi mali, si era ricoverato in un angolo del convento delle clarisse, coperto soltanto dalle stuoie. Il Cantico si può considerare la sintesi del pensiero e delle opere del santo, fondatore di un movimento, già allora diffuso in Europa, dove per la prima volta i valori della pace, della solidarietà, della giustizia, della povertà, del perdono e dell’amore dialogante con gli altri e con tutte le creature dell’universo si tradussero in azioni trasformatrici e in quegli inizi fondativi e dialettici, su cui si svilupperà poi la civiltà europea. Gli anni del Cantico, pur essendo tanti, ben otto secoli, sono portati bene; è infatti ancora molto giovane, amato soprattutto dai giovani, perché ritrovano in esso un ritorno alle origini, ad una natura primordiale, incontaminata, non ancora danneggiata e saccheggiata, ai fondamenti, che sorreggono la nostra esistenza terrena. L’uomo potrà solidarizzare con le cose create, fino a divenirne fratello e sorella, solo se si ricongiungerà ai loro valori archetipici e unificanti. Per diversi secoli il Cantico fu oggetto di studi da parte di eruditi interni alla Chiesa, che accentuarono soprattutto il carattere religioso del componimento; successivamente l’analisi si estese al valore letterario e quindi si richiamò l’attenzione anche di studiosi laici.Dal diciottesimo secolo in poi si moltiplicarono gli interessi per il Cantico e Girolamo Tiraboschi, un erudito del ‘700, lo inserì nella sua storia della letteratura italiana. I romantici si appassionarono al Cantico, per le sue radici popolari, ma lo giudicarono il prodotto di ingenuo e spontaneo sentimento d’amore per creature e creatore, opera di un illitterato, di un uomo privo cultura. Nel ‘900 crebbero studi da parte di critici letterari laici e religiosi. Tra essi ne ricordiamo solo alcuni tra i tanti: Augusto Vicinelli, Paolo Sabatier, Ernesto Balducci, Carlo Dallari, Carlo Paolazzi, Leo Spitzer, Antonino Pagliaro, Mario Casella, Vittore Branca, Giovanni Getto, Giovanni Pozzi, Ignazio Baldelli, Giorgio Petrocchi, Gianfranco Contini; molti di essi curarono l’analisi filologica del testo, ne esaltarono il suo valore letterario e poetico e, per la sua originalità, lo stesso Contini lo collocò all’origine della poesia italiana. La ricerca si concentrò innanzitutto sull’elaborazione formale del Cantico. Esso è scritto in volgare perché indirizzato soprattutto a quelli che non conoscevano il Latino. Era cantato e corredato anche da una musica, a noi non pervenuta, ma che comunque dovette ispirarsi ai ritmi salmistici e innografici e la cui esecuzione fu affidata a frate Pacifico, il rex versuum, il re dei versi, come riferisce Tommaso da Celano nella Vita seconda di San Francesco, cap. LXXII. Il Cantico è inoltre ordinato in versi, ma in una prosa ritmica, con rime, rimalmezzo e assonanze. Utilizza il ritmo isidoriano del cursus planus, come si nota, ad esempio, nell’espressione «grande splendore»; del cursus velox, come «in altissimo se confano». La lingua conserva elementi del volgare umbro, evidente nella chiusura in u di vari termini (dall’accusativo um latino) e nel plurale di terza persona in -ano, come konfano; ma è anche ricca di termini del volgare illustre, come ad esempio iocundo e non iocunno, come altissimu e altissimo, usati entrambi, e infine termini ancora di un volgare illustre, come sustentamento, vento, tempo ecc. Sono presenti espressioni delle tre grandi lingue del tempo: la latina (aere, fructi, tucte, nubilo, laudato), la volgare e la francese (la madre di Francesco era di origine francese). Lo studio sulla struttura formale del Cantico ha rilevato una libertà nell’uso dei rapporti logico-sintattici, la rottura di certi schemi compositivi della tradizione poetica religiosa e di convenzioni in ambito linguistico, la struttura a centone, la presenza di isotopie, di parallelismi, di anafora (laudato... laudato... laudato). Non mancano forme allitterate all’interno degli stessi termini, unite a forme chiasmatiche e paronomastiche. Sono diffuse le tante aggettivazioni, a gruppi di quattro per i quattro elementi naturali fondamentali, a tre per le stelle, a due per l’uomo; numerose sono le immagini, che formano un tessuto iconico non secondario; non manca il simbolismo numerologico: le dieci lasse, i trentatré versi, multiplo di tre, simbolo della trinità. Queste articolazioni delle parole e dei rapporti di esse tra loro non possono essere il prodotto di uno che non avesse coscienza della struttura compositiva di un testo scritto. Francesco, come ci ricorda Tommaso da Celano nella Vita prima 82, aveva grande rispetto per le parole; anzi attribuiva ad esse un’origine divina: «il bene che lì è racchiuso (nelle parole) non appartiene ai pagani né a nessun altro uomo, ma solo a Dio, cui appartiene ogni bene» e ancora lo stesso Celano annota che Francesco «quando faceva tracciar qualche scrittura in occasione di ammonizioni o saluti, non permetteva che se ne cancellasse lettera o sillaba, anche se il copista aveva scritto aggiungendo di troppo o sbagliando». Tutta questa rete di combinazioni ha contribuito a chiarire meglio la poeticità del Cantico e la sua complessità anche dottrinale. È un inno di lode, infatti, che innova tutta la tradizione laudistica non solo sul piano formale ma anche su quello dei contenuti. Essa sposta la lauda tradizionale destinata alla lode di Cristo, dei Santi, di Maria, dalle semplici narrazioni al recupero dell’identità primigenia della natura delle creature e attraverso di esse del creatore e chiama in causa la responsabilità dell’uomo, che, in possesso del libero arbitrio, può commettere il male e lo potrà sconfiggere solo con la pratica del perdono. Si supera la visione catara, secondo cui il mondo era separato in due entità inconciliabili, il bene e il male, e s’oppone alle visioni apocalittiche della cultura millenarista. In totale dissenso, infatti, con queste posizioni il Cantico afferma la positività del mondo, delle sue creature, la loro bellezza. Esso contesta altresì quelle visioni negative diffuse soprattutto dal testo di Lotario da Segni: De contemptu mundi, in cui l’uomo è identificato come «disprezzo del mondo». Le novità non riguardano solo la lingua, ma anche la base teologica, fondata su un pensiero complesso, anzi tutta la struttura è teologica. Si distinguono infatti nel Cantico tre livelli:
1. quello divino con le lodi all’«Altissimo onnipotente bon signore»;
2. quello terreno con la lode al Signore «cum tucte le creature»;
3. quello dell’uomo sul perdono e sulla «morte corporale».
Nella visione di Francesco siamo tutti fratelli e sorelle. Come gli uomini possiedono un’anima così la possiedono anche le altre creature; perciò, sono anch’esse fratelli e sorelle come lo siamo noi. La natura non è più allegorica, ma è reale; evidente è il riferimento alla Scuola francese di Chartres. In Francesco, infatti, la natura possiede un’anima e tutto ciò che appartiene al mondo della vita è unito da una fraternità cosmica. Perciò l’uomo deve rispettare le creature e lodarle perché in esse egli ritrova l’immagine divina; attraverso di esse loda il Signore e, se l’uomo difende e tutela queste creature, riceve anch’egli la lode dall’altissimo. La ricerca di Dio in Francesco passa attraverso questo legame con le creature. Per questa parte fondamentale del Cantico la fonte teologica è S. Agostino, per il quale la ricerca della verità si svolge per via sperimentale e quindi attraverso le cose create: «Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo, [...] interroga tutte queste realtà. Tutte ti risponderanno: guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode». (Sant'Agostino, Sermo 241).
Agostiniana è anche la visione laudistica, secondo cui l’uomo non è degno di «mentovare» Dio perché tutto ciò che si può dire di Dio, appartiene a Dio stesso e non all’uomo. Bisogna ancora riconoscere che da questa valorizzazione della natura si libererà la spinta alla nascita della scienza, da cui si formeranno Roberto Grossatesta, capo dei francescani di Oxford nel 1224, che fu uno dei primi scienziati, come lo sarà anche il suo allievo, Ruggero Bacone, frate francescano, fondatore del primo metodo scientifico. C’è poi la parte del testo che riguarda l’uomo. Non è lodato, perché l’uomo, essendo capace di commettere peccati, dovrà convertirsi attraverso il perdono. Forse questi versi sul perdono furono aggiunti per pacificare il podestà e vescovo di Assisi. Francesco, infatti, invitò i frati a cantarlo davanti ai due contendenti e la tradizione degli studi riferisce che, dopo questo canto, i due si sarebbero riappacificati. Gli ultimi cinque versi sono dedicati alla sorella nostra morte corporale. Scritto nel momento delle maggiori sofferenze, quando sente nel suo animo di nuovo la voce del Signore, che dice al poverello d’Assisi di rallegrarsi e quindi Francesco in questa dura prova finale della sua esistenza, invita i fratelli a intonare il Cantico. La straordinarietà di questa parte sta nel considerare la morte corporale sorella e il corpo fratello. Si avverte una radicale alternativa alle idee sulla morte nel suo tempo. Nel Medioevo c’era infatti chi invocava la morte per liberarsi da un mondo di mali, per conquistare la salvezza andando magari a morire in guerra o per farla finita con una vita di dolori e di miserie. Francesco opera una vera rivoluzione nel rapporto con la morte. Per Francesco si muore per risorgere. Soltanto morendo si potrà infuturare la vita. Perciò cancella il desiderio di molti di lasciare il mondo perché si sta male. Nel mondo stiamo e in esso dobbiamo vivere la nostra vita terrena tra gioie e dolori. E in ogni momento della vita corporea dobbiamo saperci risollevare, anche quando il nostro corpo conclude il suo ciclo vitale, nel quale si dissolve, ma non finisce. C’è qui un richiamo alla prima lettera di S. Paolo ai Corinzi: «Senza la resurrezione la fede è vana». In questo finale del Cantico c’è quindi alta teologia. Sorella morte, fratello corpo inducono ad una profonda riflessione filosofico-teologica. Altro che illitterato, uomo senza cultura, animato solo da un amore verso il creato e il suo creatore. Il Cantico ha anche un valore storico-sociale. È una poesia alternativa alle tante poesie, che si recitavano nei castelli del tempo, che, pur nella indiscutibile novità sul piano poetico, esaltavano un amore unicamente sensuale e cortese, finalizzato, tra l’altro a mascherare violenze e oppressioni da parte dei feudatari del tempo. A quel mondo Francesco con la sua opera e con questo Cantico oppose una visione amorosa diversa, quella per le creature e per il creatore. In alternativa alla stessa istituzione feudale, così chiusa, difese l’istituzione dei Comuni, quest’ultima ispirata in gran parte dalla religiosità francescana e al cui governo andrà proprio un personale politico formatosi nelle scuole francescane, nelle quali s’insegnava, tra le altre cose, anche la cultura della partecipazione, della vita vissuta tra la gente, del dialogo e di quelle idee, che potevano trovare il luogo più naturale per rappresentarsi, in quel tempo, unicamente nei Comuni. Alla stessa borghesia comunale nascente Francesco propose la strada di una carità viva, che indirizzasse quell’accumulo di ingenti risorse, determinato da una diffusa iniziativa imprenditoriale, verso uno sviluppo economico e sociale, che tenesse conto dell’uguaglianza ed evitasse impoverimenti; sostenne perciò di non divenire schiavi di quei flussi di denaro, frutto della crescita produttiva, e di coltivare invece una vita semplice, una povertà non da intendere, come miseria o privazione, ma come liberazione da egoismi, dal feticcio del denaro. Con il suo movimento, con le sue regole, con le laudes, con il testamento e soprattutto con il Cantico ci si avvia al rinascimento cristiano, alla riforma della Chiesa; perché quello slancio verso la trascendenza all’improvviso si apre alla comunione con tutte le creature e la ricerca di Dio trova il suo fondamento in questo legame. Dio e mondo non sono più separati, ma uniti da una totalità cosmica, da una fraternità con il creato. Perciò questo breve testo non va giudicato solo nell’ambito dell’innografia religiosa; possiede al contrario un’intensità semantica, che lo rende ricco di pensiero, di teologia, di storia, di realtà, di società, come lo sarà anche per i due maggiori interpreti del messaggio di Francesco: Dante e Giotto. Anche la poesia di Dante è una miniera di pensiero, di filosofia, di realtà, di storia, di società. La stessa arte di Giotto è densa di pensiero, di filosofia, di realtà, di storia, di società. Le immagini in Dante e le figure in Giotto parlano, come parlò a Francesco il Cristo di S. Damiano. Tutto incominciò da lì. Da quel Cristo bizantino di S. Damiano, privo di corpo. Francesco sente nel suo animo che quella figura, senza corpo, incomincia a muoversi, a parlare, ad acquistare una voce, a trasmettere un’anima, a lanciare un messaggio rivoluzionario, «va ricostruisci la mia casa che è in rovina». Il Cantico soprattutto nella seconda metà del Novecento e di questi primi anni del Duemila ha goduto dei contributi dei maggiori studiosi italiani e stranieri, francescanisti e laici. Uno dei maggiori interpreti però dei Cantico delle creature è stato senza dubbio Papa Francesco, che, dopo ben 790 anni, scrisse un’enciclica dal titolo, Laudato si’, in cui riprese i contenuti del Cantico affermando soprattutto la necessità della difesa del creato, casa comune a tutti gli uomini:«L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo ha avuto la caratteristica di accompagnare, di assecondare le possibilità offerte dalle cose stesse». Nel momento che stiamo vivendo si è imposta però «una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite». Carlo Bo, famoso critico letterario, Rettore dell’Università di Urbino, dopo la cui morte quella stessa Università è stata intestata a lui, pubblicò alcuni anni fa un libro dal titolo Se tornasse Francesco. Ci chiediamo dove andrebbe. Forse andrebbe in questi drammatici e purtroppo attuali teatri di guerra, come fece in occasione della quinta crociata, quando fu ricevuto dal sultano Malik al-Kamil, in un incontro, che i biografi riferiscono essere stato molto cordiale e positivo. Che cosa si saranno detto, non lo sappiamo; ma sappiamo che il sultano, per evitare una carneficina, aveva proposto ai crociati di lasciare a lui la città di Damietta ed egli in cambio avrebbe restituito ai crociati Gerusalemme. L’esercito franco sollecitò gli altri eserciti crociati ad accettare quella proposta di pace, ma il cardinale Pelagio, un fanatico religioso, volle continuare la guerra, nella quale trovarono la morte per fame molti crociati, che erano rimasti in Egitto perché i Franchi, non avendo accettato quella folle decisione, se ne tornarono in Francia. La battaglia si concluse con la resa dei crociati e la restituzione della città di Damietta ai musulmani. Carlo Bo sostiene anche che Francesco verrebbe cacciato via e poiché insisterebbe con la sua azione sarebbe anche bastonato. In un colloquio con frate Leone Francesco racconta che se, dopo aver bussato ad un convento, fosse cacciato via e fosse bastonato dopo aver bussato una seconda volta allo stesso convento per ripararsi da una notte piovosa, questa sarebbe per lui la perfetta letizia. E qui siamo ad un’altezza incommensurabile. Francesco ci invita a misurarci con una dimensione elevata circa i sentimenti del perdono, del dialogo, della solidarietà tra gli uomini. Come si fa oggi, nella nostra società, a concepire che da un atto di violenza si potrà ricavare del bene. Siamo invitati a una profonda riflessione teologico-filosofica, ma anche socio-antropologica. Sarebbe una vera rivoluzione per questa nostra età moderna capire che, se al male si pensa di rispondere con lo spirito della vendetta, quel male si trasformerà in tragedia per chi l’ha commesso e per chi l’ha subito e si espanderà senza più controllo. Nel Cantico il perdono è legato proprio alla condizione umana: «Laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore, /e sostengo infirmitate e tribulatione. /Beati quelli che ‘l sosterrano in pace, /ca da Te, Altissimo, sirano incoronati». Al centro della storia umana Francesco pone la forza del perdono e la sorella del perdono, che identifica con l’umiltà, la «grande humilitate» con cui si chiude questo straordinario e innovativo testo.
Tommaso Zarrillo
(n. 5, maggio 2025, anno XV)
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