Alessandro Raveggi: «Quando scrivo mi devo ossessionare riguardo a una storia»

Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici è Alessandro Raveggi, nato a Firenze nel 1980, scrittore e studioso. È fondatore e direttore della rivista letteraria «The Florence Review». Ha pubblicato il romanzo Nella vasca dei terribili piranha (Effigie 2012), i racconti de Il grande regno dell’emergenza (LiberAria, 2016), quattro raccolte poetiche, un libro su Italo Calvino e uno introduttivo a David Foster Wallace, e ha curato l’antologia di racconti Panamericana (La nuova frontiera, 2016). Nel 2020 è apparso il romanzo Grande karma (Bompiani), del quale parleremo nella nostra ampia intervista.
Il
5 maggio 2022 esce il suo nuovo libro, A Città del Messico con Bolaño (Giulio Perrone Editore), «una sorta di poema in prosa dedicato, dalla lontananza, alla nostalgia di una Città Impossibile».


Alessandro, lei è uno scrittore di chiara fama che ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Può indicarci la sua cifra stilistica e se, attualmente, sperimenta vie e percorsi di un genere ibrido qual è il romanzo?

Dopo l’esperienza dell’ultimo romanzo Grande karma (Bompiani), penso che una delle mie cifre stilistiche sia quella, abbastanza banale se vuole, di vedere nel romanzo una forma di conoscenza sensibile della vita. Ovvero per me i romanzi, al di là della storia personale e collettiva che raccontano – quasi sempre, nel mio caso, approcciata in modo massimalista, fin dal mio primo romanzo, un romanzo filosofico e new weird ante litteram, Nella vasca dei terribili piranha del 2012 – sono dei tentativi in stile ibrido di raccontare il reale, specie a partire da vite vissute e vite apocrife assieme. Il che vuole dire che spesso giocano tra finzione e documento, con vertigini biografiche. Possono essere biografiche minime, storie infami alla Borges, che circondano personaggi di finzione, o viceversa storie di vita riprese e stravolte come nel caso del mio Coccioli o come ha fatto anche Bolaño. In questo concetto di «vita» che ho richiamato, c’è poi sicuramente un’attenzione anti-antropocentrica che sto via via sviluppando – verso le piante, gli animali, il mondo incredibile dei funghi – e che magari mi viene più dalla saggistica che dalla narrativa. Questo è quello che posso dire ad oggi. I miei maestri sono sicuramente Wallace da un lato (per l’elemento conoscitivo suddetto) e Sebald dall’altro, che in una dimensione ideale post-moderna si incontrano all’incrocio latinoamericano di Bolaño, di Drndić, di altri autori contemporanei (Krasznahorkai, per esempio). Amo gli autori che mi fanno interrogare su quello che vedo davanti agli occhi, e mi aiutato a migliorare la mia sensibilità. Per questo degli Italiani del passato amo molto Calvino, Morselli, Volponi. Non penso che gli autori debbano parlare direttamente al cuore, perché il cuore, si sa, non è un organo sensoriale, ma è grazie anche all’esperienza percettiva, sensoriale, che il cuore funziona, s’innamora, si spezza.  


Lei, in Grande Karma, narra di Carlo Coccioli. Rimando tra realtà e finzione, rilancio tra verosimile e romanzesco, rinvio tra il narratore fuori e quello dentro il romanzo. Non può definirsi un libro di critica letteraria e neppure un romanzo, piuttosto un «romanzo-saggio» in cui la «voce narrante» sembra percorrere stralci della propria vita. Ebbene, come cambia la vita per mezzo della letteratura?

Grande karma parla proprio di questo: di come i libri possono essere talvolta bussole rotte, altre volte vere e proprie dannazioni per personaggi e lettori stessi. La vicenda di Carlo Coccioli era in fondo proprio questa maledizione: una fama mondiale di libri assolutamente snobbata in Italia, e una caterva di lettori clandestini in tutto il mondo, sebbene non lettori medi, o legati al grande mercato – l’esempio di Carlo Coccioli ci racconta anche della Favola dei Lettori Forti, etichetta stupida che si basa spesso sul quanto si legge piuttosto che (come dovrebbe) sul cosa e come. Diciamo poi certo che i libri fanno bene alla vita, che salvano, che curano: ma secondo me non è sempre detto, in quanto sono procacciatori di esperienza e possono anche essere galeotti, sconvolgere, fare male – e questo bisogna preservarlo altrimenti possiamo smettere di scrivere. Ovviamente c’è un aspetto positivo nella letteratura sul quale mi batterò sempre, il valore della letteratura come una seria «diversione» (una versione differente della realtà, e un divertimento responsabile che passa attraverso lo stile dell’autore).


Lei ha scritto: «Io di un personaggio romanzesco come è Carlo Coccioli e la sua vita plurima volevo raccontare prima di tutto la stessa malia, la capacità di essere un miraggio: miraggio di autore, miraggio imprendibile perché plurilingue, perché ricco di tematiche oggi attuali e a suo tempo scomodissime». Qual è la causa prima, il motore che accende la scrittura?

Quando scrivo mi devo ossessionare riguardo a una storia, quasi prima che rispetto a una tematica. Ma una storia che può essere anche una vicenda minuscola, un aneddoto, un battito d’ali davanti agli occhi, che poi ovviamente fa parte di un mosaico più grande. Mi devo ossessionare però a tal punto che in qualche modo questo mi tocchi personalmente dentro, come uno spillo – credo che sia questa quella «punta» di autobiografica che c’è nei miei romanzi e racconti. Ovviamente la forma con la quale accetterò di affrontare l’ossessione verrà più avanti, ma il punto di partenza è questo. 


Idea ormai radicata è che l’Arte e la Letteratura nello specifico debbano uscire dai cenacoli accademici per essere vissuti nella pratica quotidiana, così da produrre un’eredità concreta e tradursi in un’azione culturale efficace. Lei è fondatore e direttore della rivista «The Florence Review». Quanto la sua opera editoriale integra la tradizione a ricerche espressive innovative?

La rivista «The Florence Review» è per me, parlo a mio nome e non a nome della redazione, un modo per confrontarmi con le scritture altrui, un dialogo costante con autrici e autori, e anche un modo per farmi sorprendere dai miei contemporanei, a prescindere dall’età e dalla fama. La rivista è il mio senso di comunità di ricerca letteraria, che mai secondo me può essere egoriferita. Lo trovo fondamentale per la mia scrittura questo aspetto di ‘cura’ verso l’altro. E con la rivista lanciamo anche bandi e occasioni ulteriori di scouting o matching con agenti letterari, per promuovere nuove voci e tradurre quelle già affermate: molti dei giovani autori passati da noi oggi pubblicano per editori importanti anche grazie a questa nostra esperienza.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Penso che le cose più interessanti che ho letto in questi ultimi anni, letture sconvolgenti, sperimentali, mi siano offerte da donne del presente, ma anche del passato. In Italia mi piace molto il percorso che sta facendo Claudia Durastanti, oppure parlando di altre generazioni, Laura Pariani, Alessandra Sarchi. Sono poi un fan sfegatato della scrittrice croata Daša Drndić, mi piace quasi tutto di Olga Tokarczuk, guardo con favore anche a scritture più sperimentali di scrittrici inglesi (Eley Williams, Clare-Louise Bennet, per esempio) e americane (Rivka Galchen, Gina Apostol, che tradurrò per Utopia edizioni), sempre e solo se non si abbandonano alle tematiche del momento, se non fanno delle loro scritture un proclama. 


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Viviamo una realtà scissa tra un Novecento bellicoso che l’attuale scellerata campagna d’invasione di Putin ci sta ripresentando – coi suoi genocidi, con l’atomica, con una dittatura bella e buona, con gli esodi di massa da Est – e una vita oramai rivolta sul web sempre più virtualizzato fino all’angosciante e parecchio soffocante prospettiva del Metaverso, dove una riproduzione di Roma divenuta NFT (la Roma del Metaverso) è stata appena pagata migliaia di dollari. Nel frattempo, la Natura, fra queste due polarità, si ribella, ci sgrida, perché noi l’abbiamo uccisa e devastata per troppo tempo. Quello che può fare la letteratura è farci vedere la complessità, la complessità che dobbiamo vivere a pieno, darci il brivido inquieto che siamo ancora vivi in mezzo a tutte queste rappresentazioni e catastrofi, che c’è sempre una possibilità di libertà, di felicità, sia rispetto a Putin sia rispetto al NFT di Roma o all’Antropocene. Per questo, l’approccio ‘borghese’ di alcuni romanzi contemporanei, assecondato a un comfort di scrittura sicura per il lettore, è davvero discutibile. Leggiamo più Fernandez Mallo, Saunders, Cohen, e meno autori condiscendenti, per favore!


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni ‘oralità’/‘scrittura’ e ‘poesia’/‘prosa’, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Non trovo che il digitale sia sempre comodo. Non serve a niente avere 1000 pdf da consultare sul tablet, se poi dopo quattro ore di lettura e studio di libri devi fermarti perché non vedi più! La carta è un veicolo che invece ancora durerà – nonostante ci sia un pericolo certo di approvvigionamento – e il formato libro sopravvive per la sua praticità ai vari dispositivi.


Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?

La letteratura della migrazione in Italia è un fenomeno importante, da studiare, ma siamo in generale indietro di 40 anni rispetto agli altri Paesi. Questo ovviamente è dovuto alla scarsa integrazione sociale, che porta spesso gli scrittori migranti a marginalizzarsi o a tentare vie facili per integrarsi nella comunità. Per questo, ad esempio, non abbiamo praticamente autori in lingua araba residenti in Italia, come accade in Francia, e per questo molte di questo opere non hanno sperimentato quasi mai con la lingua, con un pidgin davvero significativo. Per molti anni, anche in editoria, ci siamo messi a fare sociologia, piuttosto che letteratura. Forse per redimere le nostre colpe rispetto all’integrazione? Non so. Nuove voci stanno emergendo, voci plurilingui, ma è ancora presto. Siamo molto più avanti per quanto riguarda la musica pop, ad esempio.


La letteratura romena è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Sicuramente grazie al lavoro di piccoli e grandi editori, penso a Bompiani, al Saggiatore, a Voland, che pubblicano e seguono gli autori più importanti.


Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, sono autori che, trascendendo il tempo e lo spazio, hanno narrato la burrascosa storia della Romania. Ebbene, le sono noti e ci sono scrittori romeni che hanno attirato la sua attenzione?

Mircea Cărtărescu è uno degli autori più innovativi degli ultimi anni, e uno di quelli che leggo con più attenzione, benché il suo tipo di letteratura non sia proprio una novità e ha una radice, stravolta, novecentesca con influenze da un lato americano e dall’altro dall’est, da certa visionarietà della letteratura russa o anche dell’Europa centrale. Lui è quello che conosco di più. Ma sto cercando di farlo diventare la via per leggere nuovi voci, specie di scrittrici. Non mi interessa sicuramente il racconto realistico, quanto quello ricco di visioni, surreale, da realismo magico spostato a Est, come nella Bucarest narrata da Solenoid oppure Orbitor.






A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 5, maggio 2022, anno XII)