Alfredo Palomba: «Mi piacerebbe riconoscermi in una scrittura sensata, in linea coi tempi, lucida»

La sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, si apre all’edizione n. 76 del Premio, avviata con le segnalazioni iniziate lo scorso primo febbraio. A partire dal numero di marzo vi proponiamo una nuova serie di incontri con gli scrittori segnalati e i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Ospitiamo qui Alfredo Palomba, classe 1985, già in lizza allo Strega 2020 con il suo primo romanzo, Teorie della comprensione profonda delle cose (Wojtek Edizioni, 2019), scelto anche per rappresentare il romanzo d’esordio italiano all’Europäisches Festival des Debütromans 2020 di Kiel. Quest’anno si ripresenta allo Strega con il suo secondo romanzo, Quando le belve arriveranno (Wojtek, 2022), proposto da Riccardo Cavallero: «il nuovo romanzo di Alfredo Palomba conferma ed esalta le doti narrative di un autore che non teme sfide coraggiose di costruzione del pensiero, dell’intreccio, di scelta dello sguardo sulla realtà».


Un giovane uomo, tormentato da una vita familiare miserabile, percorre le pagine de Quando le belve arriveranno. Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare e attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Immagino perché sono le nostre origini, e non c’è mai totale riconciliazione nei confronti di ciò da cui discendiamo. Per quanto anche i rapporti più conflittuali possano, nel tempo, pacificarsi, è molto probabile che resteranno gli strascichi di non detti, incomprensioni, delusioni, mancanze che renderanno il percorso all’indietro perlomeno tortuoso, quando non impossibile. Il protagonista di Quando le belve arriveranno, in particolare, non è in grado di stabilire e coltivare alcun tipo di relazione sana, né con le persone nuove che incontra durante il corso del romanzo né, appunto, col suo nucleo familiare originario, che pure ‘sano’ non è: una madre alcolizzata e una nonna allettata, in stato semicomatoso, con la quale paradossalmente riesce a stabilire una sorta di comunicazione non verbale, istintiva. Lo stesso tipo di relazione instaurerà con Haochen, il bambino disabile che gli verrà affidato. Rapporti simili, in un romanzo dove l’umanità è esperita come comunità bestiale e prevaricatrice, sono i più genuini.


Reale e onirico, fotogrammi dal passato ed esperienze concretissime, frammenti di verità e terrificanti fantasmagorie si intersecano virtuosisticamente. Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della «memoria» nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Per tornare alla questione precedente, credo che i conti col passato non si chiudano mai del tutto, nel bene e nel male. L’elemento della memoria, più che in questo secondo romanzo, è fondamentale nella riflessione che ho portato avanti in Teorie della comprensione profonda delle cose. Tra i molti personaggi di quel libro ce n’è uno, don Pagnotte, un tossicodipendente che ha dimenticato il suo passato e si è creato una formidabile identità, credendosi un discendente nientedimeno che di don Chisciotte. Mentre parla col personaggio di don Alferido – il più autobiografico – don Pagnotte si perde in una riflessione tra sé e sé: «I miei ricordi fan acqua», dice, e poi continua:

«Strano affare, la memoria, nemica mortale del riposo degli uomini […] non mi viene di ricordar nulla prima della decisione di farmi cavaliere, se non pochi sprazzi d’immagini che non riesco a collegare tra loro. Di tanto in tanto, mi sovvengono colori e lo scintillio d’una torre sulle acque e altre figure spezzate, danzanti, sole. Ben ricordo, invece, le avventure del mio mentore don Chisciotte: il resto è nebbia. E il cuore mi dice che forse è perfino meglio così, don Alferido, ché non avrei avuto nulla da ricordare se non mestizie. Credo sia bene, talvolta, affidarsi a una sorta di flusso, di fiume. Non so se mi capite, caro amico […]. È come se il vostro don Pagnotte fosse entrato altrove, in un luogo che lo attendeva da molto ed era adatto a lui, nel rassicurante regno delle sue ambizioni o, perché no, delle sue fantasie. Solo qui potrei esser me stesso, altrove avverto troppo orrore. Meglio combatter maghi e streghe che si possono vedere o immaginare, meglio loro che combatter se stessi, annegati nel nulla e nella sofferenza del vivere, non credete? Meglio amar dame che forse non si ricordano di noi o nemmeno ci han mai guardato in volto, che convincersi di non poter amare nessuno, di non aver più nessuno al mondo […] A che vale la memoria, don Alferido, se non siamo sicuri che sia memoria di cose belle? Mi chiedo, ha forse la memoria un valore intrinseco e di per sé? Dovremmo cercarla e tutelarla anche quando memoria del fallimento, dello strazio? Andrebbe, in quei casi, difesa col braccio levato in alto, come difenderemmo ciò che di più caro serbiamo in noi? Perché non lasciarla andare, annullarla addirittura, strappare ogni laccio che a lei ci lega, abbandonare la pericolosa arpia e affidarci alla realtà del sogno?»

La memoria, però, è in Teorie della comprensione profonda delle cose anche patrimonio prezioso, segno struggente del nostro passaggio. Nel romanzo entra un elemento fantastico, una torre realmente esistita – della quale si traccia una cronistoria in forma di saggio – costruita nel medioevo e abbattuta nell’Ottocento: in diversi momenti del romanzo, tutti i personaggi riescono a vederla o percepirla. La torre è, per quanto simbolo dal significato ambiguo, portatrice della memoria dell’umano, segno che qualcosa c’è stato e alla fine, forse, sarà ricordato.


Quanto la sua scrittura integra la tradizione a ricerche espressive innovative?

È una domanda a cui non so se sarò in grado di rispondere. Fin da ragazzino, le mie letture sono state disordinate, né ho mai considerato i cosiddetti canoni nazionali in senso verticale. Ho studiato da comparatista, sicché l’orizzontalità tra le letterature è per me fisiologica: mi sento influenzato tanto da Manzoni quanto da Stephen King, Cervantes, Rabelais, Grass, Amis, Lagerkvist, scrittrici e scrittori italiani della mia generazione, soprattutto indie, che leggo con curiosità e volontà di confronto. L’unica tradizione in cui mi piacerebbe riconoscermi è quella di una scrittura sensata, in linea coi tempi, lucida: è un’idea piuttosto generica di buona prosa che cerco di avere a modello, quando scrivo, e vale anche per il dibattuto concetto di «innovazione» o, se vogliamo, di «originalità». Scrivere per essere originali mi fa venire in mente l’aneddoto di David Foster Wallace del bambino in piscina che grida «Guarda mamma, senza mani!». Riuscire a essere originali, non dico senza volerlo, ma senza perseguire l’originalità come scopo primario, quello è un altro paio di maniche, ma è un giudizio che spetta agli altri. La mia personale tradizione è costituita da ogni libro che ha spostato, in qualche modo, la mia percezione di cosa si possa fare con le parole: lo spaziotempo di un’opera l’ho sempre trovato un orpello, magari interessante, ma spesso secondario.


Nel suo primo romanzo, Teorie della comprensione profonda delle cose, proposto a sua volta per il Premio Strega 2020, lei applica differenti prospettive ad altrettante corrispettive esperienze che l’uomo con le sue attitudini, peculiarità e tessuti relazionali, che gli sono caratteristici, si trova ad affrontare. Ritiene che il romanzo possegga la potenza per scarnificare l’uomo nella sua complessità e totalità?

In Teorie della comprensione profonda delle cose ho provato a scrivere, forse con troppa ambizione, di cosa significhi essere umani in un tempo complesso e stratificato quale il nostro, mostrando una porzione il più possibile rappresentativa di ambizioni, illusioni, relazioni, speculazioni, controbilanciate da una forte attitudine all’umoristico e al comico. Prescindendo dai miei poveri tentativi, le opere che possiedono la potenza di cui parli sono capaci di trascendere il proprio tempo – anche quando vi sono ancorate con fermezza – e raccontano, inevitabilmente, dell’uomo. È per questo che ancora oggi leggiamo Don Chisciotte, Moby Dick, è per questo che opere come Ulisse o Infinite Jest resteranno. Quando Shakespeare dà la parola a Shylock, non è un uomo solo a parlare, ma tutti gli uomini che abbiano mai subito e mai subiranno il peso del pregiudizio altrui. La vera letteratura supera i confini del tempo e parla al cuore degli uomini di ogni epoca.


«Circondati da segni da decifrare e mettere insieme per provare a ricomporre il mosaico e acquisire una visione il più globale possibile, che riveli il senso, la teoria della comprensione profonda delle cose». Il suo scritto propone un legame tra sociologia, antropologia e filosofia. Può esplicitare i nessi formali e sostanziali?

Il mio primo libro mi è costato parecchio in termini di ore spese a studiare argomenti della più varia natura. Due personaggi in particolare, il bambino geniale Max e il suo finto «istitutore», allestiscono lunghe e surreali conversazioni – inframmezzate da lunghissimi temi scritti dallo stesso Max – in cui si discetta di astrofisica, internet, libri, etnografia… credo, tra l’altro, di aver letto o compulsato l’intera bibliografia italiana su Athanasius Kircher, un dotto gesuita del Seicento che ha, sia pur indirettamente, un ruolo centrale nel romanzo. È proprio lui a credere che l’universo sia decifrabile tramite la collazione, anche fantasiosa, di tracce, segni, lingue, reperti storici: ogni elemento del cosmo è parte di un grande mosaico-Wunderkammer, una piccola porzione della verità divina. Mi affascina moltissimo questo modus operandi, naturalmente in totale contraddizione col metodo scientifico che prendeva piede proprio al tempo di Kircher e col relativismo culturale che ha portato, per citare Lyotard, al «crollo delle metanarrazioni». Il gesuita era fermamente convinto che si potesse arrivare, tramite la decifrazione del mondo, a un senso assoluto, alla verità. A una «teoria della comprensione profonda delle cose», insomma. Kircher, deriso da Galileo, Newton e da altri illustri scienziati a lui coevi, ha visto svanire il suo sogno ma ha creato una teoria magnifica, in cui tutto si teneva o provava, anche con mirabolanti voli pindarici, fragorosi errori teorici, ridicoli fraintendimenti, a tenersi. Un fallimento grandioso, che mi commuove.     


Oggi, in tantissimi scrivono romanzi e tantissimi sono gli esordienti. È altresì innegabile la crisi in cui versa il mercato editoriale. Quali parole sente di rivolgere a chi coltiva il sogno e la speranza della pubblicazione della propria opera?

Leggete moltissimo e di tutto. Studiate. Guardatevi sempre attorno, ma non andate in giro a «cercare idee». Scrivete cose oneste. Siate severi con voi stessi. Non pagate per pubblicare. Non incensatevi. Proponete racconti a blog e riviste. Fatevi conoscere ma non infastidite gli altri. Non siate petulanti. Siate educati. Siate gentili. Confrontatevi con gli altri. Partecipate ai premi per esordienti, soprattutto il Calvino. Studiate il catalogo di una casa editrice prima di proporre il vostro manoscritto: non mandate mail generiche. Siate ostinati ma non ottusi. Non siate ossessionati dalla pubblicazione. Non scrivete pensando a un pubblico.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Teniamo conto che, per quel che vale, De Sanctis compila la sua Storia della letteratura italiana a meno di un decennio dall’unificazione, quando era forse più potente la necessità di sentirsi parte di un popolo che avesse un’«anima» e un «pensiero». Credo che oggi siamo molto più vicini a una forma di letteratura globalizzata, il che io leggo in termini di diversificazione e arricchimento. La società in cui viviamo non è quasi più relegata a confini e identità granitiche, se escludiamo dal conto dichiarazioni xenofobe fuori tempo massimo di cui pure la pubblica informazione è imbevuta. Per quanto riguarda il ruolo della scrittura, penso sia sempre lo stesso attraverso le epoche: per banale che sia, riflette il bisogno dell’uomo di riconoscersi, come singolo e in relazione alla comunità di appartenenza, e raccontarsi, testimoniando il proprio passaggio. Non è altro che l’evoluzione del gesto di lasciare un segno col carbone sulle pareti della propria caverna. Le società cambiano ma il ruolo degli scrittori – degli artisti in generale – resta pressappoco lo stesso.


La letteratura romena si fregia di una robusta e altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Non conosco molto bene la letteratura romena, lo dico chinando la testa: anche per questo sono grato per la nostra chiacchierata, un’occasione per prendere appunti e scoprire voci nuove. Conosco però i romanzi di Mircea Cărtărescu, un autore gigantesco. La mia passione per il massimalismo mi ha inevitabilmente avvicinato alla sua opera, che mi pare abbia ottimi riscontri in tutta Europa, e a ragione. Potrei avere occasione di incontrarlo, alla fine della prossima estate, e sarebbe davvero un grande onore.





A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 3, marzo 2022, anno XII)