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    Amedeo Anelli: «Mi sembra che in Italia non sia molto conosciuta la poesia romena»
         
         
     
        Ospite dei nostri Incontri critici è Amedeo Anelli (n. 1956, Santo Stefano Lodigiano), filosofo,  professore, critico d’arte e poeta. Ha  pubblicato numerosi cataloghi, libri d’arte e saggi di critica letteraria,  estetica, e di arti visive. Ha fondato e dirige dal 1991 la rivista  internazionale di poesia e filosofia «Kamen’». Dal 2000 è membro del Corpo  Accademico dell’Accademia di Belle Arti «Pietro Vannucci» di Perugia e dal 2009  fa parte del comitato scientifico internazionale della rivista slovena  «Poetikon».  
        I suoi scritti sono tradotti in russo, francese, svedese, tedesco  inglese, portoghese, sloveno. In traduzione romena sono state pubblicate le  raccolte Simfonietă e Polifonii (Eikon, 2017 e 2019), a cura  di Eliza Macadan. È inoltre  presente nell’antologia Mâna scrie sunetul: elecțiuni afective de poezie italiană  contemporană che riunisce 12 poeti italiani contemporanei, a cura di  Eliza Macadan (Eikon, 2014). 
           
           
        Amedeo Anelli, la sua  creatura più longeva è la rivista internazionale di poesia e filosofia fondata  nel ’91: «Kamen’», con tre sezioni monografiche. Quali sono le motivazioni sottese  alla scelta di questa formula? 
           
        La rivista «Kamen’», dal russo ‘pietra’,  è nata nei primi anni Novanta per il bisogno di ripensare la forma «rivista» e  in particolare la forma «rivista di poesia», raccordandola con tutti i saperi.  Di qui le sezioni monografiche su esponenti della cultura non solo poetica e  sui rapporti con tutte le discipline: dal giornalismo alla fisica, dalla teoria  della letteratura all’estetica, alle categorie del comico ecc.  «Kamen’» intendeva rilanciare un’idea forte  di progettualità e della molteplicità delle tradizioni in un contesto in cui  mancavano l’approfondimento, la sistematicità di scelte tali da offrire  riflessioni, interpretazioni, dissensi o consensi forti, che non fossero  semplice presa d’atto di lavori in corso. C’era il bisogno di riaffermare un  principio di responsabilità della cultura e nella cultura, un pensiero mirato a  «cambiare il cambiamento», non a esserne passive pedine. Per tale visione forte  della cultura e dell’intellettuale si decideva la formula monografica, che  permette di affrontare gli argomenti nel modo più completo e approfondito e di  evitare insomma l’effetto ‘Grand Hotel’:  la rivista da sfogliare, da leggiucchiare, ma da non leggere integralmente, non  da meditare. L’intenzione era porre l’accento sulle tradizioni della poesia di  pensiero a forte radicamento etico. Ciò non ha a che fare col pensiero  poetante, e questo per l’avversione verso poetiche di origine idealistica,  radicate nelle aporie romantiche della modernità da denunziare e tentare di sanare.  Il contesto della poesia italiana degli ultimi decenni è di grande debolezza, e  vi restano forme esaurite della linea simbolista-decadente; con grande ritardo  rispetto alle tradizioni europee.  In  questi anni di lavoro «Kamen’» è diventata più che una rivista: un progetto  internazionale plurimo e un’ampia comunità di ricerca sulle tradizioni  dell’Europa e non solo, avendone un senso progressivo e guardando innanzi tutto  a quelle a venire, ma con il sentimento che sia sempre possibile una  protensione inversa dal futuro al presente.  
             
             
          Le sue poesie sono pubblicate anche in  traduzione romena. In un tempo politico, sociale ed economico che grida  l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità  interiore può essere lenita dalla Poesia? 
             
          I  miei principali interessi sia in poesia sia altrove sono rivolti al rapporto tra  pensiero e orizzonte di senso. Faccio una poesia polifonica stratificata che si  basa su campi semantici, che in prima misura si affida alle immagini e non  segue la logica della frase, anche se sembra rientrarvi. La poesia è in grado  secondo le proprie leggi di portare in sé ogni sapere, ogni sensibilità e  quindi anche le lacerazioni del vissuto e del conflitto; sicuramente questo mio  scrivere pone su vari gradi il problema dell’interrogazione filosofica ed  esistenziale. Se questo lenisce o acutizza la conflittualità interiore, questo  non le saprei dire… Fra chi mi ha tradotto in romeno vorrei ricordare con  gratitudine anche Doina Condrea Derer. 
             
             
            Lei ha affermato: «È impossibile occuparsi di letteratura e di critica,  ai giorni nostri, se non si conosce approfonditamente il panorama europeo dal  ’600 in poi». È il respiro transnazionale a catturare la sua  attenzione? 
             
            Per  fare Arte e Critica d’Arte serve tutto e non basta nulla. La modernità ha  aperto a molteplici interrelazioni e alla Weltliteratur. È impossibile studiare  in profondità gli autori se non li caliamo almeno nella cultura europea in cui  si sono formati con tutte le passioni, i prestiti e le rielaborazioni. Al giorno  d’oggi non si può più fare storia della letteratura sul modello lineare alla  Francesco De Sanctis e senza considerare tutte le implicazioni culturali che  hanno toccato gli autori. Il concetto di campo semantico con opportune correzioni  arriva dalla fisica di fine Ottocento. Il padre di Aleksandr  Sergeevič Puškin leggeva in italiano il Parini di Il Giorno e l’autore ne tenne conto nell’Evgenij Onegin, e così via… 
             
             
            La sua impronta poetica è di carattere fondamentalmente filosofico. Nel  tessere un rapporto fra filosofia, etica ed estetica in qual misura ha  risentito della cultura russa? 
             
            Oltre  alla linea dantesca della poesia europea, sicuramente l’area slava ha  contribuito ad ampliare i miei interessi filosofici a partire dal filosofo  ucraino Hryhorij Savyč Skovoroda, un ponte fra Giordano Bruno e Comenio, e la  fondazione della cultura russa a cominciare da Puškin, Dostoevskij, fino a  Tarkovskij… Ma questa tensione è tipica anche della mia tradizione culturale a  partire da Dante, Campanella, Leopardi ecc… 
             
             
            Lei ha tradotto l’opera dei poeti russi Arsenij Tarkovskij, Osip  Mandel’štam, Boris Pasternak. Nella  rappresentazione contemporanea della figura traduttiva, è stata fortemente voluta  anche dagli organi istituzionali l’introduzione della codifica di mediatore.  Ritiene di essere dotato esclusivamente di un talento traduttivo linguistico o  di essere anche un mediatore culturale? 
             
            Contrariamente a visioni di stampo idealistico  sull’intraducibilità della poesia, penso che una pratica millenaria come la  traduzione sia un modo per far dialogare le culture e una grande verifica per  chi viene tradotto. Per quanto maldestro il traduttore, se il poeta ha spessore  qualcosa passa; non si può certo pretendere l’equivalenza, perché Giovanni non  potrà mai diventare Carlo, in una forma come quella poetica in cui tutto ha  senso. Ma sono i bisogni della tradizione di arrivo che fanno la traduzione,  sicuramente la totalità del dialogo fra culture e l’ampliamento che un’altra  lingua porta nell’orizzonte di senso della propria. 
             
             
            Recentemente ha curato l’opera poetica di Roberto Rebora, rendendo  disponibile la quasi totalità dei testi poetici editi in libri, riviste ed  edizioni rare.  Emerge l’attenzione ai temi del silenzio  attivo, della temporalità, del dato di coscienza, della corporeità senziente,  del rilievo della percezione e degli enigmi della Natura. Ebbene, quanto reputa che Rebora sia  vicino a una prospettiva neo-fenomenologica? 
             
            Sicuramente  Roberto Rebora è uno degli esponenti poetici (insieme con Vittorio Sereni,  Antonia Pozzi e anche Daria Menicanti) della Scuola di Milano, anche se non è  stato un allievo diretto di Banfi per motivi esistenziali: la morte prematura  del padre e il lavoro all’Officina del Gas della Bovisa di Milano. Comunque vi sono  molte interconnessioni e vicinanze, a cominciare dall’amicizia con Enzo Paci e  dal progressivo processo di raffinazione e di sospensione del giudizio e di  riduzione fenomenologica che a suo modo ha applicato al proprio poetare.  Basterebbero comunque i temi che lei ha citato: silenzio attivo, corporeità  senziente, temporalità ecc… ad avvicinarlo a una cultura fenomenologica 
             
             
            La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a  innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da  donne?  
           
        Ci sono nel marasma  generale e nella epigonalità diffusa del poetare italiano contemporaneo vere  eccezioni come Margherita Rimi e altre che portano il loro solido contributo  all’evoluzione del linguaggio non solo poetico: ad esempio, la critica Daniela  Marcheschi, che fa eccezione anche nella poesia. Ma non ne farei una questione  di genere, quanto di qualità, pur portando nel testo anche la loro femminilità. 
         
         
        La letteratura  romena è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista «Orizzonti  culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano:  1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in  Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione? 
         
        Dopo le aperture degli anni Sessanta  del secolo scorso, si pensi al fiorire delle traduzioni e delle antologie, mi  sembra che nel nostro Paese non sia molto conosciuta la poesia romena, che ci  sia da fare un grande lavoro soprattutto editoriale. Sono molti i poeti romeni  che mi hanno nutrito a cominciare da Mihai Eminescu, sino a Ion Barbu, Tudor Arghezi,  poi ovviamente Lucian Blaga, per venire sino a noi con Ana Blandiana ed Eliza  Macadan di cui ho prefato diversi libri. 
         
         
       
        
         
         
       
      A cura di    Afrodita Cionchin e Giusy Capone 
          (n. 9,  settembre 2022, anno XII) 
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