Concetta D'Angeli: «Ho sempre bisogno della messa in prospettiva»

Nella sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, vi proponiamo una nuova serie di 10 interviste con gli scrittori segnalati all’edizione n. 76 del Premio, e con i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Concetta D'Angeli, nata a Cittaducale (Rieti) nel 1949, è segnalata per il romanzo Le rovinose (Il ramo e la foglia edizioni, 2021), un racconto privato e insieme pubblico, di grande intensità e con un forte impatto. Paolo Ruffilli lo presenta così: «È comprensibile che Concetta D’Angeli abbia scritto e pubblicato solo oggi, a più di quarant’anni dai fatti, questo racconto degli “anni di piombo”, il famigerato periodo delle stragi (Piazza Fontana, l’Italicus, Bologna) e delle guerre di mafia che scosse l’Italia con un numero enorme di morti dal 1976 al 1988. Periodo per altro decisivo in Italia per le donne, in una serie di conquiste fondamentali (dal divorzio alla legalizzazione dell’aborto) nella riforma del diritto di famiglia per il riconoscimento della parità di genere».


Le rovinose narra del famigerato periodo delle stragi (Piazza Fontana, l’Italicus, Bologna). Tale romanzo ha, evidentemente, richiesto ricerche storiche accurate e meticolose. Quale metodo si è imposta di adottare per trattenere le informazioni e, poi, renderle narrativa?

Ho vissuto quel periodo da testimone; ero allora una ragazza, la mia vita era complicata, come tutte le vite giovani che non si rassegnano all’adozione passiva delle norme tradizionali, e mentre cercavo di sfangarmela fra scelte difficili e alternative oscure, intorno a me avvenivano omicidi politici e mafiosi, le tensioni sociali raggiungevano livelli estremi, si respirava aria di tragedia. Allora come adesso, m’interessavo di politica, ma non facevo parte di gruppi extraparlamentari e nemmeno di partiti strutturati, quindi non mi sono mai trovata coinvolta in prima persona; ero una testimone, appunto. Di quegli anni ricordo distintamente il clima, l’apprensione, le emozioni, ricordo bene anche gli episodi salienti, le stragi.
Quando ho cominciato a scrivere il romanzo, dunque, non ho dovuto operare una vera e propria ricostruzione storica ma, più semplicemente, mettere a punto date, controllare fatti e nomi; o, se vogliamo, compiere una rivisitazione della memoria partendo da immagini, private e pubbliche, che mi si erano radicate nella mente acquistando la consistenza e il valore di simboli. Molte di esse contenevano già, in nuce, delle storie; le ho dipanate, le ho cucite insieme, ho ritagliato i personaggi, ho dato loro consistenza psicologica. E naturalmente ho lavorato, tantissimo, per trovare il ritmo e il linguaggio adatti.  


La storia vede come protagoniste due donne, allora ragazze, e le loro vite parallele segnate da mire e vicende diverse. Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare e attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Conduco da molto tempo una battaglia contro la famiglia, cioè contro il peso pratico e la rappresentazione teorica del concetto-famiglia. Non perché abbia da lamentarmi della mia, ho avuto un padre e una madre eccezionali e ho tutt'ora una sorella che ammiro; però gli altri parenti prossimi, una specie di tribù, facevano e tuttora fanno orrore e con loro ho troncato ogni rapporto; e so di un numero enorme di famiglie patogene, vivai d’ogni male.
D’altra parte, riconosco che nella famiglia si trovano le radici di ognuno di noi, e le radici sono, per gli umani come per gli alberi, ciò che lega alla terra, dà alimento e concretezza, ricollega ai semi dell’origine; parlo sia di fatti sociali ed economici sia, e soprattutto, di stati affettivi e mentali. In famiglia impariamo ad amare e a rifiutare, impariamo la prima lingua, la lingua-madre appunto, e cominciamo ad apprendere la vita. Dunque, almeno sul piano psicologico, la famiglia non può non far parte di noi, nel bene e nel male. Nel concreto però io non ho voluto formarmene una e a mia sorella voglio bene come a una carissima, adorabile amica.


Lei mescola generi, memoriale, diario, epistola, e modi, prima e terza persona. Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?

Non ho voluto rendere difficile la vita a chi mi legge, tutt’altro; io credo che lo scrittore debba tener conto del suo pubblico – non fino ad adularlo, o piegarsi alle sue cattive abitudini, o rinunciare a se stesso per farsi leggere, però certo non deve trattare il pubblico come un nemico.
L’adozione alternata della prima e della terza persona è stato un modo per rappresentare lo sforzo di memoria compiuto da Silvana nel recuperare i fatti avvenuti decenni prima e, più ancora, i sentimenti che li accompagnavano: una ricerca memoriale che avviene, dunque, sia nell’oggettività sia nella soggettività. Mi pareva che l’alternanza dei modi grammaticali potesse restituire il suo percorso ed esserne un rispecchiamento adeguato.
Quanto alla mescolanza dei generi, me la consentiva la malleabilità della formula romanzo e inoltre non trovavo adeguata la narrazione lineare, la volevo più mossa, multiforme, un po’ per rappresentare il percorso interno e esterno della ricerca di Silvana, un po’ per affidare il racconto sia al narratore onnisciente sia al dialogo maieutico, alle lettere, al diario, cioè a documenti che hanno l’apparenza dell’oggettività, sia a piccoli intarsi metanarrativi, sia alla storia ufficiale, come avviene nella Cronologia conclusiva, che proprio perciò nelle mie intenzioni fa parte integrante del racconto.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Non so quanto l’idea dello specchio sia un’immagine convincente e corrispondente a quello che intendo per rispecchiamento. In questa riserva agiscono forse due importanti elementi della mia formazione culturale, e cioè Freud e Marcel Proust. Non posso immaginare uno specchio che prescinda dall’accoglimento delle ombre, delle immagini in prospettiva, della memoria e delle sue chimere, cioè di quella dimensione dell’irrazionale o meglio dell’inconscio che sostanzia la percezione della nostra interiorità ma anche del mondo oggettivo e interviene perfino nei meccanismi della grande storia, nei fenomeni di razzismo, nella misoginia e nell’omofobia collettive, nello scatenare l’aggressività e le guerre. Una tale persuasione mi rende indecifrabile il faccia-a-faccia con la realtà corrente, ho sempre bisogno della messa in prospettiva, un’operazione nella quale il tempo, inteso come passato ma anche come distillatore di ricordi ed emozioni, ha un ruolo essenziale.


La lotta politica, l’adesione a una causa: i nostri tempi possono ospitare, a suo avviso, siffatti propositi di cambiamento sociale attraverso il canale della Letteratura?

Credo che la letteratura possa ospitare di tutto e abbia la possibilità di farlo; credo anche che l’intento politico o ideologico sia, da parte di chi scrive, nobile e per certi versi auspicabile, però diffido degli scopi troppo esplicitamente legati a ciò che una volta si chiamava «l’impegno», perché significa vincolarsi a un orizzonte troppo asfittico e forse non del tutto pertinente per una scrittura che si definisce creativa. La letteratura, se aspira a essere grande e universale, dovrebbe saper produrre opere che, alimentate dalle idee, dalle prospettive ideologiche e filosofiche, filtrate dalla percezione di chi scrive e dal suo modo di pensare il mondo, siano capaci di dare a esse corpo e credibilità anche psicologica, di trasformarle in personaggi e situazioni ed espressioni emozionanti, coinvolgenti. È in sostanza la differenza che trovo tra la descrizione della morte del principe Andrej in Guerra e pace, un’immagine che non si dimentica più e che vaccina per sempre contro ogni tipo di violenza, e un trattato pacifista, per quanto convincente e ben argomentato.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Temo di non essere in grado di rispondere con proprietà alla domanda, ho una conoscenza del tutto insufficiente della letteratura mondiale scritta dalle donne; posso dire, giusto per fare un esempio, che non mi piace la scrittura di Elfriede Jelinek, troppo cerebrale secondo me e anche troppo ermetica, mentre ho amato moltissimo Agota Kristof, peccato che sia morta precocemente.
Quanto a quella italiana, la mia conoscenza approfondita si ferma a Elsa Morante. Mi pare che, rispetto al passato, siano aumentate le donne che offrono scritture di qualità, ma mi sento in imbarazzo a fare nomi e, quindi, non ne farò.
Voglio però esprimere il mio parere, che è del tutto negativo, su un paio di fenomeni molto diffusi, anzi ormai imperativi, nella narrativa italiana (degli altri Paesi non so) e che riguardano indifferentemente opere di uomini e di donne; parlo dell’inflazione dei romanzi gialli e dei romanzi scritti da giornalisti e giornaliste, che spesso (non dico sempre, ma spesso) si limitano a trasformare pezzi di cronaca (a volte solo autobiografica) in forma di romanzo. Penso che sia un’operazione troppo semplicistica, che però ottiene successo di pubblico perché si avvantaggia della popolarità di cui gli autori e le autrici godono, soprattutto se compaiono spesso in televisione. Un tale fenomeno non addestra a letture più impegnative e qualitativamente migliori e rende più aspra la strada di chi, quando scrive, ricerca risultati più profondi e innovativi.


Hegel sviluppa una definizione del romanzo: esso è la moderna epopea borghese. Lukacs afferma che questo genere, essendo il prodotto della borghesia, è destinato a decadere con la morte della borghesia stessa. Bachtin asserisce che il romanzo sia un «genere aperto», destinato non a morire bensì a trasformarsi.  Oggi, si notano forme «ibride». Quali tendenze di sviluppo ravvede di un genere che continua a sfuggire a ogni codice?

Mi piace la forma romanzo proprio perché i suoi canoni sono mutevoli e capaci di assorbire modi di comunicazione variegati e difformi; mi diverte la sua capacità di reggere alla stessa intenzione di rompere i canoni tradizionali e poi ricostituirli, magari all’interno della stessa opera. Del resto, Sterne lo ha fatto, già due secoli e mezzo fa, con grande maestria e intelligenza.
Non credo che una forma letteraria possa attraversare il tempo conservando inalterate le sue caratteristiche originali e, se il romanzo ha mantenuto la sua vitalità, nonostante le innumerevoli predizioni di fine prossima, ritengo che sia proprio per la sua malleabilità. Perciò tra le definizioni citate, la più appropriata mi sembra quella di Bachtin.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, e la rivista «Orizzonti culturali italo-romeni» ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. Quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Attualmente ho l’impressione che la letteratura romena sia abbastanza conosciuta, grazie a bravi traduttori che ce l’hanno resa accessibile. Ho letto Eliade molto presto, negli anni Settanta, lo pubblicava allora Boringhieri, e mi sono entusiasmata dei suoi studi, che ho interpretato in chiave antropologica, laica dunque, stravolgendone forse le intenzioni ma comunque apprendendovi tantissimo; ho letto anche il Giornale, splendido. Non conosco invece la sua narrativa, a parte Gaudeamus, che non ho apprezzato.
Conosco abbastanza Cioran; la sua nostalgia per la lingua romena, quand’era in Francia, e il timore che si estingua mi hanno sempre commossa, anche perché temo un rischio analogo per il mio adorato italiano. Le sue previsioni filosofiche apocalittiche, invece, non le condivido neanche un po’, però le trovo affascinanti. E, infine, ho appena cominciato a leggere Solenoide di Cartarescu, mi ci vorrà un bel po’ di tempo a finirlo, date le dimensioni; però la sua scrittura visionaria mi attrae proprio perché lontanissima dalla mia natura e dal mio stile.








A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 4, aprile 2022, anno XII)