Davide Brullo: «Da ragazzo, ho amato Nichita Stănescu, oggi amo Benjamin Fondane»

Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici è Davide Brullo, giornalista, scrittore, poeta. Scrive sulle pagine culturali de «Il Giornale» e per «Il Venerdì di Repubblica». Ha pubblicato, tra l’altro, i libri di poesia Annali (Edizioni Atelier, 2004), L’era del ferro (Marietti, 2007), Lince (Crocetti, 2022), e i romanzi Rinuncio (Guaraldi, 2014), Ingmar Bergman. La vita sessuale di Franz Kafka (Edizioni del Girasole, 2015), Pseudo-Paolo. Lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro (Melville Edizioni, 2018), Un alfabeto nella neve (Castelvecchi, 2018), Nabokov (Aliberti, 2021), che costituiscono i primi cinque libri del ‘Ciclo del Tradimento’. Nel 2017 ha fondato «Pangea», una delle migliori rassegne culturali in Italia, che dirige tutt'ora.


La sua rivista on line, «Pangea», sembra compiere un’opera di generosa e disinteressata esplorazione di mondi. In nome di quale valore o principio lascia esprimere innumerevoli e varie voci?

Da bambino, amavo le mappe, gli atlanti che registravano gli esaltanti viaggi di esploratori dai nomi inattuali. Anche oggi, mi appassiona chi perde se stesso per un deserto, in un’impresa fasulla, chi si adempie in una giungla, accartocciando la propria fatua identità. Che si potesse varcare l’oceano con un dito e passeggiare in Antartide sfogliando un libro, mi pareva esaltante. Se non ricordo male, mio padre ha cercato se stesso in Pakistan – ma quelli sono luoghi di sabbia, in cui ci si inabissa. Lo so, il viaggio mentale è fuorviante, frustrante: tuttavia, permette la creazione di civiltà oniriche, di pianure che ipnotizzano. Da qui, il giornale, l’impianto della curiosità, il bisogno di snodare le voci, le più estreme, una libertà, perfino ingenua.


Traduttore, poeta, critico, scrittore, saggista e tanto altro d’affascinante e sontuosamente leonardesco: lei è poliedrico e tentacolare nell’esternazione dei suoi interessi: quanto crede nel sincretismo culturale, nella contaminazione di mondi apparentemente da intendersi come monadi?

Io sono niente, la cultura va smascherata, occorre fare lo scalpo ai figli del buio. Il linguaggio ti serpeggia in gola: non credo in chi bara, usando barometri verbali diversi, a seconda delle circostanze, delle convenienze. Un artista è sé quando scrive una lettera, un sms, un sos, un poema; del resto, l’arte è insufficiente a tutto, dunque occorre scavare alla scoperta di un monastero sotterraneo, senza munizioni. Di Franz Kafka ricordo l’indelebile immagine di una pantera che vagava nel matroneo, ombra di un’ombra, a terrore dei credenti, sfida per gli esegeti – ma magari non era lui...


Oggi, in tantissimi scrivono romanzi, tuttavia ben pochi posseggono la contezza dei suoi sviluppi, delle sue ragioni, altresì storiche e, specialmente, della sua necessità. Lo «scrivere» è davvero necessario?

Necessario è mangiare, fare l’amore, andare al bagno. Necessario è il digiuno, la continenza, la castità. Tutto questo riguarda il verbo. Lo scarto – i mestatori del verbo – appartiene alla falsa profezia.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperìta da donne?

Non mi dispiacerà scrivere vestito da donna, pitturandomi gli occhi e le labbra: il Davide di Valentin De Boulogne, caravaggista di assoluto genio, è un ragazzo col rossetto, il cerchietto, i capelli e il viso acconciati per la prostituzione: dopo aver mozzato il cranio di Golia, un cliente come un altro, si appresta a darsi ai soldati, neri e nerboruti, che lo scortano. Incantatorio mi pare il ritmo di donne inattuali, barbariche corsare del linguaggio: Maria Maddalena de’ Pazzi, Veronica Giuliani, Louise du Néant, Margot Ruddock.
Nella sua entità, intendo, la domanda mi è ignota, rispondo ricalcando Rainer Maria Rilke nel Malte: «L’impeto del suo cuore la cacciò per terre e terre sulla traccia di lui, e infine fu esausta; ma la mobilità del suo essere era così forte che ella, caduta, riapparve di là dalla morte come sorgente, rapida, come rapida sorgente. Che altro è accaduto alla Portoghese, se non che all’interno ella divenne sorgente? E a te, Eloisa? che altro a voi, amanti, le cui lamentazioni ci sono giunte: Gaspara Stampa; la contessa di Die e Clara d’Anduze; Louise Labé, Marceline Desbordes, Elisa Mercoeur? Ma tu, povera Aïssé fuggitiva, tu già esitavi e cedesti. Stanca Julie Lespinasse. Sconsolata leggenda del parco felice: Marie-Anne de Clermont». 


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

De Sanctis era un micidiale stilista: usava la letteratura per cementare una nazione altrimenti inesprimibile, un popolo autentico quanto una morgana. La ‘letteratura italiana’ non esiste: i poeti sommi quando sussurrano «Italia» lo fanno declamando una rovina, declinando una frattura, decimando ogni nazionalismo, ogni patria, parto di un boia. La Divina Commedia resta il viaggio, mirabolante, di un singolo; è l’apoteosi del pensiero di una personalità conturbante, che ancora ci impania in un incanto. Difficilmente ci si sente ‘rappresentati’ da un sonetto del Petrarca: egli, con impaziente potenza, inventa per noi le gamme dell’amare, la sua esperienza privata è tanto possente da privarci di ogni altra parola. Leopardi, poi, non fa che enfatizzare il massacro, mettendo l’indice nella ferita, rognosa. I poeti, i grandi – Ungaretti, Dino Campana, Eugenio Montale, Mario Luzi, Amelia Rosselli... – non danno pace, implicano la messa in discussione di tutto, trincerano nella rinuncia a soluzioni di becera politica: richiamano all’individuo, alla lingua singolare, impongono di voltare le spalle al mondo, di costruirsi il proprio tempo. La letteratura italiana, voglio dire, nasce da uno sfacelo, da uno iato, è scisma di lingue, dialetti, dilemmi, è un agguato, e ricama sulle ceneri; d’altronde, gli sciamani facevano sciamare i morti, mica vaghi consigli nei padiglioni del re. Sono i piccoli potentati, i poteri miseri, ad avere bisogno della ‘società’, della ‘società civile’, della ‘buona società’, dei ‘buoni cittadini’.


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni ‘oralità’/‘scrittura’ e ‘poesia’/‘prosa’, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Lavoro ogni giorno per una rivista digitale, «Pangea», come un contadino che scava la terra; tra poco, tramite «Pangea», comincerò a ideare e a pubblicare libri digitali, eppure, il mio orizzonte non va oltre questo mondo, non ne contemplo altri, men che meno virtuali, amo mordere le cose e strappare i libri, rapirne l’odore. E se il mezzo fosse il contenuto? Penso alle epigrafi, ai versi incisi sui cippi e sui ceppi, alle pergamene, ai corpi tatuati. Per scrivere, per dire, uso dei quaderni; e scrivo finché la mia calligrafia non diventa aliena, incomprensibile a me stesso, e ciò che ho scritto resta repertorio geroglifico, inutile. Dunque, non credo alla critica – alla lotta, semmai.  


Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?

La letteratura occidentale – termine che già deflagra in mosche – è tutta di migranti: guerrieri alle mura di Troia, Odisseo che mette nave in luoghi inauditi, Enea il fuggiasco. Tutti siamo nel non so dove, nel brillio di una lingua non nostra, fraintesa, brulla. Nato a Reims da genitori siciliani, vaganti prima per la Tunisia, poi in Francia, mio nonno ha vissuto sempre in una stralunata nostalgia francese. Durante la Seconda guerra, abitava a Mentone, lo obbligarono a combattere con gli italiani: catturato dai tedeschi in Grecia, fu recluso ad Amburgo, dove morirono il fratello di André Malraux e quello di Vladimir Nabokov. Non ha mai scritto nulla, amava leggere Indro Montanelli, mi portava a vedere il Milan, rifiutai di imparare il francese. Era un uomo gentile, svanito in arcuate tenerezze, incompreso. Il resto della domanda non saprei: non ho a cuore la sociologia della letteratura, con i contemporanei ci ignoriamo, reciprocamente. 


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in italiano e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Fui a Bucarest nel 1992, era da poco caduto – e morto – Nicolae Ceaușescu. Ne riporto la sensazione di una città splendida perché pericolosa, pericolante, falcidiata dal comunismo, piena di spie e di povera gente. Ero un ragazzino, capitato lì, dopo un viaggio lunare, segugio di uno zio. Aveva da fare con un senatore, ricordo, che viveva in un appartamento dal sentore di zuppa; in sala, i figli guardavano Pretty Woman, in lingua originale; per strada, alcuni zingari suonavano una musica struggente, che penetrava nelle mie ossa di latte. Ricordo una sapienza della disperazione, uno scetticismo barocco, l’ortodossia degli scaltri; ovunque, qualsiasi cosa poteva azzannarti alla gola. Qualche anno fa ho chiacchierato con Mircea Cărtărescu, un importante scrittore romeno; tra le altre cose, mi ha detto: «La realtà non è più reale del sogno. Soltanto la sofferenza rende la realtà evidente, aguzza. Se non soffri, fluttui nella vita come in un sogno». Mi pare una bella frase. Quanto al resto, in Italia sono pressoché sconosciuti gli scrittori italiani, figuriamoci gli altri, restiamo servili dell’impero anglofono, degli epigoni, calchi di calchi.


Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, sono autori che, trascendendo il tempo e lo spazio, hanno narrato la burrascosa storia della Romania. Ebbene, le sono noti e ci sono scrittori romeni che hanno attirato la sua attenzione?

Da ragazzo, ho amato la poesia di Nichita Stănescu, ricordo un’antologia edita da Le Lettere, La guerra delle parole, ne ho impresso un verso, questo: «D’un tratto al Polo sono stato orso». E un distico, questo: «Si mostrava fulmineamente un mondo / più veloce del tempo della lettera A». Il che significa: una lettera ha l’autonomia schiacciante di un mondo.
Oggi amo i libri di Benjamin Fondane, nato a Iași, cresciuto a Parigi, discepolo di Lev Šestov, pioniere di un pensare che percuote. Emil Cioran lo descrive così, dal picco di una amicizia che pare rara: «Tutti sapevano che Benjamin Fondane era qualcuno, uno spirito avvincente, maestro nell’arte di animare le idee. Era più di un filosofo: più profondo, più sensibile, nel suo intimo era al di là della filosofia. Davvero, se ci sono persone nobili in questo mondo… beh, lui faceva parte di questa categoria di uomini che superano se stessi». Ha scritto libri penetranti, redatti sul quarzo, intorno a Rimbaud e Baudelaire, la sua postura nel pensare sapeva sedurre; Victoria Ocampo, ad esempio, che si vantava di dialogare con Virginia Woolf, di aver scoperto Jorge Luis Borges e di essere adulata da Drieu La Rochelle, lo convinse a collaborare con la sua rivista, «Sur», ma non riuscì mai a incantarlo, a incatenarlo. L’ho conosciuto grazie a Luca Orlandini, che in Italia ha curato le opere più grandi di Fondane, e me ne ha raccontato la parabola tragica così: «Seduce l’innata nobiltà di questo poeta. Il nitore del suo orgoglio. L’ostinazione a camminare per le strade di Parigi privo della stella di Davide appuntata sul petto. Lo scrittore proscritto dalle leggi antisemite di Vichy arrestato insieme all’adorata sorella Line, che ci tocca, quando rifiuta di abbandonarla alla sua sorte e di accettare la liberazione che alcuni amici erano riusciti a ottenere solo per lui. Deportato a Drancy, e infine ad Auschwitz, nel ’44 è inghiottito dalla voragine Olocausto. Da uno sbadiglio della Storia. Proprio così, come si conclude l’avventura di una vita, ruotando la mano e chiudendo le dita in un movimento di mezzo vortice, rapido, come un ventaglio che si chiude di colpo, una stretta, una ruga – i vapori della camera a gas». Mi sorprende sempre che per descriverne la personalità, il genio, il verbo, David Gascoyne, il radioso, appartato poeta inglese, sconvolto dall’incontro con Fondane, specifichi che «Era un vogatore assai vigoroso». Vogare, in effetti, è la vera dote del pensiero.




A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 4, aprile 2022, anno XII)