Fabio Francione : «Cerco sempre di tracciare quasi la biografia di una nazione»

Continua la nostra inchiesta, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel campo della critica letteraria, con diversi argomenti di attualità e un'ampia indagine sulla ricezione della letteratura romena in Italia, un tema di particolare interesse per noi.
Ospite dei nostri Incontri critici è Fabio Francione. Scrive per «il manifesto» ed è condirettore della rivista di studi salgariani e popolari «Ilcorsaronero». Si è occupato a vario titolo di Edmondo De Amicis, Emilio Salgari, Giovanni Testori, Franca Rame e Dario Fo, i Mondo Movie e Gualtiero Jacopetti, Andrea Camilleri, Franco Basaglia. Ha inoltre curato libri di Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Antonio Gramsci, Gillo Pontecorvo oltre che la mostra del centenario di Paolo Grassi a Palazzo Reale e l’omonimo libro Paolo Grassi - Senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione. 1919-1981 (Skira). Nel 2020, in occasione del duecentesimo anniversario della nascita del suo autore, ha curato la nuova edizione de La scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi (La nave di Teseo).
La raccolta di Antonio Gramsci dal titolo Concerti e sconcerti. Cronache musicali 1915-1919 (Mimesis, 2022), a cura di Fabio Francione e Maria Luisa Righi, da cui parte il nostro dialogo, è stata presentata nella Settimana Gramsciana, svoltasi a Ghilarza tra il 24 e il 30 aprile 2022.


La raccolta Concerti e sconcerti da lei curata in comunione d’intenti con Maria Luisa Righi si presenta come la prima pubblicazione organica di tutti gli scritti musicali di Gramsci finora individuati sull’«Avanti!»: concerti, opere liriche ed operette. In qual misura si coniugano l’anima dello spettatore e lo spirito combattivo del critico?

Questo progetto è nato per caso, nel senso che, nel 2017, ho licenziato la nuova edizione delle cronache teatrali di Gramsci, che sono, e vale la pena dirlo e ripeterlo, l’unico libro organico fatto ipoteticamente da Gramsci. In realtà Gramsci non aveva raccolto nessun libro, aveva intenzione di farlo durante la detenzione ma poi non ha fatto assolutamente nulla. Non aveva nemmeno intenzione di raccogliere i suoi articoli, però Felice Platone, il primo organizzatore dei quaderni, e Italo Calvino, misero in appendice al volume dei quaderni del carcere del 1950-1951 le cronache teatrali, chiamate così proprio da Calvino, e questa è una cosa molto interessante. All’interno di queste cronache teatrali, io ho notato che c’erano alcune recensioni musicali, allora ho detto a Luisa Righi, che è la tenutaria della bibliografia gramsciana e tra le curatrici della nuova edizione delle Lettere dal carcere nei Millenni Einaudi, uscite poco tempo fa, e anche collaboratrice dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Gramsci: «Ma scusa, non è possibile una cosa di questo tipo: che Gramsci andava a sentire anche la musica ecc.?». E lei dice: «Ma sai che con i nuovi strumenti della filologia – e io ti sottolineo che non sono più quelli tuoi o miei del ’900 – siamo riusciti a capire quali erano gli scritti di Gramsci dedicati alla musica». Li abbiamo raccolti tutti e con questo libro, per la prima volta, abbiamo formato un intero corpo di recensioni dello spettacolo dal vivo. Io ho cercato di dire qualcosa che spostasse realmente la visione di Gramsci e venisse ancorata alla realtà. Ho capito che, anche dal lavoro fatto sul teatro, lui a teatro e nei concerti ci andava soprattutto per piacere, era uno spettatore qualunque, secondo la sua indole intellettuale cercava, con quegli strumenti che gli consentiva l’epoca, di capire la società. C’era di fondo, però, questo piacere.


Quanto ha inciso la professione di giornalista e cronista di spettacoli nell’elaborazione personale di quel lessico filosofico e politico che rese il pensiero gramsciano così autentico e a tutt’oggi foriero di esegesi e suggestioni?

Lui abbandonò, nel 1920, la pratica della recensione quotidiana, se vogliamo un tipo di sua vita teatrale, semplicemente perché venne assorbito completamente dall’attività politica. Continua però a fare il giornalista; e tornando a quelle cronache sembra quasi un giornalismo d’inchiesta, la sua critica spesso travalica anche il senso dello spettacolo stesso, cerca sempre di individuare quella realtà quotidiana che lui cerca di cambiare, o quantomeno di interpretare sempre a suo modo. Poi sai che molte cose venivano anche censurate.


Dimensione politica e interessi privati, si pensi attrattiva per il teatro, s’intrecciano nella vicenda umana di Antonio Gramsci. Guardando all’esperienza intellettuale, quale rilievo assume il rapporto tra Gramsci e la musica?

La moglie suonava e il figlio diventerà un compositore, inoltre tutta la famiglia della moglie era fatta di artisti e musicisti. Nelle testimonianze che ci sono arrivate lui cantava in Sardegna, ma già frequentava il teatro da adolescente, prima di trasferirsi a Torino. Lui è stato venti anni in carcere, però questo momento musicale resta, e lo abbiamo tirato fuori in maniera, credo, originale nella sua lettura.


Negli scritti musicali di Gramsci si affrontano tematiche culturali d’elevato spessore. Come gli argomenti trattati si armonizzano con l’educazione popolare?

L’intellettuale riesce a comprendere il «contadino», l’«analfabeta», il «proletario» fino a un certo punto, però, in Italia, il romanzo non ha attecchito, il vero romanzo italiano non è I promessi sposi, che rimane un unicum gigantesco. Lascia perdere i romanzi storici, lascia perdere gli altri romanzi. Se vogliamo considerare anche lo Zibaldone un romanzo di autofiction, ma poi lo Zibaldone è stato pubblicato agli inizi del ’900, conseguentemente non fa testo come letteratura ottocentesca, noi però il romanzo lo ritroviamo nel melodramma, perciò nella musica, il melodramma è un po’ come le grandi vetrate del Duomo, laddove c’erano le persone che non capivano quello che diceva il prete e quindi lo vedeva dalle immagini. La musica è astratta, uno la capisce, un altro non la capisce, è anche un fattore emotivo, poi se ci metti accanto la parola diventa tutt’altro.


Critico, scrittore, saggista e tanto altro d’affascinante e sontuosamente leonardesco: lei è poliedrico e tentacolare nell’esternazione dei suoi interessi: quanto crede nel sincretismo culturale, nella contaminazione di mondi apparentemente da intendersi come monadi?

La cosa interessante è questa: io fondamentalmente mi ritengo uno scrittore, e uno scrittore usa la parola, solamente che oggi la parola non è esclusivamente quella scritta ma si può esprimere in tantissimi modi: nel cinema, nel teatro, nella pittura, nella televisione, in qualsiasi cosa. Ecco perché poi mi occupo anche della cura di mostre. La mia è, come dire, una scrittura organizzata al servizio di tante arti e se tu guardi tutte le cose che io pubblico cerco sempre di tracciare quasi la biografia di una nazione, la cosa che mi interessa di più è questo grande «viaggio in Italia» e di comprendere attraverso persone e personaggi che cos’è il nostro Paese e perciò uso qualsiasi mezzo ho a disposizione, ma la base è la scrittura, è la parola, è il racconto. Io amo molto il racconto, anche se poi il mio racconto diventa quasi un documentario.


Oggi, in tantissimi scrivono romanzi, tuttavia ben pochi posseggono la contezza dei suoi sviluppi, delle sue ragioni, altresì storiche e, specialmente, della sua necessità. Lo «scrivere» è davvero necessario?

Molte volte qualcuno mi ha chiesto perché non abbia mai scritto la storia di alcune vicende che sembravano interessanti oppure un romanzo di genere. Io, non avendo mai scritto un romanzo, dovrei stare muto e zitto, però ti posso anche dire che conoscendo la gestazione di un romanzo sia di formazione che di genere, hanno una gestazione molto lunga, si progettano due anni prima e spesso lo pubblicano tre anni dopo, soltanto pochi fortunati, chi ha una scrittura rapida può fare una cosa del genere. Dopodiché uno su mille di solito ce la fa, e tu vuoi pubblicare un romanzo e dopo nessuno lo legge, oppure chi lo legge, come viene scritto, viene scritto per essere tradotto. È sempre una questione economica, dopodiché esistono romanzi belli e romanzi brutti, romanzi di intrattenimento e romanzi che, invece, non dicono niente. Di certo il romanzo esiste da sempre, nel momento in cui tu scrivi anche una sola frase, c’è un racconto, che è un racconto che può essere reale o inventato o verosimile. Chiamalo come ti pare però il romanzo esiste ed esisterà sempre.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperita da donne?

Io non faccio alcun tipo di distinzione, per me se tu scrivi sei una scrittrice, non ti definisco come una Elsa Morante che diceva «no, io sono uno scrittore», mi fa ridere questa cosa, si entra in un campo che effettivamente non mi piace. Per me la donna, la femminilità è notevolissima e importante, quando poi si degenera la cosa non mi piace: che si mettano in opposizione le cose. Di certo la donna ha una propria sensibilità e qualche volta ha anche la capacità di essere maschio, l’uomo viceversa. Per quanto riguarda me, non ho alcun tipo di preclusione, di preconcetto, anzi, non me ne frega niente, se una cosa mi piace, mi piace. Poi, va bene, vedo pubblicati più uomini che donne, ma per me non c’è alcun tipo di prevaricazione, non ho proprio questa cosa l’uomo è l’uomo e la donna è la donna, tu stai al tuo posto, il romanzo lo devo scrivere io, non mi importa nulla, se lo scrive una donna va bene, se lo scrive un uomo va bene lo stesso, l’importante è che sia una cosa scritta bene, avvincente, che dia qualcosa, che sia universale.


Francesco De Sanctis scrisse che la letteratura di una nazione costituisce una «sintesi organica dell'anima e del pensiero d'un popolo». Posto che la letteratura siauno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

De Sanctis aveva dietro insegnamenti di una linguistica importante, la Scuola purista di Puoti, la tradizione napoletana, incontra da giovinetto Leopardi, studia Hegel, ha un background enorme, non che non esistessero delle letterature, pensiamo solamente alle grandi lezioni di Foscolo a Pavia, che aveva tentato una prima sistemazione, poi ce ne sono altri nel ’700 che non nomino perché è inutile nominarteli, però lui aveva una idea di nazione, un po’ come I promessi sposi che ti ho detto prima, tutti quegli uomini dell’800 cercheranno di rendere unito uno stato che non sarà mai, a mio avviso, unito. L’Italia è anche un’idea, una grandissima idea. La peculiarità dell’Italia è che ha mille sfaccettature, mille vizi e altrettante virtù, ed è questa la forza dell’Italia, se le persone capissero questa roba le cose andrebbero molto meglio. Non c’è mai stata tanta parola scritta come adesso, pensa soltanto ai whatsapp, ai tweet, al «cosa stai pensando» di facebook, a tutto il mondo del digitale, solamente che si è smaterializzata e può diventare veramente altro, non è più la penna, l’inchiostro, io ancora scrivo ogni tanto con la penna, ma molti miei colleghi usano solo il computer.


La contemporaneità non contempla esclusivamente le opposizioni oralità/scrittura e poesia/prosa, ma anche la possibilità di scelta tra e-book/online e cartaceo, tra letteratura cartacea e digitale. Quanto lo sguardo della critica è condizionato dal profumo della carta stampata o, viceversa, dalla comodità del digitale?

Secondo me non è influenzata per niente. Dipende dal fatto, lo dico per esperienza, dallo spazio della casa. La casa è grande e tu vuoi farti una bella biblioteca, allora accogli tutti i libri del mondo, se hai una casa piccola il digitale ti aiuta molto. Non c’è nessuna differenza, ci sono, poi, talmente tante uscite di libri che non puoi starci dietro, il capolavoro non lo individui, è semplicemente un’azione di marketing che ti dice che Elena Ferrante è un capolavoro.


Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione dei primi libri della cosiddetta letteratura della migrazione. Pensa che ci sia sufficiente attenzione su di essa? Ritiene inoltre che abbia avuto qualche influenza nella produzione letteraria degli autoctoni?

Ci sono delle case editrici che continuano a scoprire, per esempio La nave di Teseo, per cui io pubblico, ha una branca che si dedica alla letteratura colonialistica, pensa solo a Gurnah, l’ultimo premio Nobel, che viene ristampato e le cui traduzioni vengono riviste, veniva pubblicato dalla Garzanti, la Garzanti se n’è liberata molto in fretta perché non vendeva niente, però ci sono case editrici specializzate e altre che tendono a scoprire la letteratura colonialista, soprattutto africana, anche dal punto di vista filosofico e architettonico, per esempio Kéré, che è un grandissimo architetto, che usa il legno, usa tutto un materiale di riciclo, usa tutta un’idea molto ecologica dell’architettura, non è il solo ovviamente, ha vinto adesso il Pritzker, che equivale al premio Nobel per l’architettura. Già Pasolini, per evocare uno che oggi va per la maggiore, individuava nel continente nero la possibilità di uno sviluppo ulteriore. Io sinceramente non sono mai stato in Africa, per quello che posso vedere e leggere, mi sembra che bisogna andarci, ritengo che ci siano tante cose nuove ma anche tante cose che non vanno bene, l’Italia è un paese subalterno, non è che siamo tanto indipendenti dal punto di vista economico e sociale.


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2022. In che misura pensa sia conosciuta in Italia anche tra i non addetti ai lavori?

Confesso che conosco qualche autore, non li conosco tutti, però, a parte il fattore linguistico, molti docenti, professori, intellettuali italiani frequentavano la Romania, pensa solamente a Petronio, mi sembra che insegnasse a Iași. Non so risponderti, però le letterature europee sono, come dire, lente e vengono diffuse, naturalmente la diffusione per voi è ben diversa da quella che posso avere io. Una cosa importante, per dirti, piuttosto che la letteratura, è il cinema romeno. Il cinema romeno ha una grande forza evocativa.


Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, sono autori che, trascendendo il tempo e lo spazio, hanno narrato la burrascosa storia della Romania. Ebbene, le sono noti e ci sono scrittori romeni che hanno attirato la sua attenzione?

Tutti quelli che mi hai citato li ho letti, li ho letti come si legge curiosamente la letteratura che è al di fuori dell’Italia, dopo trovi delle affinità e trovi delle cose che invece non ti appartengono, però tu hai citato degli autori che affrontano temi universali e dunque inattuali, di certo la Romania non ha vissuto periodi, come dire, felici nel ’900, però adesso credo che sia consolidata, un po’ come avvenuto per gli albanesi e le comunità arrivate in Italia negli anni 90 del ’900.






A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 5, maggio 2022, anno XII)