Federica Iacobelli: «Leggere e scrivere sono azioni e passioni che mi accompagnano da sempre»

Nella serie Femminile plurale ospitiamo a maggio Federica Iacobelli, nata a Roma nel 1975, scrittrice, sceneggiatrice e drammaturga. Insegna sceneggiatura all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (ISIA) di Urbino e scrittura e drammaturgia in corsi di alta formazione e universitari. Ha scritto racconti, romanzi, testi teatrali, script per film documentari, film d’animazione e programmi tv. Ha pubblicato, tra gli altri, Uno studio tutto per sé. Storie di arte e di amicizia (Motta Junior, 2007, Premio Pippi scrittrici per ragazzi 2008), Mister P (illustrato da Chiara Carrer, Topipittori, 2009), La città è una nave (Topipittori, 2011). Del 2019 è il picture book Giulietta e Federico (Camelozampa), con le illustrazioni di Puck Koper.
Della sua molteplice attività professionale, dell'attuale status della letteratura esperìta da donne e del fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della scrittura declinata al femminile, nell’ampia intervista che qui pubblichiamo.


Federica, lei è scrittrice, sceneggiatrice e drammaturga. Quali sono gli elementi peculiari della sua espressione nei vari ambiti in cui spazia?

I diversi ambiti in cui spazio, per dirla con la sua domanda, sono in realtà declinazioni differenti di un unico strumento di lavoro: la scrittura. Leggere e scrivere sono azioni e passioni che mi accompagnano da sempre o quasi: e leggere, in verità, più che scrivere. Poi, un po’ anche per caso come accade, in accordo con certe mie inclinazioni ma pure con certe mie ferite, o mancanze, la scrittura è diventata la base del mio lavoro. In origine c’era stata un’ulteriore declinazione, quella del giornalismo, che ho studiato dopo la laurea e che ho per qualche anno praticato mentre cominciavo a scrivere e pubblicare i primi libri con editori per l’infanzia e per i ragazzi. Poi ho frequentato una scuola di alta formazione in sceneggiatura che mi ha portato a sperimentare presto anche una scrittura diversa dalla letteratura, funzionale, applicata, e in questo senso più vicina a quella che già di tanto in tanto sperimentavo collaborando con registi o attori teatrali: una scrittura che non creava opere di parole ma strutture che con le parole costruissero personaggi, atmosfere, storie da incarnare e far vivere e raccontare attraverso linguaggi altri dalla scrittura. Il lavoro della sceneggiatura, che è sempre o quasi lavoro di gruppo, a più mani, si nutre per me anche dell’insegnamento all’ISIA di Urbino, dove incontro il lavoro visivo di disegnatori, illustratori, animatori e grafici, dove posso conoscere e studiare i libri illustrati e il cinema, e dove rifletto con studenti e docenti sui racconti per immagini, fisse o in movimento, e sul loro rapporto con la letteratura. Insomma, è difficile per me separare in compartimenti le diverse declinazioni del mio mestiere di scrivere. Penso che l’una nutra l’altra, inevitabilmente, e che in ciascuno dei miei lavori risuonino anche gli altri.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è lo status della letteratura esperìta da donne, e in particolare della scrittura drammaturgica, ai nostri giorni?

Scritture di donne ne leggo da sempre e in abbondanza, anche perché spesso, quando il mio lavoro è o è stato collettivo, è stato ed è in gruppo con altre donne. E dicendo ‘letterate’ penso non solo alle scrittrici vere di finzione, le romanziere, le narratrici, le poetesse, ma anche alle studiose, alle saggiste, alle traduttrici, alle curatrici, così come a certe sceneggiatrici e drammaturghe e attrici-autrici. Dai miei venticinque anni a oggi, nei vent’anni del nuovo millennio, ho visto certamente cambiare il peso pubblico delle presenze femminili nella letteratura e non solo. Nei primi anni zero la situazione mi sembrava ancora quella di fine secolo scorso, per cui una rivista dedicata alle scritture femminili passate e contemporanee come «Leggere Donna», che scoprivo da adolescente negli anfratti di una libreria napoletana oggi scomparsa, poteva figurare al pari di una lettura letteraria clandestina o comunque di nicchia. Negli ultimi anni invece, tra il secondo e il terzo decennio del Duemila, l’attenzione alle donne come intellettuali e artiste è cresciuta e si è diffusa a livello popolare anche a partire dalla conquistata consapevolezza di una storia di disparità e diversità culturale e di genere. Però, al di là di quanto emerge pubblicamente, a me pare che sotterraneo, invisibile, il brulicare delle letterate sia sempre esistito. E se è vero che la rilevanza pubblica implica la possibilità di un potere, è vero anche che lo sguardo delle letterate in tempi più o meno recenti è stato quello del margine, dell’altrove, del differente, di chi insomma il potere lo osservava da lontano, di sbieco, in contrasto. Certo in questa acquisizione di potere, se davvero è tale, da parte delle cosiddette letterate, scorgo di tanto in tanto il nascere di una rete di confronto, di scambio, a volte di solidarietà. E però insieme, di tanto in tanto, vedo anche il pericolo che col potere lo sguardo si offuschi, si corrompa, non resti libero e divergente come sempre lo sguardo di un letterato, uomo o donna che sia, dovrebbe rimanere. Quanto allo specifico della scrittura drammaturgica, valgono in generale le cose dette sopra, con in più il privilegio della lettura di autrici (e autori) italiani e stranieri meno noti dall’osservatorio che mi offre, da due anni a questa parte, il ruolo di direttrice e curatrice di una piccola collana di letteratura teatrale per giovani lettori. In questa ricerca, le letterate sono per me soprattutto le traduttrici, che hanno un ruolo fondamentale nel far circolare testi altrimenti nascosti, come quelli delle giovani drammaturghe russe contemporanee, o delle sceneggiatrici maltesi, o delle autrici teatrali cubane: le prime molto legate al racconto degli orrori della guerra, le seconde all’incontro con l’adolescenza e al multilinguismo, le terze a una grande conoscenza anche teorica degli strumenti del linguaggio teatrale in relazione al pubblico di bambini e ragazzi.


Lei si è occupata anche della voce femminile alle prese con l’arte visiva. Quindi, arte e donna nella storia. Qual è, a suo avviso, la chiave di lettura di questo binomio?

Della voce femminile alle prese con l’arte visiva mi sono occupata, in effetti, in momenti diversi del mio cammino: diversi anche culturalmente, stando a quanto dicevo prima. La prima volta è accaduto nel 2006, con un racconto lungo pubblicato dall’editore Mottajunior nella collana l'occhiotattile diretta da Grazia Gotti; la seconda volta dieci anni dopo, nel 2015-16, con un testo teatrale scritto a quattro mani con  l’attrice-autrice Marinella Manicardi. Noto, nel dirlo, che in entrambi i casi lavoravo con donne sulle donne. Il libro, intitolato Uno studio tutto per sé e vincitore allora del premio letterario nazionale Pippi-Scrittrici per ragazzi, nasceva come commissione all’interno di un catalogo di racconti lunghi illustrati in cui scrittori più o meno esordienti provavano a raccontare vita e opera di alcuni grandi artisti visivi a un pubblico che fosse anche di ragazzi. Io ero stata già autrice del primo titolo, dedicato a Michelangelo Buonarroti: un racconto che avevo molto amato scrivere. Ma poi mi ero trovata di fronte a una nuova commissione che tenendo le stesse misure, cinquanta cartelle di testo per circa cento pagine fatte anche di immagini riprodotte e trattate in grafica, mi chiedeva di raccontare non una vita e le relative opere, ma vita e opere di una trentina di pittrici, scultrici, illustratrici donne: tutte insieme in cinquanta cartelle! Essendomi la richiesta parsa ingiusta e assurda, avevo deciso di fare di quel sentimento di incomprensione e indignazione il cuore del mio racconto, unica condizione possibile per poterlo scrivere, e avevo inventato tre personaggi di ragazzine, aspiranti pittrici o scultrici o disegnatrici, che si scambiavano lettere elettroniche sulla vita e sull’opera delle loro artiste di riferimento, o di quelle che studiando o viaggiando andavano scoprendo, per sopperire alla mancanza di una bibliografia sulle donne artiste.
La pièce, invece, intitolata Nelle mani di Anna e vincitrice di una menzione speciale al premio internazionale di drammaturgia «La ecritura de la(s) diferencia(s)», traeva origine dal desiderio di raccontare una delle tante artiste che non erano entrate in quel libro di dieci anni prima, la dimenticata, ma all’epoca famosa nel mondo, ceroplasta e scienziata autodidatta del Settecento bolognese Anna Morandi Manzolini, narrando nel contempo i tanti possibili fili tesi tra l’arte e la scienza, tra il lavoro e l’utopia, tra l’essere madre e l’essere intellettuale, tra l’essere amante e l’essere moglie, e tutto questo attraverso la messa in scena di un incontro immaginario e misterioso di Anna, appunto, con la letterata e matematica francese illuminista Émilie du Châtelet. Era stato, ricordo, appassionante e istruttivo provare a scandagliare, attraverso la vita e l’opera di due donne diverse ma unite da un amore profondo per la conoscenza – una nata povera e l’altra ricca, una religiosa e l’altra laica, una vedova e madre di otto figli di cui sei morti da piccoli e l’altra morta di parto ultraquarantenne dopo aver lasciato un marito e un primo amante – la complessità dello status di donna scienziata, letterata, artista, in una società lontana ma non così tanto dalla nostra. Inevitabile, insomma, in entrambi i casi, perché entrambi legati alla storia della scienza, del pensiero e dell’arte, legare la finzione del racconto alla condizione della donna in una società di uomini.


Le autrici di opere letterarie e artistiche sono sempre state sensibili a diverse ideologie, visioni del mondo, sensibilità politiche e filosofiche; personalità diverse tra loro e spesso assolutamente inconciliabili. Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime, anche nello specifico della scrittura drammaturgica?

Un filo rosso in questo senso faccio fatica a scorgerlo, devo ammetterlo, al di fuori di quegli elementi, tutto sommato esterni, a cui facevo riferimento nelle risposte precedenti. Non a caso mi sono interessata alla letteratura delle donne in quanto donne tra i miei quindici e vent’anni, in un momento di ricerca identitaria in cui comunque già leggevo da una parte Elsa Morante, Lalla Romano, Simone de Beauvoir, Luce d’Eramo, Bette Bao Lord, Margaret Mitchell, Astrid Lindgren, George Sand, e dall’altra comunque e sempre anche Alberto Moravia, Carlo Cassola, Sergio Corazzini, Carlo Sgorlon, Giorgio Bassani, William Styron, Stendhal, Balzac, Hugo (tutte e tutti citati in ordine sparso!)... Ho sempre in mente una dichiarazione di Natalia Ginzburg che, interpellata in un’intervista sulla peculiarità della scrittura femminile, rispondeva che quando si scrive, quando si crea, si è uomini e donne nello stesso tempo: un’osservazione che va incontro agli studi psico-socio-analitici sulla bisessualità dell’artista, e che getta una luce più sfumata e vera sui personaggi femminili della stessa Natalia Ginzburg, così lontani da una certa idea di emancipazione del femminile ma insieme così vibranti, struggenti. Proprio pensando ai personaggi, penso anche a un possibile, per quanto labile, filo rosso tra le diverse e spesso distanti unicità di letterate e artiste: il filo delle personagge, per dirla con un neologismo molto recente. Mi pare, infatti, che le scrittrici di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, abbiano dato e diano vita più costantemente a personaggi femminili originali, sfaccettati, a volte indimenticabili. E c’è anche qualcuno, come la scrittrice Alessandra Sarchi nel podcast Vive! scritto per l’attrice Federica Fracassi, che fa rivivere ‘donne’ nate dalla penna di scrittori uomini dando loro un destino nuovo che sia meno punitivo, meno oscuro, meno inconsapevole, a volte meno ingiusto.


La sua produzione vanta una fruttuosa collaborazione con Chiara Carrer, una delle illustratrici italiane più conosciute e apprezzate nel mondo. Come è avvenuto e si è poi sviluppato il vostro incontro?

Chiara Carrer è una grande artista visiva, una visionaria, una persona dalla sensibilità speciale, sempre e da sempre al di fuori delle mode e dei piccoli e grandi poteri che in ogni ambiente si condensano e raggruppano. Ed è un dispiacere che negli ultimi anni non si siano create le condizioni per continuare la nostra collaborazione, pur essendo rimaste intatte sia la nostra amicizia sia la condivisione di punti di vista nel comune insegnamento all’ISIA di Urbino. Il mio incontro con Chiara è avvenuto con il mio primo libro, che è stato quindi anche il primo libro fatto insieme: il racconto lungo illustrato La piccola Anna e il piccolo Hans, pubblicato da Giannino Stoppani Edizioni nel 2005. In questo senso, Chiara è stata ed è per me anche una ‘maestra’, com’erano all’epoca le nostre editrici, che non a caso ebbero l’intuizione di farci incontrare. Intorno a quel mio primo racconto edito, che pur acerbo conteneva i semi di certe passioni comuni, come quella per il teatro, si formò un terreno di lavoro insieme che andava al di là dei singoli libri da fare ed era ed è piuttosto una riflessione sul senso dei nostri mestieri, sul rapporto tra il testo di parole e quello di immagini, sulla continuità e sulla rottura con alcune tradizioni, sui rapporti con il mercato, con gli editori, con i lettori, e sull’equilibrio tra l’amore per il lavoro e quello per le persone intorno a noi nell’esistenza quotidiana. La collaborazione è continuata in quegli anni con alcuni albi illustrati tra cui Chiudi gli occhi e sogna per l’editore Mottajunior, Mister P per Topipittori, Il dono di Alma per il fu editore Principi e Princìpi.
L’albo è un genere letterario davvero difficile: ciascuno di questi libri è stato per me un esperimento, un'avventura e una prova di scrittura letteraria ma anche funzionale, di sceneggiatura. Con Chiara si lavorava da subito insieme, fin dal concept, e il testo di parole cambiava via via che nasceva e cambiava il testo delle immagini, la sequenza delle tavole. Avevamo in quel periodo, ricordo, anche un progetto di racconto in parole e immagini fuori dai formati abituali, Prigioniera di me stessa, che è poi rimasto uno studio, un progetto. E sempre in quegli anni, tra il 2006 e il 2011, abbiamo collaborato anche a teatro: Chiara è stata l’autrice delle scenografie per Asteroide Lindgren, un'operina da camera scritta da me con il compositore Daniele Furlati e messa in scena dalla regista Elisabetta Lodoli; ha creato un piccolo prologo visivo per le Novelle fatte al piano, un melologo tratto dalle Novelle fatte a macchina di Gianni Rodari e sempre scritto da me con Furlati; e ha ideato le cartoline dello spettacolo Mappe per signora che avevo composto a quattro mani con Marinella Manicardi.


Il picture book Giulietta e Federico (Camelozampa, 2019) è poi disegnato da Puck Koper, astro nascente dell’illustrazione sulla scena internazionale, originaria di Rotterdam. Qual è la cifra comune che avete trovato per rendere omaggio all’indimenticabile storia di Cico e Pallina?

Mi sembra incredibile aver incontrato Puck Koper di persona solo all’ultima Children’s Book Fair, neanche un mese fa, con grande gioia da parte di entrambe. Prima, non ci eravamo mai viste. E io a dire il vero non conoscevo neanche il suo lavoro, che era stato affiancato al mio per l’editore Camelozampa per un’intuizione di Grazia Gotti. All’albo Giulietta e Federico avevamo quindi lavorato a distanza, dialogando tra noi, tra Bologna e Rotterdam, e poi con le nostre editrici venete, via via che lo storyboard e poi le singole tavole nascevano a partire dalla prima stesura della mia storia. Avremmo dovuto presentarlo insieme, nel 2020 e non solo, ma l’uscita del libro è avvenuta appena un mese prima dell’inizio della pandemia, ragion per cui ogni occasione è svanita. Eppure è vero, nonostante tutto, che da paesi, da culture, da formazioni e immaginari diversi Puck e io abbiamo trovato in qualche modo una cifra comune. Credo che in questo abbia giocato il fatto di partire entrambe da una lontananza rispetto all’immaginario di riferimento della nostra storia, che è ispirata all’unione e all’amore, nella vita e nel lavoro, tra il regista di cinema Federico Fellini e l’attrice Giulietta Masina. Per quanto mi riguarda, sono riuscita a entrare davvero nell’opera di Fellini solo da grande, mentre da bambina ne ero stata affascinata senza capirla e a vent’anni non avevo saputo né comprenderla né amarla. E anche il corpo, la voce, la personalità di Masina li ho colti da adulta, ipnotizzata soprattutto dalla sua interpretazione in quell’opera sublime che è Le notti di Cabiria. Per quel che riguarda Puck, che poco più che ventenne lo è ancora, l’immaginario tutto italiano e tutto novecentesco di Fellini lo ha conosciuto davvero per fare il nostro libro. Ciò vuol dire che, per lavorare al nostro albo, ci siamo re-immerse entrambe in quel mondo, abbiamo visto o rivisto e letto o riletto tutto il possibile proprio in quei mesi, gli stessi per entrambe. Il nostro commentario comune è consistito negli scambi tra testo di parole e bozze di immagini, innanzitutto. E quella cifra, comune nello stupore e nell’intenzione, è diventata anche complementare nel confronto tra un testo di parole denso, a tratti esoterico, e un testo di immagini aereo, giocoso, leggero: due anime in qualche modo corrispondenti ad alcuni dei toni e dei temi dominanti del ‘paese felliniano’ di riferimento.


Dalla sua prospettiva, come cambia la vita per mezzo della letteratura e come vede il rapporto tra il vero della realtà e l’invenzione dello scrittore/artista?

Questa domanda è più difficile delle altre, per me che ho vissuto il primo incontro con la letteratura anche come un rifugio dalla vita, credo, un modo per poter assaporare ed esprimere attraverso altri mondi, altri personaggi, sentimenti altrimenti indicibili. Una forma di silenzio, per così dire, di fronte alle parole altrui che permettono l’espressione anche propria ma muta, l’esplosione senza boato e senza conseguenze sul prossimo. O forse le conseguenze per il prossimo stavano nell’isolamento che ne conseguiva, nell’afasia che accompagnava quella me adolescente se non ero impegnata a leggere o a scrivere. L’alternativa era impegnare il corpo: l’esercizio sportivo, che è egualmente afasico, una sfida con se stessi più che altro. Ma divago. Posso dire che la letteratura mi ha cambiato la vita nella misura in cui è entrata nel mio lavoro: nella misura in cui non ho saputo o potuto imparare un lavoro che fosse almeno un po’ più lontano da quei territori scoperti ed esplorati fin dall'infanzia. Ma non ho mai considerato in contrasto il vero e l’invenzione. Quei mondi creati con le parole, fin dal principio mi sono parsi creazioni strettamente legate alla realtà, ovvero all’umanità. E quando dall’umanità mi apparivano lontani, allora smettevano di essere veri, ovvero non potevo più considerarli delle invenzioni riuscite. In questo senso, trovo sempre molto nutrienti e istruttive le occasioni di quelle commissioni o di quelle forme narrative che mi obbligano a partire dai documenti, dalla realtà per eccellenza insomma, per ‘inventare’ la finzione del racconto.


Posto che la letteratura sia uno specchio della rispettiva società in un tempo definito e che varia di opera in opera, quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Se parliamo di scrittura, intesa come l’atto di scrivere, il momento storico che viviamo la vede proliferare: tutti o quasi tutti scrivono, tutti o quasi tutti vogliono scrivere. Mentre la letteratura perde peso, la scrittura come espressione e comunicazione di sé, del ‘personaggio di sé’ e della propria opinione, ma anche come storytelling, come contenitore di trame, si prende sempre più spazio negli spazi del nostro quotidiano. E questo fenomeno è senz'altro uno specchio del nostro tempo nella nostra società occidentale e ‘democratica’. Se però parliamo di letteratura, allora la mia indole, unita alla mia piccola esperienza, mi conduce a sentire e a credere che quando si crea, così come si è uomini e donne insieme, si sia anche appartenenti a più tempi, a più epoche nello stesso momento. E forse per questo mi accade di trovarmi tanto d’accordo con Edward Morgan Forster, il letterato e scrittore inglese che un secolo fa, nelle conferenze raccolte sotto il titolo di Aspects of the novel - Aspetti del romanzo, proponeva un itinerario in cui (cito dalla traduzione di Corrado Pavolini) «non possiamo accettare di suddividere la narrativa in periodi e ci rifiutiamo di contemplare il fiume del tempo. Un’altra è l’immagine che si adatta alle nostre possibilità: l’immagine di tutti i romanzieri intenti a scrivere i loro romanzi in uno stesso momento. Essi provengono da epoche diverse e da ceti sociali diversi, hanno temperamenti diversi e diversi scopi, ma tutti tengono la penna in mano e sono assorti nel processo creativo. Guardiamo un momento al di sopra delle loro spalle e vediamo che cosa scrivono. Con questo gesto potremo forse esorcizzare il demone della cronologia che è attualmente il nostro nemico, e che talvolta è anche il loro».





Foto della scrittrice: © Margherita Caprilli



A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 5, maggio 2022, anno XII)