Ingrid Beatrice Coman-Prodan: «L’italiano è una lingua che ti danza sotto la penna»

In questo numero pubblichiamo un’inchiesta esclusiva sulla scrittura migrante romena in Italia, alla quale la nostra rivista dedica una sezione speciale e un database in costante aggiornamento. Abbiamo intervistato nove fra gli autori più attivi del momento, che rappresentano una realtà complessa e variegata: c’è chi scrive solo in italiano e chi scrive e pubblica in entrambe le lingue, c'è anche chi traduce libri romeni in italiano, c’è chi vive in Italia da più di vent’anni e chi è tornato a vivere in Romania dopo vent’anni oppure vive tra i due paesi. C’è chi scrive soprattutto poesia e chi predilige la narrativa. Quanto alla distribuzione di genere, la maggior parte sono donne.
I nostri ospiti sono: Ingrid Beatrice Coman-Prodan, Alexandra Firiţă, Lăcrămioara Maricica Niță, Lucia Ileana Pop, Lidia Popa, Irina Ţurcanu, Alina Monica Ţurlea, Viorel Boldiş e Cristina Stănescu, scrittrice di origini romene. Insieme a loro ci interroghiamo sui significati più profondi della scrittura in una lingua diversa da quella di origine, la lingua del paese di adozione, sulle principali tematiche affrontate e sulle peculiarità della loro creazione letteraria.
Tutti i contributi sono riuniti nel nostro spazio appositamente dedicato, consultabile qui.

Ingrid Beatrice Coman-Prodan è una scrittrice di lingua italiana, inglese e romena. È nata nel 1971 a Tecuci, in Romania, e nel 1995, a ventitré anni, lascia la sua terra e si trasferisce in Italia, dove continua gli studi e si dedica alla passione per la letteratura. Inizia ad adottare l’italiano come lingua di scrittura e frequenta laboratori di narrativa, tra cui quello dello scrittore Raul Montanari, e di sceneggiatura cinematografica, tra cui quello della Holden di Torino.
I suoi scritti affrontano soprattutto temi sociali, storici e psicologici, con una particolare attenzione alle figure umane solitamente lasciate nell’ombra, i cosiddetti eroi minori, ingiustamente dimenticati, che però hanno lasciato un segno profondo nel complicato tessuto della coscienza collettiva.
In italiano ha pubblicato sette libri: La Città del Tulipani, romanzo (Luciana Tufani editrice, Ferrara, 2005); Tè al samovar. Voci dal gulag sovietico, romanzo (L’Harmattan Italia, Torino, 2008, riedito da edizioni Rediviva Milano, 2015); Non spegnete la luce, antologia de novelle e teatro (Ed. La Memoria del Mondo, Milano, 2008); Dodici più un angelo (Ed. Ellin Selae, Cuneo, 2012); Satul fără mamici / Il Villaggio senza madri, racconti, bilingue (Ed. Rediviva, Milano, 2012); Per chi crescono le rose (Rediviva, 2013); Badante pentru totdeauna / Badante per sempre, romanzo, bilingue (Rediviva, 2015).
In romeno ha pubblicato quattro libri: Ceai la samovar, romanzo (Ed. Vremea, 2015, trad. dall'italiano di Anca-Irina Ionescu); Badante pentru totdeauna, romanzo (Ed. Eikon, 2021); Satul fără mămici, novelle (Ed. Eikon, 2021), O mie de ani fără o zi, romanzo (Ed. Integral, 2022).
Ha tradotto sei libri romeni in italiano: Doina Ruști, Lisoanca (Rediviva, 2012), Stelian Țurlea, In assenza del padre (Rediviva, 2012), Bujor Nedelcovici, La mattina di un miracolo (Rediviva, 2014), Micaela Ghițescu, Tra oblio e memoria (Rediviva, 2014); Duiliu Zamfirescu, La vita in campagna (Rediviva, 2022),  Stelian Ţurlea, La colonia (Rediviva, 2023).
È presente in numerose antologie, volumi collettivi e riviste letterarie italiane e romene. Nel 2019 è tornata a vivere in Romania.


Come ti definisci, scrittore/scrittrice «migrante», «italofono/a» o in un altro modo?

Scrittrice. Penso che basti così. Con il senno di poi, a distanza di anni da quando ho cominciato a scrivere in italiano, trovo queste divisioni e definizioni un po’ fuori dalla realtà. Quando ero in Italia, un po’ mi sentivo soffocare dalla definizione di scrittore migrante. Era come se ci si aspettasse da noi di scrivere sempre delle stesse cose, come in una specie di riserva letteraria. C’era un certo stupore nella reazione di chi si imbatteva in temi diversi nei tuoi scritti. Le donne afghane? Il gulag? Perché mai dovresti sprecare tempo su queste cose? Alzavo le spalle, perché non c’è risposta a domande che non andrebbero fatte. Per prima cosa, il tempo della scrittura non è mai sprecato, se la tua penna si sofferma con la stessa compassione sulla storia che intendi raccontare; a volte il tempo della scrittura coincide con il tempo della memoria, della resistenza all’oblio, dell’attaccamento ostinato alla verità. E poi, uno scrittore scrive delle cose che più gli stanno a cuore, scrive delle cose che gli fanno male, che lo disturbano, che lo spingono in avanti a protestare contro il silenzio e la solitudine di quelli lasciati indietro. Oggi che sono rientrata in Romania, dunque non scrivo più in terra altrui, come si potrebbe dire, mi rendo conto che forse sono più migrante che mai e che tutti gli scrittori lo sono, in fondo. Si migra sempre, nella storia dei tuoi simili, in terra lontana o vicina, nel tempo, nell’animo umano, per poter cogliere e raccogliere le proprie storie e restituirle alla carta. A volte sei migrante non solo nella propria terra, ma anche nella propria anima, e più passa il tempo più ti rendi conto che migrante è un modo di essere al mondo.  


Che cosa differenzia uno scrittore «migrante» da uno «stanziale»?
 
Alla fine non molto, come dicevo prima, ma per far confluire le due definizioni bisognerebbe far confluire il vissuto contenuto in entrambe. Puoi essere entrambe le cose in tempi diversi della tua vita, e poi portarti tutto dentro e scrivere da lì. Gli scrittori migranti vengono toccati da temi che per un po’ coincidono con la propria storia di viaggiatori nel mondo, scrivono sempre dell’amaro pane altrui e della lontananza, della malinconia e del vuoto lasciato dalla casa rimasta lontano. A volte lo fanno con una scrittura struggente che ci trascina tutti nella loro storia, ci fa sentire il dolore come se fosse il nostro. Tutta la letteratura migrante che mi è capitato di leggere si ritrova sugli stessi temi. Non finisci mai di imparare, di rispecchiarti nelle loro storie, e in questo sta la ricchezza che ci offre la letteratura migrante. Lo scrittore stanziale dovrebbe, di riflesso, scrivere di cose pertinenti all’area geografica e culturale dove ha deciso di fermarsi, ma poi nemmeno questo è vero, perchè ho incontrato scrittori italiani che scrivevano di cose lontane con una penna così autentica e veritiera da farti desiderare di andarci. Non vedo grande differenza, se non nelle cose che ti toccano dentro, che ti piegano e ti spingono alla scrittura, alla testimonianza, alla storia, allo spargimento di... inchiostro.


Quando hai cominciato a scrivere in italiano e perché?

Da subito, appena arrivata in Italia, solo che le mie erano storie scarabocchiate in una lingua sbavata che ancora non conoscevo bene, e che si appoggiava al romeno per poter camminare, riempiendo le mie pagine di parole mischiate e incomprensibili. Oggi reputo quello zoppicare nella lingua altrui una meravigliosa scuola di scrittura e di vita. Bisogna tentare, sporcarsi le mani, accettare che non sai ancora camminare bene e che inevitabilmente cadrai e ti farai male, e che il male è anche lui parte della tua crescita.


Quanti e quali libri hai finora pubblicato?

Non so mai rispondere a questa domanda. Una diecina, forse.


Quali sono i temi più ricorrenti nei tuoi scritti?

L’animo umano, il mistero della vita, il senso del nostro vissuto, il mal di vivere, l’aspirazione verso qualcosa di più alto, più nobile, mentre combattiamo con il nostro dolore quotidiano e a volte la tragedia di essere nati esseri umani, mortali e imperfetti, ma con una nostalgia quasi insopportabile del divino.


È stato difficile trovare un editore in Italia?

Sì. Lo è sempre, in ogni paese. Hai bisogno di qualcuno che ti veda e che ti apprezzi come autore, che creda in te e che ti dia un’opportunità. A volte passa una vita prima che il tuo manoscritto di approdi sul tavolo giusto.


Hai partecipato a concorsi e festival letterari in Italia? Come promuovi i tuoi libri?

Non sono molto amante dei concorsi letterari. Per quanto riguarda la promozione dei miei libri, ammetto che non faccio quanto forse andrebbe fatto. Ma se ci sono presentazioni, le faccio sempre volentieri. Niente vale di più di un incontro reale con un lettore autentico. Diventa come un compagno di viaggio.


Hai anche tradotto libri romeni in italiano?

Certo, è una cosa che amo molto e in cui credo. Vale sempre la pena promuovere i nostri scrittori. Io ho tradotto La mattina di un miracolo di Bujor Nedelcovici, In assenza del padre di Stelian Turlea, Lisoanca di Doina Rusti, Tra oblio e memoria di Micaela Ghitescu, La vita in campagna di Duiliu Zamfirescu, La colonia di Stelian Turlea.


Cos’è più complesso, secondo te, scrivere o tradurre in italiano?

Entrambe le cose hanno il loro grado di complessità, ma ognuna di loro spazia in dimensioni diverse. Come scrittore, ti azzardi in terre vergini a cercare il filo delle tue storie, ti lasci andare e puoi vivere il miracolo e la follia della tua narrazione a modo tuo, con animo selvatico e desideroso di riscoprirsi sempre. Nella traduzione, pur mantendendo una certa impronta narrativa che ti è propria, devi assecondare il pensiero dell’autore, restargli vicino, cogliere ogni sfumatura, senza però prenderti alcuna libertà di interpretazione. Rispettare il suo stile, rientrare nelle sue metafore, non farle tue. Non è cosa facile, soprattutto per uno scrittore. Come camminare sulla fune. Se perdi l’equilibrio, crolla tutto. Sono due strade diverse che si prendono. Ma non puoi fare a meno di portarti dietro la tua sensibilità nella traduzione.


Scrivi anche in romeno e pubblichi anche in Romania?  

Ovviamente. La mia lingua mi riconosce ancora e forse mi ha perdonato per tutto il vagabondare in giro per il mondo. Scrivo con una parte di me che non credevo più di avere: quella parte che sa di sangue e di radici, di malinconia e amore che si alza come vapore direttamente dalla terra, di suoni e di musiche remote, impossibili da riprodurre e tradurre.


Cosa significa per te scrivere in italiano rispetto a scrivere in romeno?

Ogni lingua è una dimensione diversa. Come aprire una porta e sbucare in un mondo di Alice nuovo, misterioso. Ogni lingua è un mondo diverso e raccontarlo chiama un tipo di narrazione diverso. Il melodioso verbo italiano, nel senso ampio della parola, plasma la mia scrittura e la fa scorrere in un determinato modo. L’italiano è una lingua che ti danza sotto la penna. Il romeno invece ti graffia direttamente sul cuore, perchè chiama fuori la scrittura dagli angoli più remoti della tua anima.


Quali sono i tratti peculiari del tuo linguaggio? Inserisci nei tuoi scritti anche parole romene o voci dialettali della regione italiana in cui vivi?

No, non credo di averlo mai fatto. L’italiano offre tutto ciò di cui potresti avere bisogno per modellare la tua storia. Si possono inserire forme dialettali o parole romene, ma perché l’hai deciso tu e la scelta arricchisce il tuo personaggio e la tua storia, non perchè sei a corto di parole.


Sei tornata a vivere in Romania dopo 24 anni, perché?

Sì, l’ho fatto, anche se non so spiegare in una maniera razionale perché. Qualcosa in me si è spezzato e la voglia di casa e diventata più struggente della voglia di restare.


Quale potrebbe essere, secondo te, il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

La scrittura dovrebbe essere prima di tutto al servizio della verità. Lo scrittore dovrebbe avere l’occhio attento e lo sguardo in grado di andare oltre le apparenze e i fatti ambigui e scivolosi che ci vengono proposti, spogliare la realtà di menzogna e farsi ambasciatore tra ciò che siamo e ciò a cui aspiriamo.



A cura di Afrodita Carmen Cionchin
(n. 3, marzo 2023, anno XIII)