Luca Ricci: «Uno scrittore è in analisi perenne presso sé stesso»

La sezione Scrittori per lo Strega della nostra rivista, a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, si apre all’edizione n. 76 del Premio, avviata con le segnalazioni iniziate lo scorso primo febbraio. A partire dal numero di marzo vi proponiamo una nuova serie di incontri con gli scrittori segnalati e i loro libri, allargando ovviamente lo sguardo ad altri argomenti di attualità.
Luca Ricci, pisano e classe 1974, è è segnalato per il romanzo Gli invernali (La nave di Teseo, 2021). Dopo Gli autunnali (2018) e Gli estivi (2020), questo terzo tassello della quadrilogia delle stagioni ha un ritmo ancora più incalzante ed è capace d'indagare le ragioni più profonde che muovono le donne e gli uomini. Il romanzo è presentato da Guido Davico Bonino: «Gli invernali di Luca Ricci è la tavola periodica degli elementi di noi umanisti, dentro ci siamo proprio tutti – scrittori e critici, funzionari editoriali e agenti – ma non pensiate a una bagattella, qui il riso è da intendersi nella sua accezione più profonda e teatrale: come sostituto del pianto».


Personaggi in cerca di ascolto, che vanno alla deriva tra incomunicabilità e solitudine esistenziale. Quanto ha attinto dal contemporaneo urlato isolamento interiore?

Sono uno scrittore, lavoro costantemente con la mia interiorità. A volte scherzando dico che sono diventato uno scrittore perché non mi sarei potuto permettere uno psicologo. È una battuta ma rende bene l’idea, uno scrittore è in analisi perenne presso se stesso, senza un’analisi del proprio vissuto non ci sarebbe nessun libro da scrivere, se vogliamo i libri da scrivere sono conseguenze dell’analisi. Lo sforzo è far diventare la dimensione terapica della scrittura una comunicazione in cui mittente e destinatario non coincidono più. In narratologia si dice che ci vuole un «lettore ideale», che non è un vero e proprio lettore ma una funzione. Una funzione essenziale, ci ricorda che la scrittura è un atto di apertura verso gli altri, una strana forma elitaria di generosità.


Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Quale idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Non ho nessuna tesi da dimostrare con i miei libri. Quando inizio a scrivere non so esattamente cosa succederà. Voglio mostrare, non dimostrare. Gli invernali è un romanzo corale, perciò ho lasciato che i personaggi facessero per conto loro, io ero lì sono per gestirli, una specie di amministratore condominiale. Si sono amati ma anche odiati, si sono promessi fedeltà ma poi si sono traditi, sono stati di volta in volta onesti e disonesti, intelligenti e coglioni, nobili e meschini. Alla fine credo ne sia venuto fuori un ritratto d’ambiente abbastanza verosimile.


I protagonisti della sua narrazione esistono in quadri della quotidianità che si scopre sotto i loro occhi mediante circostanze comuni che divengono le porte per una sensibilità, a volte, al limite della sopportazione. Perché ha deciso d’esplorare il banale, reale, vero quotidiano anziché l’esuberante straordinario?

Non c’è niente di più straordinario del quotidiano e in un certo senso questo concetto ne Gli invernali è rappresentato dal trompe-l'œil, il quadro magico di un arco con uscita in giardino che offre un’illusione di tridimensionalità anche se è soltanto un dipinto sul muro. I numeri di magia sono contemplabili in un mondo ordinario, che senso avrebbe tirare fuori un coniglio dal cilindro in un mondo in cui gli asini volano?


Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, non si sceglie d’amare né d’essere amati?

Viviamo in un’epoca che ama addomesticare le pulsioni: l’amore è inteso come un sentimento nobile che innalza le coscienze anziché corromperle. Non ne sarei così certo. La letteratura oggi più che mai deve sforzarsi di raccontare storie diverse, minoritarie, ciò che dispiace alla propria epoca. L’amore può essere un terremoto, un sentimento che destabilizza o che, come cantava Ariosto, può condurre alla pazzia.


Quanto ha desunto dallo sterminato patrimonio della commedia cinematografica in una scoppiettante contaminatio fabulae?

Mi piace tantissimo la commedia all’italiana e ne Gli invernali ci sono tantissimi riferimenti a quel tipo di cinema comico e crudele allo stesso tempo. I riferimenti più scontati sono La grande bellezza di Sorrentino per il decadentismo e La terrazza di Scola per il mondo culturale. Ma dentro c’è pure il sarcasmo di Flaiano (sceneggiatore di tante pellicole) e l’amarezza di Risi.


I protagonisti della narrazione sono intellettuali: autori, editori, critici, bookblogger. Qual è, oggidì, lo stato dell’Arte dal suo punto di vista?

Qualunque cosa è diventata una storia, ma non c’è più il senso del bello. Ci sono troppi estetisti e nessun esteta. L’arte narrativa è diventata una variazione di fatti buona per la serialità televisiva: la letteratura dovrebbe continuare a stare in profondità. Stare in profondità ma essere veloci perciò dentro al nostro tempo, questa è la vera sfida di chiunque oggi scriva sul serio.


Gli autunnali (2018), Gli estivi (2020): Gli invernali non è il sequel dei precedenti, ma quali sono i legami con i precedenti?

Quella che sto scrivendo in questi anni non è una quadrilogia seriale ma di variazione, non ricorrono gli stessi personaggi ma gli stessi macro-temi: amore, disamore, società culturale, Roma e il sentimento del tempo.


I suoi personaggi sono di certo fortemente caratterizzati; i luoghi romani riconoscibili e amabili: pensa a una trasposizione fuori dalle pagine?

Non penso mai ai miei libri come mezzi, ma sempre come fini. Il fine di un libro è essere letto, non essere trasposto. Credo ancora alla forza della letteratura come forma scritta non ancillare, senza padroni, flessibile rispetto ai discorsi polarizzati da talk (vax/novax, destra/sinistra, credenti/atei…)


La letteratura romena si fregia di una robusta altresì varia produzione. Essa è costantemente tradotta in lingua italiana, con nomi di punta quali Ana Blandiana, Herta Müller, Norman Manea, Mircea Cărtărescu, Emil Cioran, Mircea Eliade, e la rivista “Orizzonti culturali italo-romeni” ne registra le pubblicazioni nel database Scrittori romeni in italiano: 1900-2021. In che misura pensa sia conosciuta in Italia e quali scrittori romeni hanno attirato la sua attenzione?

Non conosco molto bene la letteratura romena, eccetto che per un autore: Cioran. Ma sarebbe riduttivo dire che conosco Cioran, per lui ho avuto una vera e propria adorazione, e lo ritengo uno degli autori fondamentali della mia vita. Non tanto perché è stato maestro di scrittura o un modello letterario, ma proprio perché mi ha salvato la vita in senso pratico, concreto: una cosa che non gli sarebbe dispiaciuta, visto che era un filosofo del tangibile – delle lacrime, prima di tutto – e non delle idee. Ricordo molto bene la circostanza del suo salvataggio nei miei confronti. Avevo appena abbandonato la scuola d’arte drammatica di Milano ed ero ritornato a Pisa, in provincia. Da tutti quella retromarcia era apparsa come un terribile fallimento, e anche io stentavo a orientarmi, nonostante fossi molto lucido sulle ragioni che mi avevano spinto all’abbandono: fare la scimmia ammaestrata su un palco non mi si addiceva, e poi avevo trovato insopportabilmente snob e pretenzioso l’ambiente teatrale milanese. Fu in quel momento che mi capitò in mano Squartamento di Emil Cioran, un libro che trovai strano, non era narrativa ma neanche un saggio di filosofia. Erano pensieri sottili che mi illuminavano e mi liberavano. Passeggiavo sul lungarno pisano di notte per rimuginare su quello che avevo letto di giorno, finché non mi liberai di quel senso di fallimento, o quantomeno lo accettai, prendendo a scrivere io stesso dei brevi aforismi che sono una delle cifre distintive dell’autore romeno. Qualche anno dopo a Parigi andai al quartiere latino in una sorta di pellegrinaggio alla sua mansarda di rue de l’Odéon. Non mi aprirono e allora cercai il suo numero telefonico sull’elenco. Dopo qualche squillo mi rispose la moglie – lui era scomparso da poco. «Chi è?» «Un giovane scrittore italiano, ho citofonato sl portone ma nessuno mi ha aperto». «Non apro a nessuno. Cosa voleva?» «Visitare la casa». «Perché?» «Per sopravvivere».






A cura di Giusy Capone
(n. 3, marzo 2022, anno XII)