Dialogo con Mirko Integlia su «Tormented by God: The Mystical Nihilism of Emil Cioran» (parte II)

In questa seconda parte dell’intervista di Rodrigo Inácio R. Sá Menezes con Mirko Integlia, autore del libro Tormented by God: The Mystical Nihilism of Cioran (Libreria Editrice Vaticano, 2019), la conversazione gira intorno a temi quali il pericolo-Cioran (in virtù della natura labirintica e «ipertestuale» della scrittura frammentaria di Cioran), l’antisemitismo programmatico della giovane generazione rumena del ‘27 in contrasto con un pensiero paradossale che difficilmente potrebbe esser etichettato come antisemita, il rapporto tra antisemitismo e antimonoteismo giudaico-cristiano, le ambizioni politiche e culturali del giovane Cioran, subito disilluso, il rapporto tra ortodossia, trăirism e nichilismo, tra gli altri.




Rodrigo Menezes:
Egregio signor Integlia, lei osserva giustamente che «l’incapacità di prestare attenzione al contesto storico in cui si è sviluppata la complessa filosofia di Cioran corre il rischio di collocare il suo pensiero fuori dalla storia.» (p. 21) Senza dubbio è necessaria la contestualizzazione. Nel contempo, Cioran dimostra una tendenza a una singolarità così radicale che susciterebbe le nozioni d’incondizionato e d’indeterminato (apeiron in greco, concetto-chiave nella cosmologia tragico-pessimista di Anassimandro). Sylvie Jaudeau lo caratterizza come le dernier homme, però la nozione di «non-uomo» (ne-om [1] nell’originale rumeno), coniata dal giovane Cioran, si applica ancora più giustamente. Il suo pensiero, così come il suo essere, appare marcato da una divisione, una dualità fondamentale, partecipando e non partecipando alla storia, sottoposto al tempo e nonostante estraneo al tempo; il suo pensiero è immanente e trascendente, esistenziale e metafisico, storico e trans-storico, nichilista e mistico… [2] A proposito, il testo intitolato «Verità di temperamento», in Sommario di decomposizione, illustra bene questa singolarità poetico-meontologica, per così dire, irriducibile ai dati contingenti del contesto storico-biografico: «Di fronte a pensatori sprovvisti di pathos, di carattere e d’intensità che si modellano sulle forme del loro tempo, ce ne sono altri nei quali si avverte che, in qualsiasi momento fossero apparsi, sarebbero stati eguali a sé stessi e che, incuranti della loro epoca, avrebbero attinto i pensieri nella loro sostanza profonda, nell’eternità specifica delle loro tare. Essi non mutuano dal loro ambiente se non la superficie, alcune particolarità di stile, alcune forme caratteristiche di una data evoluzione.» Ed esemplifica, citando Nietzsche e Kierkegaard (e potremmo aggiungere Cioran medesimo), per concludere che «fossero anche comparsi nell'epoca più anodina – non avrebbero avuto un’ispirazione meno fremente né meno incendiaria.»
Detto questo, non pensa che la rumenità (românitate) profonda [3] di Cioran (le sue radici dacico-traciche, ad esempio) sia importante, per quanto riguarda la contestualizzazione, tanto quanto fattori culturali più o meno contingenti, quali le letture, gli incontri e le influenze esterne di ogni tipo? Non pensa che il pensiero di Cioran evoca la nozione dell’homo duplex (esteriore, interiore), figura antropologica che segna la dualità fondamentale della condizione umana e, in modo ancora più radicale, della condizione cioraniana? Ciò che si applicherebbe anche al suo nichilismo sui generis, che non è tedesco, nietzschiano, nemmeno russo, dostoevskiano, ma piuttosto balcanico, rumeno, transilvano (alla fine, cioraniano!), un nichilismo ancestrale, congenito, di famiglia [4], da dove la nozione di «nulla valacco» (neantul valah, in rumeno), tematizzata da Cioran in modo così toccante nel Breviario dei vinti. Infine, per quanto riguarda la rumenità profonda di Cioran, la sua anima ancestrale, archetipica, mi viene in mente anche la leggenda della Miorița, i cui echi elegiaci si fanno sentire attraverso l’opera di Cioran…

M.I.: L’intrecciarsi continuo nella sua domanda di diversi livelli di analisi, mi obbligano ad alcune considerazioni preliminari, che riguardano innanzitutto la questione principale da lei posta, che è essenzialmente di carattere metodologico (il rapporto fra testo e contesto) ossia se la giusta collocazione storico-filosofica del primo Cioran, alla base della mia ricerca, abbia in qualche punto, diciamo così, privilegiato il «contesto» dimenticando il «testo», vale a dire la singolarità, l’originalità, quello che lei, in termini più generali, chiama «interiorità». Devo confessare che i primi approcci alla scrittura cioraniana mi hanno subito posto dinanzi una difficile scelta di impostazione critica, che derivava da una valutazione iniziale poi sempre più confermata nel corso dei miei studi per la scrittura del libro: il testo cioraniano è «rischioso». La scrittura cioraniana ha una profondità che potremmo definire, volendo usare una terminologia attuale, «ipertestuale», cioè il cosiddetto messaggio non si esaurisce nell’immediatezza dello scritto, ma apre continuamente versanti di riflessione ulteriori, che del resto attraversano l’intera opera come un flusso di coscienza che vuole superare i limiti ristretti del singolo libro. Ritengo che questo sia dovuto a un talento particolare del nostro Autore: una insaziabile voracità intellettuale unita a una estrema capacità di sintesi. Questa che è a tutti gli effetti una ricchezza, per l’interprete, però, può rappresentare uno scoglio da superare, un rischio appunto, in quanto il lavoro ermeneutico per essere efficace deve partire da un punto fermo, che consenta allo sguardo critico non solo di abbracciare tutto, ma anche di discernere, di puntare all’essenziale. Ho voluto individuare nel contesto questo punto fermo, cercando certamente di rimanere aderente all’originalità cioraniana, tuttavia evitando di perdermi nel labirinto dei continui rimandi testuali, perché ho ritenuto ciò che è scritto, soprattutto per la fase degli esordi, una rielaborazione di elementi di derivazione storico-culturale stratificati nell’interiorità cioraniana. In un certo senso, ho voluto «imbrigliare» Cioran: anche questo, forse, è stato molto «rischioso».

R.M.: Lei afferma che «nella concezione di Cioran della storia e della civiltà umana, non c’è nessun spazio per identificare una possibile via di valori per confrontare alla dialettica negativa del nulla.» (p. 73) Infatti, a giudicare da Cioran, nessuna scappatoia, nessuna via di fuga, nessuna risposta, nessuna soluzione [5]. Però un’illusione perduta, soprattutto se è un’illusione vitale, è già metà della battaglia della lucidità, la cui funzione critico-negativa è la de-fascinazione [6]. Poi lei afferma che troviamo in Cioran «la credenza assoluta nell’inutilità della praxis, e, quindi, una critica radicale del finalismo storico, nell’ambito di una visione completamente negativa della consapevolezza e della capacità di ragionamento, in quanto che è l’origine del male.» (p.73) Non sarebbe, invece di credenza nell’inutilità della praxis, incredulità, sfiducia, dubbio scettico per quanto riguarda l’idea medesima di utilità (e, quindi, di praxis)?  A meno che lo scetticismo sia un modo di credere, una fede negativa… Ciò che riteniamo dall’opera di Cioran è che o la Storia non ha alcun senso, oppure ha un senso negativo, essendo sottomessa a una necessità fatale, si direbbe entropica, da dove la nozione dello «slancio verso il peggio» (l’élan vers le pire [7]). Allo stesso modo, il Nostro sembra diviso tra due alternative in materia di teologia: o nessun dio, oppure un cattivo demiurgo. E perché? A causa del Male, della lucidità come consapevolezza del Male immenso in cui siamo sommersi. Pensa che ci sia una filosofia del male insita nell’opera di Cioran, e che essa sia fondamentale per capire sia il suo nichilismo mistico che il suo pessimismo filosofico?

M.I.: In una intervista che è possibile visionare su YouTube, vado a memoria, con estremo candore Cioran sostiene di essersi tenuto per tutta la vita «ai margini dell’azione». Una riflessione di carattere personale che considero convincente, e soprattutto coerente, poiché rispecchia la vita dell’autore, unicamente dedicata all’azione della scrittura. Trovo meno convincente, e soprattutto un po’ datato, il Cioran che veste i panni del pensatore politico conservatore. È innegabile, il «secolo breve» ha dimostrato come la convinzione di una finalità del bene assoluto possa trasformarsi nell’incubo dello sterminio di massa, la realtà non è completamente plasmabile a nostro piacimento, in quanto oppone una «resistenza» all’uomo. Tuttavia si può sostenere l’estremo opposto, ossia negare tout court incisività all’azione umana, unicamente sul piano teorico, perché nel concreto siamo impegnati quotidianamente nel fare. Anzi, è nell’azione, come dimostra Camus ne L’uomo in rivolta, che si pone un sistema di valori.
In Filosofie e narrazioni dell’assurdo ho parlato di un «mondo alla rovescia» o «spazio distopico», e in questo senso posso essere d’accordo con lei per ciò che concerne una possibile filosofia del maleMi spiego meglio: tutta l’opera di Cioran è indubbiamente costellata capovolgimenti, inversioni e paradossi, nella convinzione che, in qualsiasi opposizione, e dunque anche quelle di natura etica, sia sempre il polo negativo – vale a dire che ciò contraddice e annulla l’altro termine – ad avere una funzione conoscitiva, ad approssimarsi a una parvenza di verità. Il movimento tipico del pensiero di Cioran è pertanto il ribaltamento: ad esempio, il cominciamento della vita non è quell’avvenimento straordinario che porta gioia all’interno di una famiglia, ma l’avvenimento peggiore che l’uomo conosca nel suo percorso esistenziale, peggiore della morte e della sofferenza; oppure  la conoscenza non è raggiungibile da chi è impassibile di fronte al timore della morte e nel pieno delle sue forze fisiche e intellettuali, bensì da colui che è precipitato nella paura di essere prossimo alla fine perché ha perso la sua salute, vale a dire dall’uomo malato.

R.M.: Schopenhauer è considerato il fondatore del pessimismo in filosofia, ma non ha mai fatto del concetto di nichilismo uno stendardo, neanche un termine chiave della sua filosofia. Fu Nietzsche a volgere contro di lui il pessimismo del suo maestro da gioventù («il primo ateo dichiarato e irremovibile dell’Europa» [8]), rivalutandolo in termini di questo (non così) nuovo concetto in circolazione (in Russia, in Francia, in Germania), Nihilismus, del tutto distinto da quello, Pessimismus. Secondo Nietzsche, Schopenhauer sarebbe stato «nichilista» in virtù delle conseguenze pratiche, delle conclusioni esistenziale ed etiche del suo pessimismo: ascetismo, svalutazione del mondo e della vita, «buddhismo europeo», ecc. Schopenhauer si sarebbe fermato a metà strada dal bersaglio, pensa Nietzsche, non sapeva trarre le conclusioni ultime del suo ateismo.
Farebbe qualche distinzione tra concetti e categorie filosofiche quali nichilismo/nichilista, assurdo, pessimismo/pessimista, tragicità/tragico, scetticismo/scettico? Nel titolo del suo libro, c’è soltanto uno di loro: il primo, specificato in questo caso come un nichilismo mistico. Oltre a essere nichilista e di portare un pensiero che può essere giustamente descritto come un nichilismo mistico, riconosce la presenza, la coesistenza, la concorrenza, nella «somma di atteggiamenti» [9] che è l’opera di Cioran, di tutti questiatteggiamenti, oppure tendenze filosofiche, più o meno contrastanti, più o meno contraddittori (il che non significa infatti un difetto, una deficienza, un’inconsistenza, ma piuttosto l’espressione viva di un pensiero organico, viscerale)?

M.I.: Guardi, potrebbe sembrare strano, ma la risposta questa domanda è piuttosto semplice, anche se ancora una volta sono obbligato a fare riferimento al mio Filosofie e narrazioni dell’assurdo, in particolare al filosofo italiano Giuseppe Rensi, che ha descritto molto bene questa somma di atteggiamenti nel suo saggio La filosofia dell’assurdo (1937), che non a caso rappresenta uno dei miei principali supporti critici per lo studio di queste problematiche in riferimento a Cioran (e non solo). Rensi qualifica la filosofia dell’assurdo nella duplice veste di riflessione scettica e pessimista, poiché «scetticismo e pessimismo sono rami del medesimo tronco». Un tale pessimismo e scetticismo filosofico trova il proprio fondamento nel riconoscimento dell’inconfutabile realtà delle contraddizioni (divergenze o dispareri) e della storia. Si è scettici e pessimisti, dunque, quando si considerano le contraddizioni come qualcosa di «predominante» e la storia come «l’arena, sanguinosa e dolorante delle contraddizioni stesse». Questa impostazione di fondo pone la filosofia dell’assurdo in evidente contrasto con il razionalismo, l’idealismo, il dogmatismo o il deismo, ovvero con tutti quei momenti della riflessione umana in cui le contraddizioni vengono considerate come qualcosa di «secondario e subordinato», e la storia «sotto un aspetto consolantemente finalistico». La stessa storia del pensiero è, a ben vedere, la storia della contrapposizione tra riflessioni fondate sull’evidenza dell’assurdità del mondo e filosofie che ne rimuovono la costituiva incomprensibilità e contraddittorietà in nome del principio aristotelico di non contraddizione. Tali filosofie altro non sarebbero, secondo Rensi, che forme di degenerazione rispetto a quella rivoluzione copernicana del pensiero greco compiuta già dai sofisti, considerati da Rensi come i primi irrazionalisti e scettici della storia, che – all’alba del pensiero occidentale – misero potentemente in luce il fatto delle contraddizioni e l’inesistenza della ragione, della verità assoluta e dell’universale.
A margine aggiungo che se consideriamo il pessimismo filosofico (come io ritengo debba essere considerato) la convinzione filosoficamente fondata che «sarebbe stato meglio mai essere nati», allora Cioran va considerato un autore profondamente pessimista. Questo sarà oggetto del mio prossimo lavoro su Pessimismo Filosofico e questione religiosa.

R.M.: A suo avviso, Cioran è stato davvero antisemita? È ciò che si può desumere dalla sua esegesi. A mio avviso (e non solo il mio), il presunto l’antisemitismo di Cioran è tutto tranne un’evidenza [10]. Mi piace Cioran malgrado i suoi peccati politici di gioventù, il suo passato di estremismo e fanatismo, di invidia della Germania nazista, di desideri di dittatori e di una «trasfigurazione» – dal terrore – della faccia della Romania. Non è perché mi piace che non sono in grado di riconoscere i suoi errori, i suoi motivi di vergogna e di colpa. Voglio pensare che sarei io il primo a riconoscerlo, se fosse indiscutibile (e non mi sembra affatto che lo sia), per desiderio, oppure per bisogno, della verità su questo autore di cui mi sono innamorato. Non è il caso qui di cacciare argomenti e prove per rifiutare l’accusa di antisemitismo che è spesso rivolta contro Cioran. Vorrei ricordare un passaggio di Schimbarea la faţă a României, dal capitolo titolato «Collettivismo nazionale», in cui scrive: «Se eliminassimo tutti gli stranieri, il problema della Romania non sarebbe meno grave [11].» Quest’osservazione (in corsivo nell’originale) è rappresentativa di una forma di autocritica radicale (da dove l’imperativo di «pensare contro sé stessi») che, nell’incapacità di farsi complice della demagogia e della menzogna, l’essenza e il fondamento della vita politica, non potrebbe essere benvenuta dai capi della Legione dell’Arcangelo Michele. Come infatti non è stato [12]. Cioran è stato sempre troppo eterodosso (anarchista, idiosincratico, «folle»), niente a che fare con un’organizzazione politica, ancor meno di carattere militarista, e ancor meno di carattere militarista-religioso. Vox clamantis in deserto: il «fallimento» del solitario filosofo-artista, di quest’ibrido di «Socrate impazzito» e Giobbe, era inevitabile, direi necessario.
Ancora sul presunto antisemitismo di Cioran: diciamo che non è mai stato coinvolto nella Guardia di Ferro, e che non ha neppure scritto Schimbarea la faţă a României. Che antisemitismo c’è nell’insieme dell’opera cioraniana? Sarebbe «Un popolo di solitari» un testo antisemita? Cosa dire dell’amicizia di Cioran con ebrei di origini diverse, soprattutto con Benjamin Fondane, il geniale poeta che, nella Parigi occupata dai nazisti, si rifiutava di portare la stella di David sul petto (e che Cioran, insieme a Stéphane Lupasco e Jean Paulhan) ha cercato di salvare dalla morte ad Auschwitz), ma anche Paul Celan? E cosa dire dei tanti ebrei che simpatizzano con Cioran, senza vedere in lui nessun antisemitismo? A quanto pare, persino Lucien Goldmann – intellettuale rumeno e ebreo, marxista, il grande detrattore di Cioran, colui che ha diffuso in Francia la sua fama di antisemita – ha cambiato opinione dopo aver conosciuto Cioran [13]. Infine, Ion Vartic, nel suo magistrale saggio, Cioran, naiv şi sentimental, parla dell’ebreo Cioran (esiliato, senza patria, errante).
Eh bene, che c’è un’altra implicazione della questione storica dell’antisemitismo, una che non è etico-politica, ma piuttosto teologico-metafisica: si tratta della negazione o del rifiuto, spesso d’ispirazione pagana (politeista), dell’unico Dio del Vecchio Testamento: il Dio degli ebrei (e anche dei cristiani e dei musulmani). Qualcuno ha detto che Marcione è stato il primo antisemita della storia. Non sarebbe un anacronismo? Oppure le radici profonde, antiche, del moderno antisemitismo, quelle che inducono a interpretare Marcione retrospettivamente come un antisemita, sono le stesse che hanno portato gli ebrei a fuggire dall’Inquisizione o convertirsi al cristianesimo. Voglio dire che il fenomeno dell’antisemitismo è indissociabile della storia del cristianesimo (e adesso anche da quella dell’islam). Nella prefazione del suo libro, sottolinea che la sensibilità e il pensiero religiosi di Cioran sono stati influenzati da una tradizione antisemita radicata in un contesto storico e culturale anteriore alla Seconda guerra mondiale. Legare in modo fondamentale il mistico-religioso all’antisemitismo non sarebbe ridurlo a qualcosa di esteriore, contingente, accidentale, in ogni caso inessenziale, per quanto riguarda la mistica in quanto esperienza interiore? Schopenhauer è un filosofo al quale lei non presta nessuna attenzione nel suo lavoro, sebbene sia un’influenza cruciale per Cioran. In lui sono presenti le due cose, l’antisemitismo de facto (ciò che non riconosco in Cioran) e il rifiuto filosofico (di atteggiamento ateista) dell’unico Dio, ossia la negazione del teismo giudaico-cristiano (infatti, di tutti i teismi), con il suo finalismo e ottimismo storico [14].
Anche se Cioran non è mai stato coinvolto nella Guardia di Ferro e non ha scritto Schimbarea…, rimarrebbe ancora il suo antimonoteismo (i suoi «antiteismi», in generale), il suo acosmismo gnostico, il suo antiprocreazionismo. Come vede il rapporto storico e psicologico tra il cristianesimo e le sue eresie primitive (in primis lo gnosticismo), l’ateismo, il nichilismo e l’antisemitismo moderni? Come lo vede particolarmente nell’ambito del pensiero e dell’opera di Cioran?

M.I.: Molto delicata la questione dell’antisemitismo di Cioran, che meriterebbe una intervista a parte. Mi limito a dire qualcosa che è difficilmente contestabile: l’antisemitismo rappresentò una sorta di degenerazione delle istanze irrazionalistiche, allorquando esse si trasferirono da un piano di riflessione puramente teorico a un livello di battaglia politica e sociale, e la militanza nel campo delle idee finì per essere, per Cioran, forse solo un’infatuazione di gioventù, per altri addirittura un’adesione concreta. Ho cercato di ricostruire questo delicato passaggio interessandomi di misticismo politico e antisemitismo politico nella Romania interbellica: trovo convincente il ritenere l’antisemitismo di Cioran derivato da un’esaltazione momentanea, di cui negli anni a venire egli avrà modo di pentirsi più volte, ma che rimane lo stesso un dato obiettivo con cui purtroppo bisogna confrontarsi, al di là delle sfumature e delle precisazioni. Vorrei aggiungere anche un’altra cosa: probabilmente in questo coinvolgimento che, ripeto, si originò da presupposti di natura filosofica e culturale, contò molto un’aspirazione a un protagonismo intellettuale all’interno della «giovane generazione», i cui maggiori esponenti si sfidavano tra di loro nel dare un’interpretazione personale alle questioni più attuali e controverse del tempo. Forse Cioran, in questo caso, non ha voluto essere «marginale» e fuori dalla Storia...

R.M.: Lei scrive che una delle caratteristiche più marcate dell’individualismo di Cioran è «la forte percezione della sua singolarità e originalità», e ciò lo ha portato a ritirarsi nell’isolamento di una solitudine infinita. Alcune pagine più avanti, osserva che non si trova nell’opera di Cioran «né un’alternativa alla comunità spirituale di fede né una prospettiva trascendente e consolante a cui aggrapparsi, per evitare di annegare. Troviamo, invece, il pessimismo più oscuro, che il teologo Nichifor Crainic ha giustamente identificato e che si è rivelato sotto forma di un’ortodossia nichilista che risulta da queste paradossali inversioni di prospettiva, che caratterizzano Cioran da questo punto in poi.» (p. 70) Questo mi fa ricordare un aneddoto raccontato da Mircea Lăzărescu, psichiatra romeno che ha partecipato al convegno dedicato al centenario della nascita di Cioran nel 2011, a Sibiu. Racconta che, durante una cena, qualcuno ha citato queste parole: «Affinché un nobile perfetto nasca, sette generazioni di nobili devono compiere sforzi costanti. Naturalmente, ci chiediamo a cosa abbia portato questa lunga ortodossia religiosa da noi. E questa la risposta inquietante: a Lacrime e santi. [15]» Bisognerebbe aggiungere: a Il funesto demiurgo. Sì, è un individualismo, però un modo paradossale di partecipare, di essere contemporaneo e solidario – senza ingenuità né illusione – con la sua epoca. «Il solo modo di capire gli altri in profondità è occuparsi di sé e solo di sé, di ciò che vi è di più profondo in sé stessi. Gli ‘altruisti’, i filantropi, gli spiriti ‘generosi’ non capiscono e non aiutano veramente nessuno; sono persone che hanno energie da spendere, punto e basta.» [16]
Nichilista? Forse. Pessimista? Scettico? Sicuramente. Ed essendolo, dubita, nega, «manda a spasso» tutto ciò che considera falso: «falsa questa civiltà, false le verità di cui ci si arma». [17] Come sperare in uno scettico che concepisce trascendenze, che costruisce sistemi morali, che propone ricette di salvezza? Non sarebbe leggerlo con le lenti di una tradizione (ortodossia cristiana) che ha negato e con cui ha voluto rompere in modo radicale? «È da anni fa che mi scristianizzo in piena vista!» (Sillogismi dell’amarezza, in libera traduzione dal portoghese). Un’«ortodossia nichilista» (sic) è ancora un’ortodossia? Non sarebbe lo stesso di una «ortodossia anti-ortodossa»? Credo che Cioran non sia mai stato ortodosso… [18] Queste inversioni di prospettive (che non sono davvero un’originalità cioraniana) di cui lei parla nel suo libro non sarebbero i segni di una forma mentis radicalmente eterodossa ed eterotopica [19], agli antipodi dell’intera ortodossia e di ogni convenzione morale? Non è inutile sperare da lui una proposta di comunità di fede, o la postulazione convinta di una trascendenza consolante? È d’accordo che l’individualismo paradossale di Cioran non significhi egoismo, misantropia, insensibilità, indifferenza verso gli altri (e che questa assenza non sia un difetto, una debolezza, un’insufficienza del suo pensiero)?

M.I.: Lei cita alcune mie considerazioni derivanti da un’analisi testuale di Al culmine, che rientrano in un preciso ragionamento, di cui ho avuto già modo di fare riferimento in qualche risposta precedente, sottolineando in più occasioni il peso che il contesto storico-culturale ha avuto nella formazione di Cioran. Ho anche aggiunto, però, che in quest’opera Cioran produce anche una serie di «strappi» con il suo milieu culturale più prossimo, ovvero il professor Ionescu, l’associazione Criterion e Mircea Eliade.
Lei, giustamente, focalizza la sua attenzione sulla mia definizione di «ortodossia nichilista», evidenziando che Cioran non è mai stato «ortodosso», ma «eretico». È vero, anche io parlo di forti tendenze eretiche, ma questa mia definizione non va intesa in termini filosofici troppo generali perché, in questo caso specifico, è l’esito di un confronto tra le posizioni di Ionescu, Eliade e Cioran: delimitato in un irrazionalismo dalle forti coloriture religiose il terreno comune ai tre, io evidenzio che Cioran non si aggrappa alla dimensione storico-politica, in un certo senso «salvifica» e «consolatoria», dell’ortodossismo come Ionescu, in quanto la sua ortodossia è del tutto nichilista, in quanto collocata sulla linea di un orizzonte completamente disperato.
Infine, non è possibile considerare Cioran un misantropo ed egoista per due ragioni. Cioran più volte sottolinea la funzione catartica dello scrivere. Egli stesso afferma che lo scrivere lo ha aiutato a ridimensionare la forza distruttiva (quasi una sorta di esorcismo filosofico) delle sue idee e dei suoi sentimenti che potrebbero a volte indurre a pensare Cioran come a un misantropo insensibile al dolore del mondo. Inoltre, basta leggere quel testo meraviglioso che sono i Quaderni dove si incontra un Cioran che percepisce anche l’angoscia della «pietra» e della «mosca».

R.M. –
Davvero, e soprattutto l’angoscia dei fiori…




Intervista realizzata da Rodrigo Inácio R. Sá Menezes
(n. 1, gennaio 2020, anno X)



NOTE

[1] «De nu mi-ar plăcea să îngrijesc blînd erorile şi de n-aş aţipi conştiinţa prin dulci înşelăciuni, unde-ar duce o veghe nemiloasă într-o lume nemilos îngustă? Nici o nebunie nu m-ar consola de puţinul lumii, în clipele în care inima e o fîntînă săritoare într-un deşert. Experienţa om a ratat. El a devenit o înfundătură, pe cînd un ne-om e mai mult: o posibilitate. Priveşte un «semen» adînc în ochi: ce te face să crezi că nu mai poţi aştepta nimic? Orice om e prea puţin...» (Amurgul gîndurilor)
[2] «Fortunatamente per noi, il tempo non esaurisce la nostra sostanza. L’indistruttibile, l’altrove, è concepibile: in noi? fuori di noi? Come saperlo? Al punto in cui le cose si trovano, solo le questioni di strategia e di metafisica meritano interesse, quelle che ci fissano nella storia e quelle che si allontanano da essa: il presente e l’assoluto, i giornali e i Vangeli…» (Storia e utopia)
[3] Cfr. STĂNIŞOR, Mihaela-Genţiana. Petite introduction à la roumanité, in HERRERA A., M. Liliana (org.). En torno a Cioran – Nuevos ensayos y perspectivas. Pereira (Colombia): Universidad Tecnológica de Pereira, 2014. Disponibile in: <https://emcioranbr.org/2015/06/01/petite-intru-roumanite/>. Accesso: 22 settembre 2019. Al di là di fattori culturali contingenti, questa rumenità profonda a che fare con la leggenda folclorica della Mioriţa («Agnellina») come osserva giustamente Ion Vartic (Cioran, naiv şi sentimental), e anche con gli antenati remoti dei romeni, prima della romanizzazione di quella regione dell’est europeo: i Traci e i Daci. Cfr. COTOFLEAC, Vasilica. Dimensiones spirituales, in A PARTE REI – Revista de Filosofía, no. 40, luglio 2005. Disponibile in: <http://serbal.pntic.mec.es/~cmunoz11/vasilica40.pdf>. Ultima consultazione: 22 settembre 2019.
[4] «Dal mio Paese ho ereditato il nichilismo profondo, il suo tratto fondamentale, la sua sola originalità. Zădărnicie, nimicnicie - queste parole stupende, no, non sono parole, sono le realtà del nostro sangue, del mio sangue.» (Quaderni, p. 757)
[5] A proposito: «Scuotere la gente, svegliarla dal suo sonno, pur sapendo di commettere in tal modo un crimine e che sarebbe mille volte meglio lasciarvela perseverare, poiché comunque, quando si sveglia, non si ha nulla da proporle...» (Inconveniente di essere nati)
[6] Cfr. FIORE, Vincenzo. Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia. Piazza Armerina (En): Nulla Die, 2018. Anche l’intervista coll’autore su Filosofia auto-sperimentale, anti-fanatismo e «l’infernale sincerità» di Cioran. In: Orizzonti Culturali Italo-Romeni, no. 9, anno IX, settembre 2019. Disponibile in: <http://www.orizzonticulturali.it/it_incontri_Vincenzo-Fiore-intervista.html>. Ultima consultazione: 22 settembre 2019.
[7] «La vera, unica sfortuna: quella di venire alla luce. Risale all'aggressività, al principio di espansione e di rabbia annidato nelle origini, allo slancio verso il peggio che le squassò.» (L’inconveniente di essere nati)
[8] NIETZSCHE, Friedrich, La gaia scienza, § 357.
[9] Nel La Tentazione di esistere, scrive: «A che serve dare un sembiante di coerenza alle idee di Nietzsche col pretesto che ruotano attorno a un motivo centrale? Nietzsche è una somma di atteggiamenti, e lo si sminuisce quando si cerchi in lui una volontà d’ordine, una preoccupazione di unità. Prigioniero dei suoi umori, egli ne registrò le variazioni. Nella sua filosofia, meditazione sui suoi capricci, a torto gli eruditi vogliono rintracciare delle costanti che essa stessa rifiuta.»
[10] Occorre citare quest’intervista di Alain Finkielkraut a proposito della pubblicazione, in Francia, di Schimbarea la faţă â României. «Finkielktaut : ‘pour Cioran, ce livre était une honte’.» Le Figaro, 2 febbraio 2009. Disponibile in: <http://www.lefigaro.fr/livres/2009/04/02/03005-20090402ARTFIG00435-finkielkraut-pour-cioran-ce-livre-etait-une-honte-.php>. Ultima consultazione: 29 settembre 2019.
[11] CIORAN, E.M., Transfiguration de la Roumanie. Tradotto da Alain Paruit. Paris: L’Herne, 2009, p. 222.
[12] «Una lettera dell’aprile 1937 inviata a Mircea Eliade indica che, all’incirca nello stesso periodo in cui sognava la dittatura per placare il suo tedio metafisico e mentre attraversava l’indimenticabile crisi religiosa, Cioran era spinto dall’inquietudine di voler lasciare il paese grazie a una borsa di studio. E probabile che l’idea della partenza e quell’angoscia incancellabile furono alimentate anche dal fatto che, dopo aver mandato a Corneliu Zelea Codreanu una copia de La Trasfigurazione, Cioran ricevette come risposta una lettera cordiale ma del tutto convenzionale ed enfatica, datata 9 marzo 1937. Forse, dopo aver inviato il suo libro al Capitano, Cioran si sarebbe aspettato di ricevere da quest’ultimo una proposta politica, la quale pero non arrivo mai. A ogni modo, il tono convenzionale della lettera di Codreanu e un chiaro indizio che il capo della Legione non si riconosceva nelle idee e nei progetti ideologici contenuti ne La Trasfigurazione. E poiche il libro era stato accolto anche alla critica con molte riserve, cio indusse il filosofo, se ancora non gli fosse bastato, a considerarsi come un profeta nel deserto.» PETREU, Marta. Il passato scabroso di Cioran. Tradotto dal romeno da Amelia Natalia Bulboacă, a cura di Giovanni Rotiroti. Postazione di Mattia Luigi Pozzi. Napoli-Salerno: Orthotes Editrice, 2015, p. 296-297.
[13] Cioran racconta nei Quaderni l’episodio del suo incontro con Goldmann: «Oggi da Gabriel Marcel ho trovato Goldmann, con il quale poi ho fatto una passeggiata. Dopo una tappa in un caffè, mi ha accompagnato fino a casa. E un uomo che ha un certo fascino. Per vent’anni mi ha fatto passare per antisemita procurandomi enormi fastidi.' In un’ora siamo diventati amia. Come è curiosa la vita!» CIORAN, E.M., Quaderni: 1957-1972. Trad. di Tea Turolla. Milano: Adelphi, 2001, p. 768.
[14] «Certamente si sono combinati insieme, nella sua bizzarra però coerente natura, antihegelianismo e antisemitismo: l’ebreo è visto da lui (non a torto) come un ottimista storico, e dopo la grande rivoluzione un portatore di rivoluzioni in tutta Europa, in vista di un messianismo materiale inammissibile. E rivoluzione, sia politica che come avanzata hegeliana del divino, era per Schopenhauer l’orrore degli orrori, la menzogna delle menzogne… «Gli ebrei sono peggio degli hegeliani», è il culmine dell’insulto antisemita schopenhaueriano, ma non è un grido da pogrom.» CERONETTI, Guido. «Né Buddha né Satana: Schopenhauer», in: La lanterna del filosofo. Milano: Adelphi, 2011, p. 151.
[15] LĂZĂRESCU, Mircea. Souffrance, extase et haute folie pendant le XXe siècle. Tradotto dal rumeno da Mihaela-Genţiana Stănişor. Timişoara : Brumar, 2013, p. 53.
[16] CIORAN, E.M., Quaderni: 1957-1972. Traduzione di Tea Turolla. Milano: Adelphi, 2001, p. 314-315.
[17] «Da Adamo in poi ogni sforzo degli uomini ha mirato a modificare l’uomo. Gli intenti riformatori e pedagogici, esercitati a spese dei dati irriducibili, snaturano il pensiero e ne alterano il movimento. La conoscenza non ha nemico più accanito dell’istinto educatore, ottimista e virulento, a cui i filosofi non possono sfuggire: come potrebbero i loro sistemi esserne indenni? Fuorchè l’Irrimediabile, tutto è falso: falsa quella civiltà che vuole combatterlo, false le verità di cui essa si arma. A eccezione degli scettici antichi e dei moralisti francesi, sarebbe difficile citare un solo pensatore le cui teorie, segretamente o esplicitamente, non tendano a modellare l’uomo. Ma questi rimane inalterato, nonostante abbia seguito la serie di nobili precetti proposti alla sua curiosità, offerti al suo ardore e al suo smarrimento. Mentre tutti gli esseri hanno il loro posto nella natura, lui resta una creatura metafisicamente errante, perduta nella Vita, incongrua nella Creazione.» (Sommario di decomposizione)
[18] «Quando la solitudine cresce al punto di costituire non tanto la nostra condizione quanto la nostra unica fede, noi cessiamo di essere solidali con il tutto: eretici dell’esistenza, siamo banditi dalla comunità dei vivi, la cui sola virtù è di attendere con il fiato sospeso qualcosa che non sia la morte. Ma, affrancati dalla fascinazione di quest’attesa, respinti dall’ecumenicità dell’illusione, siamo la setta più eretica, giacché la nostra stessa anima è nata nell’eresia.» (Sommario di decomposizione)
[19] «Quando li chiamo fenomeni della natura, non pretendo in alcun modo che la loro salute ne fosse la prova. Sappiamo che erano malati. Però la malattia agiva su di loro come una freccia, come un fattore di dismisura. Attraverso la malattia, perseguivano una sorta di vitalità distinta della nostra.» (La tentazione di esistere, in libera traduzione dal portoghese).