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    Rosaria Catanoso: «L’anima romena è un’anima in esilio»
         
         
     
        Continua la nostra inchiesta, a cura  di Afrodita Cionchin e Giusy Capone, nel   campo della critica  letteraria, con diversi argomenti di attualità e   un'ampia indagine sulla  ricezione della letteratura romena in Italia,   un tema di particolare interesse per  noi.  
Ospite dei nostri Incontri critici è Rosaria Catanoso, dottoressa di  Ricerca in Metodologie della Filosofia. Insegna filosofia nei licei e collabora  con la cattedra di Filosofia Politica del corso di laurea in Filosofia del  Dipartimento degli Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Membro del  Centro per la Filosofia Italiana, pubblica studi e contributi sulla rivista di  cultura «Tempo Presente», sul mensile «Segno», sui siti www.  dialettica&filosofia.it e  www.filosofiainmovimento.it. Ha  pubblicato l’ampia monografia Hannah  Arendt. Imprevisto ed eccezione lo stupore della storia (Giappichelli,  Torino, 2019). È autrice di numerosi studi sulla Arendt, con particolare  riferimento alla questione del giudizio e dell’azione politica. 
 
La nostra intervista parte da Rapporto sul sapere. L’intellettuale nel tramonto della politica (Fondazione Giacomo Matteotti, 2021), un libro che ha lo scopo di comprendere quale sia il posto ricoperto oggi dai  pensatori di professione. L’intento è ricercare una connessione critica tra la  filosofia, intesa come pensiero speculativo, e il vivere quotidiano. Nell’era  dell'economia del sapere è necessario ricreare una sfera pubblica in cui gli  intellettuali e le masse possano tornare a dialogare in una dimensione agita e  consapevole. 
 
 
«La fine della politica  come grande narrazione ha condotto all’ineffettualità dell’intellettuale? In  altre parole, c’è un legame tra la fine delle grandi ideologie novecentesche e  la crisi in cui versa la figura dell’intellettuale?» Lei pone questi quesiti al  termine del suo lavoro, ma può definire un «intellettuale»? 
 
In verità, al di fuori delle utopie e  delle ideologie che inevitabilmente sono connesse alla figura  dell’intellettuale, è in una dimensione meno carica di attese messianiche che  sarà possibile immaginare un modello di intellettuale dalle caratteristiche più  interessanti. Ben lungi dall’identificarsi con una vaga propensione culturale,  o con un’inclinazione per sterili speculazioni filosofiche, a distinguerlo  dovrà essere la capacità di appropriarsi di quei margini di libertà che ogni  società non offre sempre spontaneamente, ma consente. In un clima costellato da  un relativismo valoriale, o con le parole Weber politeismo di valori, la  libertà è il solo al quale non possiamo e non dobbiamo rinunciare. Al termine  del mio lavoro, una raffigurazione – pur sommessa – ritengo doveroso  tratteggiarla. L’esigenza avvertita come impellente è di nuove autorevolezze,  forse più umili, meno presuntuose e meno palingenetiche. Se l’intellettuale  occidentale è stato contraddistinto fondamentalmente dalla presenza più o meno  equilibrata di un pensiero forte e allo stesso tempo critico; allo stato  attuale si può, in un certo qual modo, far a meno di chi ricerchi grandi  progetti e alti obiettivi. Potremmo essere disposti a rinunciare a grandi  obiettivi che abbiano come scopo la critica dell’esistente e che ne vogliano  indicare un superamento. Non ci sono riferimenti, latu sensu, a operazioni politiche. Ne abbiamo avute fin troppe.  Non sarebbe sbagliato scegliere un percorso più moderato. Non ci staremmo  accontentando, se volessimo navigare a vista. Le questioni da affrontare sono  tutte intricate e interconnesse, che richiedono uno stravolgimento talmente  grande da sembrare irrealizzabile. Un percorso, quindi, per prove ed errori può  risultare meno utopico, e più vicino allo stato esistente. 
 
 
Qual è oggi la condizione dell’intellettuale? 
 
Le riflessioni espresse nel volume  vogliono comprendere i mutamenti cui è incorso l’intellettuale, cercando di  rimanere a galla in un tempo in cui sembra esser stato surclassato da influencer, che già nel nome hanno in  forma intrinseca il dato d’influire sui loro seguaci. Negare un cambiamento di  rotta equivale a rimanere estranei alla propria epoca, e così essere esclusi  dalla possibilità di leggerla criticamente. Non verrà meno la cultura, non  verranno meno i maestri, gli studiosi; ma sembra ormai mutata l’esigenza di  trovare in tali figure simboli e modelli cui far riferimento.  
        Fuori da ogni prospettiva  rivoluzionaria, l’intellettuale è pressoché inutile. Amara constatazione.  Abdicare alla rivoluzione, però, significa esiliare coloro che alla stessa  hanno sempre incitato le masse. Il punto, quindi, non è tanto che nella società  odierna l’intellettuale non conti, o valga meno di un tempo; ma che a costui  venga richiesto d’espletare mansioni specifiche che spaziano dalla  progettazione al coordinamento, alla comprensione delle condizioni di  possibilità di un progetto. Emergono figure nuove, manager, responsabili,  esperti in pubbliche relazioni, in questa condizione diventa pressoché  impossibile parlare di lavoro intellettuale in maniera generalizzata e univoca.  Entro meglio nel dettaglio. Dopo aver osservato la crisi in cui versa la figura  sociale dell’intellettuale; dopo essermi soffermata sul dilagante potere  virtuale degli influencer – che ha  abbattuto i limiti, sempre esistiti, tra massa ed élite – rendendo quasi  attingibile la fama e la notorietà; il punto conclusivo diventa il rapporto tra  intellettuali e mass media nel momento in cui questi mezzi offuscano, oltre  alla figura del chierico anche la verità di cui, da sempre, costoro si  sentivano portavoce. Esprimere la verità, quindi, va di pari passo con il suo  perseguimento; mascherare quella verità conduce alla marginalità  dell’intellettuale che si perde nel caos mediatico delle opinioni.  
         
         
        Entriamo qui nell’ambito delle caratteristiche imprescindibili degli  intellettuali. 
         
        A dispetto delle opinioni, c’è qualcosa  che appare insindacabile quale caratterista degli intellettuali. La giustizia e  la verità sono i due valori inderogabili. Essere uomini di giustizia e di  verità è una peculiare forma di cittadinanza attiva, il cui esito può non  essere immediatamente visibile nella sfera pubblica, ma il cui valore rimane a  salvaguardia della democrazia. La figura da me tracciata per certi versi  ricorda Bobbio e Benda, modelli di uomini liberi che hanno tenuto alta e accesa  la fiaccola dei valori non pratici. Non si chiede più di cambiare il mondo, consapevoli  che da soli sia impossibile. Ma di custodire, senza mezzi termini la fedeltà a  valori intramontabili. I cambiamenti e i progressi tecnici richiedono la  weberiana etica delle intenzioni o dei principi. Sostenere e promuovere un tale  modello etico fa dell’intellettuale il custode della tradizione cui  apparteniamo. Un testamento, forse, dai toni tragici – come ci ricordano le  recenti riflessioni promosse da Salvatore Natoli – perché invita ciascuno a  reggere alle sconfitte e alle perdite che ci affliggono senza mai cedere e al  contempo saper fruire al meglio di ciò che la vita offre: goderla. Dobbiamo  fare del pensiero una zona di resistenza, fino a generare forme dal sapore  anarchico, ma organizzate istituzionalmente. 
         
         
        Chi sarà così l’intellettuale del Ventunesimo secolo? 
         
        Penso un individuo consapevole  dell’infinità del desiderio umano e del suo essere continuamente esposto allo  scacco e alla delusione. Sarà in grado di fare grandi cose, senza però ridurre  gli altri ai propri interessi e alle proprie voglie. Senza misconoscerli nella  loro unicità e verità. Sarà in grado di cogliere come la felicità non stia  nelle cose e nei beni, ma nel giusto rapporto con gli altri e con il mondo.  Seguirà la legge convinto che sia in primo luogo un dispositivo di relazione.  L’esistenza umana è, infatti, un tessuto di relazioni e per questo la legge  prima ancora d’avere un valore deontologico ne ha uno ontologico. La figura,  quindi, non è più di un solitario pensatore chino sui libri. Gobbo. Seduto.  Comodo al suo scrittoio. Pensare, attività da sempre vissuta in solitaria, deve  essere una facoltà condivisa, allo scopo di ritrovare – ovunque – quel comune  sapere utile a trasformare in modo integrale le nostre vite. 
         
         
        «Perdiamo tre quarti di  noi stessi per diventare simili agli altri» scrive Schopenhauer. Stiamo  perdendo la capacità di pensare in modo autonomo, originale e creativo?  L’intellettuale può riuscire a esprimersi attraverso i media non divenendo  funzionale al recital virtuale che, oggi, pare essenziale a raggiungere i più? 
         
        Ecco la domanda imprescindibile. Questa  è la questione che ha mosso tutta la mia ricerca. Per risponderle, ho dovuto  cogliere quella differenza sostanziale non solo tra influencer e intellettuali, ma tra l’uso che questi due diversi  personaggi compiono dei social media. Da tempo ormai la cultura si è  trasformata da oggetto d’uso a merce, modificando la funzione storica  dell’intellettuale. Cronologicamente, questa trasformazione prende avvio già  con la seconda rivoluzione industriale. La cultura ha cessato di essere  prodotta per i suoi diretti destinatari, il suo valore d’uso si è presto  tramutato in valore d’uso sociale, diventando un oggetto di scambio e  acquisendone un valore economico. Gli studiosi delle scienze sociali, nel  Novecento, si sono interessati a questo processo chiamato «industria culturale»,  al punto in cui i suoi prodotti sono diventati oggetti di consumo. Per  soddisfare un pubblico sempre più vasto i prodotti culturali devono presentarsi  come perenne novità, come ha rilevato Baudrillard. L’intellettuale deve  distinguersi, deve attrarre l’attenzione e mettere in mostra le sue creazioni. 
         
         
        Quindi cosa ne è dell’intellettuale allorché la cultura abbia  fatto il suo ingresso all’interno della spettacolarizzazione proposta dal  mercato capitalistico? 
         
        Anche l’intellettuale si trova dentro  questo ingranaggio, dal quale fatica a uscire, pena la perdita di un posto nel  mondo che dia risonanza alle sue parole. Già Benjamin negli anni Trenta ha  tratteggiato il mutamento culturale generato dai processi produttivi. Nell’era  del web, tutto ciò è ancora più plateale. Il passaggio tecnologico nel quale  siamo immersi non è analogo a quelli precedenti, ma di una portata ancora più  dirompente. Il cambiamento generato dai mezzi di comunicazione di massa, dal  virtuale, dal web è di gran lunga maggiore rispetto a quello introdotto da  Gutenberg. Eppure una tale rivoluzione ha come conseguenza la parabola  discendente degli intellettuali. Scevri da ogni commento moraleggiante sulla  decadenza dei costumi, seguendo le orme già tracciate da Eco, nel proverbiale  saggio che ha segnato il nostro approccio alla cultura di massa, vogliamo  stigmatizzare l’atteggiamento del critico apocalittico che coglie nella cultura  di massa solo anticultura. Quindi, non si vuol ritenere, a dispetto degli  apocalittici, che gli intellettuali siano la prima e più illustre vittima del  prodotto di massa. Qui si vuol cogliere come i mezzi di comunicazione di massa  abbiano inciso sull’intellettuale tradizionale. Costui può contare sulla parola  scritta. Nella grande comunicazione mediatica, il linguaggio scritto risulta  essere sempre più marginale. Lo stile è volatile, svincolato da ogni rapporto  con il patrimonio semantico della lingua. Ogni discorso è semplificato. I post  su instagram sono l’emblema di come si possano adoperare foto e immagini  accompagnate da parole addirittura sgrammaticate. Connettersi e interagire sono  diventati i sostituti dell’aver qualcosa da dire. Il linguaggio è semplice ai  confini con la banalità, accessibile a tutti, scevro da colte argomentazioni,  privo di un lessico ricercato. Questi elementi lo connotano, di certo, per  democraticità. Dalla coesistenza di vecchi e nuovi media, dal continuo scambio  tra giornali, cinema, televisione e social network, si è giunti al punto in cui  questi ultimi consentono la visione dei primi. Già la televisione, pur avendo  superato agevolmente tutte le barriere costituite dall’analfabetismo,  dall’assenza di cultura e perfino dalle differenze politiche e ideologiche, non  ha promosso nuove figure intellettuali che ereditassero lo spirito critico e  l’autonomia di giudizio. Ecco, spirito critico e autonomia nel giudicare sono i  due elementi del pensare da sé che occorre salvaguardare. E per tutelarli serve  esercizio, servono nuove ‘posture’, allenamenti mentali e fisici. Serve un  lavoro. C’è ancora bisogno di pensatori. Al passo con i tempi, che spicchino in  mezzo a individui mediocri, indistinti e in cerca di like. Costoro non saranno saccenti o superbi, ma saranno  consapevoli degli strumenti a loro disposizione, ma ancor più della loro natura  e non avranno bisogno dei social per esistere, ma li adopereranno quali nuove  possibilità. Ecco come stiamo facendo noi; come da tempo fanno gli autori di  Tlon, come tentano di mettere in atto i nuovi filosofi pop. Le strade stanno  mostrando un pensiero in comune, in un mondo in cammino. 
         
         
        Avvalersi dell’arma del  dubbio, dell’arte di ascoltare e di porre domande, di interrogarsi e di scolpirsi  come «una statua», come direbbe Plotino, potremmo abituarci a pensare «out of  the box»?  È il like il responsabile del declino del pensiero critico? 
         
        I  social e i software hanno amplificato la possibilità di comunicare  universalmente, ma non hanno davvero incrementato la capacità del pensiero di  elaborare. L’universalità della comunicazione necessita di un nuovo modello  culturale. Le nuove tecnologie di informazione e di comunicazione non hanno  ancora creato una nuova cultura. E così la crescente e smisurata diffusione  degli strumenti di informazione dà vita anche a forme sempre più omogenee del  vivere e del pensare. Questa forma di omologazione universale attraversa tutti  i campi, dal cibo all’informazione, dalla politica alla cultura. Una civiltà  unica mondiale rischia d’essere il nostro destino. Gli strumenti tecnologici  contemporanei informano, offrono possibilità creative e riproduttive, ma non  agevolano un processo critico. Quel che spaventa è la possibilità d’essere a  conoscenza di molte cose, pur senza aver letto un saggio, un romanzo o aver  visto un’opera d’arte. I nuovi mezzi di comunicazione non mostrano grandi  personalità, spiccano individui mediocri, indistinti che cercano  riconoscimenti, applausi e like.  Individui banali hanno come solo desiderio quello di partecipare, allo scopo di  sentirsi inclusi e considerati. Riconoscersi, sentire gli stessi gusti avvicina  agli altri. Non è il gusto il riferimento con il quale digitiamo il nostro like anche sui social? Non è forse la  ricerca di un comune sentire che ci spinge a cercare consenso? Il riferimento  al gusto rimanda al kantiano giudizio estetico, vale a dire a una facoltà in  grado di cogliere i fenomeni direttamente. Ed è questa capacità della ragione  di cui si sente cogente la necessità, di un giudizio che nasca da un puro  piacere contemplativo. Il piacere, quale sentimento peculiare che intensifica  una sensazione legata a un oggetto, vuole essere condiviso e comunicato. Si  aspira ad avere l’assenso degli altri. Il gusto, da argomento tipicamente  settecentesco dell’incomunicabilità e della privatezza delle sensazioni, delle  modalità attraverso cui trasmetterle e comunicarle, determina le nostre scelte,  da quelle politiche a quelle commerciali. Pronunciarsi su ciò che piace o non  piace è un modo per rivelare le proprie affinità, ricercando ciò che è comune.  In questo modo ci si scopre legati agli altri nel momento in cui si ritrovano  affinità su ciò che piace o dispiace. Il gusto non è più qualcosa di intimo e  personale, ma rivelativo di se stessi aiutandoci a mostrare per quel che si è.  L’esercizio del gusto ricrea le condizioni per un confronto e una condivisone  con gli altri. 
         
         
        È palesemente in atto un deciso svilimento dell’idea di  politica, concepita non più come interesse alla res pubblica bensì quale  interesse individuale e privato. Come può l’intellettuale risanare questa  ferita, divenendo soggetto «agente»? 
         
        Lo  scopo al quale sono chiamati – da fronti diversi – intellettuali, pensatori,  politologi, filosofi, scienziati, tecnici è ricostruire l’identità della  politica, riprendendo a familiarizzare con le «visioni del mondo». Del resto,  senza un pensiero critico del presente, e alternativo a questo nostro presente,  la politica diventerà subalterna al corso destinale della storia, non  riuscendo, in qualche modo – per quel che è possibile – a prevederlo allo scopo  di contrastare le circostanze nefaste e di modificare i fatti. Se i pensatori  dell’età moderna non hanno mai smesso di cercare i fondamenti della logica,  della moralità, dell’estetica, dei precetti culturali, delle regole del vivere  civile, e non hanno mai smesso di credere che la ricerca avrebbe avuto  successo; l’epoca attuale si caratterizza per aver smarrito una verità  universale. In questa civiltà massmediatica ogni singolo fenomeno assurge a  verità assoluta. Le opinioni contano più dei fatti. Tutto è contemporaneamente  vero e falso. Discutibile. Argomentabile. Eppure si è esaurita la critica, la  cui funzione non è consistita nell’affermare verità assolute, ma nel  gerarchizzare e nel pensare da sé. Il giudizio diviene imprescindibile per  formulare una teoria etica che risponda alle problematiche della vita politica,  e per ricucire il legame tra filosofia e azione, tra teoria e pratica. Siamo  dinanzi a un nuovo sistema culturale, valoriale, scientifico in cui tutto  diventa opinabile. In questo quadro, l’intellettuale non può più stabilire  gerarchie e valori. Eppure il pensiero critico non può eclissarsi. Scompaiono  le figure che presumevano d’aver diritto di far lezione alla storia, ma non può  scomparire il pensiero radicato, com’è, nella storia dell’Occidente. Ecco  perché appare sempre più diffusa la domanda di maestri, di esempi, proprio per  il loro essere figure concrete con una valenza significativa in grado di  trascendere un caso particolare, che diventa valido per ogni altro caso. I  maestri, di cui non possiamo fare a meno hanno come compito quello di fornire  indicazioni. Nella loro esemplarità orientano gesti, simboleggiano quel dovere  morale di giudicare, di prendere posizione in modo autonomo di fronte agli  eventi. 
         
         
        L’intellettuale, alla luce delle sue  riflessioni, può intendersi come paradigma dell’umanità? 
         
        Una  bella speranza, oltre che un augurio importante in questi tempi difficili. Del  resto, sono proprio consapevole che siamo in un mare aperto. E non possiamo più  credere di risolvere da soli i problemi Degli altri abbiamo un bisogno  imprescindibile, e innato. In antitesi a pensatori solitari, immagino un  pensare insieme. Pensare, attività da sempre vissuta in solitaria, deve,  invece, essere condiviso. Lo scopo è proprio rompere quell’intricato legame tra  il singolo e i social, per ritornare alle relazioni tra gli individui. Senza  demonizzare la tecnologia, bisogna riscoprire un pensare in comune, allo scopo di mettere il sapere in circolo. Il nostro io  non è altro che il nodo che potenzialmente lega tutte le persone e gli eventi  che hanno contribuito a formarlo, un pensare insieme mette in contatto anche  gli altri, in carne e ossa. A dispetto di tutti gli intellettuali disincarnati,  parlare di vita concreta, sensibile, corporea mette in comune i problemi e i bisogni, le possibilità e le novità.  
        Quindi,  non basta una filosofia ridotta a teoria, a dottrina e a discorso, ma bisogna  proporre una filosofia nelle vesti di ethos per vedere trasformata la propria  esistenza e quella altrui. Non ci si salva da soli. Le azioni da compiere vanno  pensate, prima d’essere programmate, studiate e attuate. Non c’è scelta  intrapresa, senza pensiero meditato. 
         
         
        Qual è  lo status attuale della critica in Italia, come istituzione culturale e  manifestazione del pensiero critico? 
         
        La vera  questione non è relativa alle singole personalità, bensì collettiva. In un  tempo in cui la cultura si è trasformata da oggetto d’uso a merce, la funzione  storica dell’intellettuale è radicalmente mutata. Una trasformazione profonda,  lenta e apparentemente ineludibile ha avuto luogo in forma sempre più intensa,  lungo gli ultimi cento anni. Un tale passaggio investa anche coloro che della  cultura sono i diretti esponenti. Dagli inizi del Novecento in avanti,  l’industria culturale è stata oggetto di ricerche e di sperimentazioni  tecnicamente e socialmente all’avanguardia, volte a migliorare le prestazioni e  ad aumentarne gli utili; divenendo oggetto di sfruttamento intensivo e di  operazioni a carattere politico. Questo ha avuto conseguenze tanto positive  quanto negative per gli intellettuali, proprio perché costoro se da un lato  hanno denunciato un sistema del quale non accettavano le fondamenta, dall’altro  sono sempre stati all’interno dello stesso sistema che criticavano. Quindi, in  certi casi, apparivano scomodi o quanto meno incapaci di risolvere quella che  per certi versi sembrava essere una krísis,  nel suo significato etimologico. Quindi, chiediamoci, cosa ne è  dell’intellettuale allorché la cultura abbia fatto il suo ingresso all’interno  della spettacolarizzazione proposta dal mercato capitalistico? Anche  l’intellettuale si trova dentro questo ingranaggio, dal quale fatica a uscire,  pena la perdita di un posto nel mondo che dia risonanza alle sue parole. E così  si trova a rivestir il ruolo di creatore di spettacoli, o quanto meno di una  messa in forma della sua produzione artistica e creativa anche, ama non solo,  allo scopo di vendere e di essere attrattivo per il pubblico. Quel che si  ripropone come questione cruciale, non è tanto l’originalità degli  intellettuali contemporanei, rispetto ai loro predecessori; né l’estrosità dei  loro precorsi culturali rispetto ai presunti canoni dei periodi storici  precedenti. E ancora la questione non è neppure la collocazione degli  intellettuali all’interno della società in cui vivono. Il cuore del discorso è  quale posizione occupino gli intellettuali nei circuiti produttivi attuali.  Queste figure si sono trovate, anche, a dover conferire all’esercizio della  propria professione un carattere altamente spettacolare soprattutto per  riscuotere quel riconoscimento e quella fama degne delle loro scoperte e delle  loro opere. Da un’idea sono giunti a formulare una visione totale completamente  alternativa al mondo reale. Quindi, hanno ripensato radicalmente la società.  Anche se sotto il profilo pubblicistico, costoro si sono dovuti mostrare in  grado di rendere funzionale la propria attività. Questo significa non assolvere  meramente a compiti tecnici, di semplice illustrazione e divulgazione dei  progetti, né nell’affermare valori esclusivamente ideologici o letterari; ma  adottando la forma del manifesto, del pamphlet, dello scritto polemico, le  opere di queste personalità si presentano come vere crociate combattute con le  armi della critica. Tali elementi sono finalizzati a fornire ogni fondamento  che dia un supporto concreto e tangibile alle idee proposte. Quel che è  indubbiamente visibile è la mescolanza tra letteratura e politica da parte  dell’engagement intellettuale, giungendo a un’identificazione tra pensiero e  azione. L’attività è sempre una critica delle ideologie e, in quanto tale,  politica mitigata dall’arte, che non smette di esporre un vero e proprio  programma. Infatti, attraverso la pacifica e proficua convivenza e integrazione  di attività progettuale e attività culturale che alcuni dei principali  protagonisti italiani acquisiranno autorevolezza a livello internazionale,  conferendo anche all’Italia un singolare primato nella produzione di  intellettuali. Gli ambiti culturali sono ampi, pensiamo al Gruppo 63, con le  riviste a esso correlate come «Marcatré» e «Quindici», e «Tempo  Presente-Rivista di cultura» ancora riviste apertamente politiche come «Contropiano»  diretta da Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari, espressione della corrente  operaista nel periodo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. L’unione del  paradigma estetico con quello etico e politico ha lo scopo di rilanciare il  territorio italiano dopo il secondo conflitto monde e il ventennio fascista.  Questi progetti culturali si ispirano all’intellettuale politicamente impegnato  che domina la scena nell’Italia degli anni Cinquanta, erede a sua volta della  concezione gramsciana dell’intellettuale organico, inteso come costruttore e  non come semplice oratore, pronto a scendere in campo e a mescolarsi con la  comunità. Strettamente legate a questo clima culturale sono le riviste «Critica  marxista», «Il Contemporaneo», «Società», «Voce comunista».  Si ricordino «Quaderni Rossi», sorta agli  inizi degli anni Sessanta e segnata dalla prematura scomparsa del fondatore  Raniero Panzieri. Inoltre, «Classe operaia» è sorta agli inizi del 1964 dopo  l’abbandono di Tronti a «Quaderni Rossi» che si troverà a scrivere insieme ad  Asor Rosa, a Cacciari e a Negri. Questi intellettuali tuonano contro le  organizzazioni ufficiali del movimento operaio, prendendo le distanze dal  Partito comunista italiano e dai sindacati. Il loro obiettivo è dare risonanza  alla condizione di sfruttamento della forza lavoro all’interno del sistema  capitalistico, senza limitarsi alla classe operaia, ma ascoltando anche le voci  della borghesia e della medesima classe intellettuale. Si sta definendo  l’esatta funzione dell’intellettuale italiano, degli anni Settanta, come colui  in grado di mettere a punto un apparato teorico utilizzabile in vista di un  agire pratico, al di fuori di qualsiasi prospettiva personale o soggettiva, ma  considerando la natura collettiva e condivisa della cultura. Il tentativo di  questi gruppi intellettuali è di conferire nuovo vigore alla lotta di classe,  in un momento politicamente delicato. L’intellettuale, desideroso di costruire  un radicale cambiamento della società, a partire dalle condizioni esistenti,  cerca un panorama autonomo per la propria azione, si porrà nella posizione  espressa da Tronti «dentro la società e contro di essa nello stesso tempo». 
        La  democratizzazione del sapere e la diffusione generalizzata del lavoro  intellettuale, con la conseguenza dell’accrescersi di un pensiero operante,  vale a dire di una teoresi direttamente applicata ai contesti produttivi e  comunicativi, hanno come esito una sorta di sorprendente speranza in merito  alla possibilità di una futura rinascita di un pensiero discorrente, dialogico,  capace in ultima analisi di tornare a scompaginare l’appiattimento della nostra  visione del mondo. Trascorsi anni, mutati gli eventi lo scenario attuale mostra  una complessità globale. Le trasformazioni del mondo contemporaneo sono  immense. La storia della cultura e della critica è tutta tratteggiata dai  traumi legati ai passaggi storici dovuti alla tecnologia, cambiamenti percepiti  come minacce. Nell’era del web, tutto ciò è ancora più plateale. Il passaggio  tecnologico nel quale siamo immersi è ancora più dirompente dei precedenti  mutamenti. Come nota Furedi, nel Ventesimo secolo, l’immagine eroica  dell’intellettuale classico ha lasciato il posto a una figura più pragmatica e  terra terra, il cui lavoro non ha un’importanza particolare. Le notizie  viaggiano su vari canali comunicativi, duplicando le possibilità del sapere,  senza aumentare quelle della conoscenza. I social e si software hanno  amplificato la possibilità di comunicare universalmente, ma non hanno davvero  incrementato la capacità del pensiero di elaborare. La crescente e smisurata  diffusione degli strumenti di informazione dà vita anche a forme sempre più omogenee  del vivere e del pensare. I nuovi mezzi di comunicazione non mostrano grandi  personalità, spiccano, invece, individui mediocri, indistinti che cercano  riconoscimenti, applausi e like. 
        In  Italia, però, a tutto questo si risponde con numerosi momenti culturali,  festival, blog dai quali prendono forma progetti e percorsi volti a mischiare  arte, spettacolo, filosofia, scienza. Il pensiero critico è vivo. Fluttua sulla  rete. Si mescola alle esigenze dei tempi e ai nuovi giovani fruitori. Parla  nuovi linguaggi e forme espressive. Scompaiono le figure che presumevano d’aver  diritto di far lezione alla storia, ma non può scomparire il pensiero radicato  nella storia dell’Occidente. 
         
         
        Quali direzioni, mete o deviazioni vede  attualmente caratterizzare il panorama culturale italiano e internazionale? 
         
        In  Italia gli intellettuali non sono rassegnati a ricoprire spazi ristretti nei  salotti televisivi durante i quali poter presentare le proprie pubblicazioni.  In molti casi diventano accattivanti protagonisti dei festival filosofici,  delle scuole di cultura politica. In altre circostanze sono firmatari di  appelli in difesa della scuola, dell’università e della ricerca. E di recenti  si sono espressi in favore della pace sulle pagine di un noto quotidiano. 
        Da Weber  a Berlin, da Jaspers a Heller, da Gramsci a Ingrao, da Bobbio a Barcellona, da  Garin a Cacciari, il panorama europeo è stato e continua a essere ricco di  studiosi il cui fare mostra il legame tra pensiero e azione, tra speculazione e  ammonizione. Se Rovatti e Vattimo, negli anni Ottanta, hanno dato vita a un  pensiero debole, a un filone della filosofia contemporanea che ridimensiona le  pretese metafisiche e totalizzanti, non hanno mai smesso di lottare in favore  dell’alterità contro il fondamentalismo della ragione, contro le barbarie della  violenza e della tecnica, in opposizione a un potere che depaupera le relazioni  tra gli individui. Il panorama italiano ed europeo è ricco di figure pubbliche  critiche, capaci di scalfire e porre in discussione il sistema e il potere. Del  resto, nel momento in cui Rovatti propone dì associare l’aggettivo riluttante  all’intellettuale immagina una figura che si collochi all’interno dei  dispositivi di potere e vi svolga un lavoro ai fianchi denunciando le chiusure  senza mai gettare la spugna. Questa ci pare una condizione non facile, ma  sostenibile. Quindi, una figura responsabile, che abbia da rispondere a coloro  che ne ascoltano le parole e che dia risposte per mezzo dell’azione compiuta.  Su questo è d’accordo anche Chomsky, consapevole del fatto che coloro ai quali  viene riconosciuto tale titolo possiedono un certo grado di privilegio  conferito da questo status, con opportunità fuori dal comune. Ma alle  opportunità si accompagnano le responsabilità, che a loro volta impongono  scelte, talvolta difficili. Si è responsabili solo se integri moralmente.  Rinunciando a servire fedelmente il potere, si potrà esercitare una critica  serrata che abbia come perno l’esaltazione della giustizia. Quel che dagli  intellettuali non ci si deve aspettare è il proporre teorie ex cathedra per le  quali non si indichi neppure una documentazione. Contro il culto dell’esperto  tout court, rilanciare il modello di un intellettuale indipendente vorrà dire  privilegiare figure consapevoli dei meccanismi ideologici messi in atto dalle  forme di potere illiberale e antidemocratico. Quindi una delle maggiori  responsabilità degli intellettuali consiste nell’analizzare le azioni dei  governi in base a cause e moventi spesso occultati. Le democrazie liberali garantiscono  tali possibilità in virtù del libero accesso alle fonti d’informazione e alla  libertà di espressione. Date queste condizioni è responsabilità degli  intellettuali dire la verità e denunciare le menzogne. 
        Contro  la rassegnazione, a dispetto di ogni sfiducia nei riguardi delle istituzioni,  la lotta dell’intellettuale deve essere posta dal di dentro del sistema,  opponendovi e resistendo. Uomini affidabili. Rintracciabili, oggi, ve ne sono.  Penso a Fistetti, Esposito, Bodei, Curi, Givone. Studiose come Cavarero, Forti,  Viti Cavalieri, Resta, Battaglia. Studiosi immersi nella realtà disposti a  fare, seguendo un’etica pubblica presentabile, scegliendo quando parlare e  quando tacere. Rifiutando e mettendo a tacere l’arroganza e la falsità, sono  propensi per la pausa meditativa e per la riflessione propedeutica a qualsiasi  forma di esposizione mediatica ed espressiva. Intellettuali, quindi, in grado  di convertire le idee in leve sociali; proponendo un insieme di convinzioni  pervase di passione allo scopo di trasformare l’intero sistema di vita.  L’attività filosofica è richiamo alla libertà; è una possibilità attraverso la  quale emerga il senso autentico delle nostre azioni. Il fare, che si svela  nell’azione pratica, è costitutivo dell’azione teoretica. E viceversa. Questo è  quanto ha ben sottolineato Benedetto Croce, affermando la distinzione e la  congiunzione tra la forma teorica e la forma pratica del sapere. E la  filosofia, secondo l’insegnamento di Croce, diverrà attività critica, colma di  consapevolezza e di responsabilità nell’agire. 
         
         
        In riferimento alla filosofia e alla  cultura romena in generale, quali nomi hanno attirato la sua attenzione? 
         
        La  cultura ha una storia di esili e di disperazioni. In terra romena sono nati i Tristia, invettiva sconsolata di un  poeta in esilio dalla civiltà. Questo fatto accidentale, questo destino  individuale ha segnato l’umore di un’intera stirpe di intellettuali.  L’inconscio collettivo di una nazione in esilio, anche, da se stessa. A Roma  ancora si stende la Colonna Traiana, dove spirali di bassorilievi raccontano  l’asservimento dei Daci, gli antichi barbari di quelle terre danubiane. Chissà  se Constantin Brâncuşi, scultore romeno, abbia pensato all’antica colonna  quando creò la Colonna Infinita nel 1937? 
        Emil  Cioran, Paul Celan, Costantin Noica, Nina Cassian, Mircea Eliade sono gli  intellettuali che maggiormente hanno attirato la mia attenzione. Poeti e  filosofi in esilio in Francia (Cioran e Celan) e negli Stati Uniti (Cassian,  Eliade). A chi è rimasto in patria, come Noica, non è stata risparmiata la  condanna a un esilio domestico, fra le mura di una prigione o nella propria  abitazione. Il filosofo ha scontato, infatti, sei anni di lavori forzati negli  anni Sessanta. Il destino di un popolo di schiavi, avrebbe detto Cioran. La  storia di una schiavitù, ma anche di una disperata ricerca spirituale, di una  filosofia votata alla trascendenza, di filosofi ossessionati dalla metafisica.  
        Il breviario dei vinti di  Cioran, scritto a Parigi tra il 1941-1944, è la storia di una filosofia  sconfitta dall’ottimismo della metafisica tradizionale, che ha messo al bando  la disperazione, il dubbio, la fermezza di un popolo quali punti fermi fondanti  della riflessione e del pensiero. La filosofia di un popolo di sconfitti e di  vinti. Le parole di Cioran sono emblema di dolore e tenacia: «era scritto che  noi, discendenti dei Daci e di altre popolazioni incerte, non consolidassimo  alcun pensiero di felicità e che le gocce del nostro sangue formassero un  rosario di dispiaceri ereditati da generazioni di vinti. Il sospiro e la  maledizione furono la nostra strategia di pastori strappati a qualche stella  moribonda, destinati a a scendere al cielo e a svilirsi invece nel tempo». A  Parigi Cioran è assediato dalla noia. Le notti parigine di Cioran, tormentate  dall’insonnia, gli hanno consentito una lucidità ossessiva. Il non-essere, la  notte del pensiero e della storia è elevata alla positività dell’essere e da  una metafisica sui generis. L’assurdo e il paradosso, la libertà totale  dell’espressione sfiora l’insensatezza che ci conduce dritto all’opera diritto  all’opera di un altro romeno illustre, ancora un franco-romeno, penso a Eugène  Ionesco e al suo teatro dell’assurdo. 
        Schiavitù  e libertà. L’originalità della filosofia romena consiste in quell’estrema  libertà di pensiero dell’uomo in esilio, di chi è nato ai margini dell’Europa,  di chi non è in debito con nessuno. E cerca un posto nel mondo. L’anima romena  è un’anima in esilio, la figura del desiderio alla ricerca della rimozione  originaria. L’irrequietezza di un popolo è affidata all’individualità di grandi  intellettuali costretti ad affrontare il deserto della storia. 
        Per  Noica, i grandi autori del canone occidentale sprigionano una verità fuori dal  tempo, finalmente liberati dal peso della tradizione storica e storicistica.  Finalmente non devono dar conto a nessuno. 
        A  Chicago ha insegnato Mircea Eliade, storico delle religioni, antropologo,  filosofo. A New York si è rifugiata, invece, Nina Cassian, poetessa. Entrambi  minacciati dalla dittatura di Ceauşescu, che ha messo al bando le opere degli  esuli. Cassian è nota per i suoi versi duri e al tempo stesso fiabeschi, pur  rifiutando un’unica visione del mondo. Rigettare ogni sistematicità è un tratto  distintivo di tutti gli esuli romeni. Per lo storico Eliade il rifiuto del  sistema si articola nell’analisi dei riti e costumi dei popoli primitivi. In La nascita mistica del 1958 studia le  tribù australiane, gli sciamani siberiani, i riti di iniziazione greci e  indiani. Il suo è uno sguardo che si disperde nella pluralità dei miti e delle  religioni, ma che ricerca l’origine e la genesi di un unico fenomeno, con  l’autentico e malcelato anelito che soltanto un esule può dimostrare. Filosofi  e poeti soli davanti alla propria condizione umana e ebri di malinconia e vita. 
         
         
        La scrittura contemporanea può  annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto  della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperita da donne? 
         
        Letteratura  esperita da donne e pensiero femminista si fondono, pur, distinguendosi. Il  pensiero della differenza nasce dalla critica alle battaglie per  l’emancipazionismo egualitario. Il femminismo che si ispira alla teoria e alla  pratica della differenza sessuale nasce negli anni Settanta e si sviluppa  inizialmente in Francia con Antoninette Fouque e Luce Irigaray. La prima ci ha  lasciati nel 2014, la seconda novantenne è ancora attiva e faro per tante  studiose e per tutte noi donne.  La tesi  di Luce Irigaray è importantissima. Infatti, la studiosa coglie come «la  differenza sessuale rappresenti uno dei problemi o il problema che la nostra  epoca ha da pensare». Irigaray nelle evoluzioni della sua filosofia orienterà  sempre più verso l’analisi del linguaggio la sua critica sino a giungere in Io Tu Noi. Per una cultura della differenza (1992) all’idea che sia necessario costruire un linguaggio e una cultura  femminili capaci di esprimere un modo altro di pensare e di agire. Si tratta di  una necessità vitale per difendere la dimensione relazionale dell’essere umano,  in quanto l’omessa esperienza dell’alterità femminile nel corso della storia  millenaria del patriarcato è diventata mancata esperienza dell’altro in quanto  tale. Per Irigaray è giunto il tempo di costruire, partire dalla differenza  sessuata, un’altra cultura, anzi due. La prima appropriata alla soggettività  femminile e la seconda relativa alla relazionalità espressa nella formula  io-tu-noi, in grado di rompere la ripetitività dei discorsi e di sviluppare le  potenzialità dialogiche della lingua. 
         
         
        E se prendiamo in considerazione la  situazione italiana? 
         
        In  Italia ruoli importanti sono svolti da Carla Lonzi, Luisa Muraro, Lia  Cigarini. Queste femministe italiane  appartengono alla Libreria delle donne di Milano, fondata nel 1975. L’impegno  anche filosofico prende corpo nel volume manifesto del 1987 intitolato Il pensiero della differenza sessuale.  Tale realtà politica e culturale è incentrata sullo scambio di idee e sulla  discussione che si occupa, tra le altre attività di allestire proprie  pubblicazioni. Il nucleo della loro posizione teorico-politica è il rifiuto  delle tesi emancipazioniste del vecchio movimento femminista in nome di una  posizione differenzialista che sostituisce la rincorsa alla parità di genere  con la rivendicazione della diversità ontologica del femminile rispetto al  maschile. Oltre a quelle della Libreria delle donne, sono tante altre le  studiose che insieme ai numerosi collettivi e ai vari Centri di documentazione  daranno vita a un movimento culturale e politico che ben presto si diffonde in  Europa. Il dibattito è vivo, considerando, anche, le molte critiche. A questa  esperienza sono riconducibili la comunità filosofica Diotima, nata a Verona nel  1984. Importante è il volume del 1987 Non  credere di avere dei diritti, pubblicato a Milano. Il sottotitolo  dell’opera – La generazione della libertà  femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne – ben sintetizza  l’esperienza e i temi del dibattito politico del tempo.  Lo scopo del dibattito è favorire  l’aggregazione fra donne e il loro conseguente processo di consapevolezza. Però  sono accusate di aver assunto l’ordine simbolico e il sistema di potere  maschile come parametro di riferimento, misura e principio unico di realtà. Per  questa ragione, secondo le teoriche della differenza, le politiche di parità  rischiano di riprodurre l’adeguamento, il conformismo e l’omologazione ai  modelli maschili, con la conseguente cancellazione o marginalizzazione della  piena e libera soggettività femminile e di un differente principio di realtà.  La differenza sessuale pone al centro dell’elaborazione teorica e della sua  ricaduta pratica la creazione di un diverso ordine simbolico, che renda  possibile la ricomposizione del pensiero con l’esperienza soggettiva, la  materialità dei corpi e la forza delle relazioni, attraverso modalità originali  e autentiche. 
        Ruolo  importante riveste, di certo, la studiosa Adriana Cavarero, che si distaccherà  nel 1991 intraprendendo un’autonoma direzione di ricerca, con il proposito di  elaborare un pensiero italiano della differenza.  Tale gruppo di filosofe si propone di  osservare criticamente la storia del pensiero occidentale con l’occhio della  sola figura femminile del Simposio di Platone, cioè attraverso lo sguardo di  Diotima. 
        Cavarero  difende l’idea di un pensiero duale che riconosca e dia eco alla differenza  sessuale. Muraro sostiene l’alleanza tra donne attraverso il concetto di affidamento  che crea quei legami di sostegno necessari per non soccombere in una società  maschile. Importante è il tema della genealogia al femminile che prende le  mosse dalla rivalutazione paradigmatica del rapporto madre-figlia, come accade  nel libro di Muraro L’ordine simbolico  della madre, del 1991, che recupera alcune tematiche affrontate dalla  semiologa e psicoanalista francese Kristeva, allieva di Lacan. Un elemento  fondamentale comune alle teoriche della differenza è la questione del  linguaggio e del peso specifico che esso comporta nell’acquisizione delle  strutture simboliche, tema sul quale Kristeva ha insistito con la sua teoria  dell’ordine semiotico materno. 
        In linea  con la riflessione intorno al linguaggio è quella relativa alla scrittura  articolata all’interno di uno dei testi fondanti del femminismo, Il riso della Medusa di Hélène Cixous  del 1975, scrittrice e fondatrice del Centro di studi femminili dell’Università  di Vincennes. In questo volume la lettura misogina che Freud pone del mito di  Medusa, nel saggio del 1922 La testa di  Medusa, equiparando la testa mozzata e orripilante della figura mitologica  ai genitali femminili, creando così l’associazione tra decapitazione ed  evirazione, viene ribaltata traducendo la risata gioiosa di Medusa in una sfida  vincente al patriarcato che ogni donna può sconfiggere adoperando la scrittura  per ritornare al proprio sé e al proprio corpo, emendandola dai codici  fallocentrici che condizionano. 
        Di  recente, la perdita per l’Europa di Ágnes Heller è stata una grande mancanza.  La studiosa, appartenente alla scuola di Budapest, corrente filosofica del  marxismo facente parte del cosiddetto «dissenso dei paesi dell’Est europeo»  prima del crollo definitivo dei regimi dell’Est europeo, ha dato un contributo  importante alle teorie etiche, morali, alle concezioni sul bene e sulla  giustizia. 
        Per quel  che riguarda, diciamo così, il panorama giovanile penso che vadano annoverate  donne come Francesca Romana Recchia Luciani, Maura Gancitano, Lucrezia Ercoli,  che in forme diverse rappresentano figure diverse di una riflessione sempre  attenta alle questioni attuali, dai saperi di genere, alla popsophia, sino al  ruolo svolto dai nuovi media. 
         
       
      
  
           
           
         
       
      A cura di    Afrodita Cionchin e Giusy Capone 
          (n. 5,  maggio 2022, anno XII) 
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