Simona Filippini: «Si ha ancora paura delle donne fotografe? Penso di sì»

A giugno, la nostra inchiesta esclusiva sulla donna artista si arricchisce di una nuova serie di interviste che approfondiscono e allargano ulteriormente la prospettiva sull’argomento. Il progetto, a cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin, andrà avanti nei prossimi numeri, continuando ad arricchire la nostra rete per il dialogo interculturale. Tutti i contributi sono riuniti nel nostro spazio appositamente dedicato a questo progetto, Inchiesta esclusiva donna artista.
Con la fotografa romana Simona Filippini volgiamo lo sguardo anche all’artista-donna nell’ambito della fotografia. Anche in questo settore agli inizi la donna-artista ha dovuto faticare per conquistarsi uno spazio abbattendo pregiudizi e schemi mentali patriarcali duri a morire. In questo senso l’apporto di fotografe di tante nazionalità con i loro scatti nel fissare la storia dell’emancipazione femminile è la prova che tale mezzo è servito da grimaldello per smontare una millenaria visione al maschile dell’immaginario, ‘mettendo a fuoco’ il ruolo sociale e familiare della donna.
Dal 2 al 27 giugno 2021, Magazzini Fotografici di Napoli ospita la mostra Rome LOVE di Simona Filippini, curata da Chiara Capodici. Il progetto Rome LOVE, nato nel 1993, è un racconto delicato e profondo, scritto dalla fotografa con le istantanee della sua polaroid in oltre 26 anni e che vede protagonista la sua città natale. Nelle fotografia dell’autrice possiamo ammirare un’insolita Roma, una capitale sospesa, silenziosa, fotografata nelle calme giornate d’estate, periodo in cui la metropoli riposa e respira dopo lunghi mesi di frenetica attività.


Come vede oggi la condizione dell’artista-donna in Italia, con particolare riferimento alla donna fotografa?

In merito al mio medium, la fotografia, voglio qui riferirmi a una mostra del 2015 organizzata a Parigi alla Gare d’Orsay dal titolo, già eloquente, Chi ha paura delle donne fotografe? 1839-1945. Finalmente una storia della fotografia al femminile, una storia che però fa paura! Una paura declinabile in ogni aspetto della vita, paura delle donne in politica, nella scienza, nella medicina... Una paura ancestrale dell’uomo verso la potenza e la forza femminile su cui si è costruito il sistema patriarcale. La mostra parigina nasceva con l’intento ovviamente di abbattere il pregiudizio che la fotografia fosse appannaggio maschile. Il nuovo medium fu percepito come proprio dalle donne sin dal principio e gli uomini del tempo, sottovalutandone l’importanza, lasciarono loro un varco di accesso. Erano donne dell’alta borghesia o della nobiltà che, dopo aver assolto ai loro doveri di madri e mogli, vi accedevano spesso in età matura, penso ai ritratti dell’inglese Julia Margaret Cameron e agli autoritratti dell’americana Frances Benjamin Johnston nei quali l’autrice si traveste da uomo. Sono datati fine ’800 questi lavori dell’autrice americana e già mostrano come la fotografia, con la sua capacità comunicativa, si fece da subito, inevitabilmente, protagonista di un punto di vista nuovo, quello delle donne. È molto importante oggi il numero delle fotografe e artiste che lavorano con la fotografia, se ne ha ancora paura? Penso di sì, il lavoro da fare è lungo e complesso, pesano su di noi molti/troppi anni di diffusione del solo punto di vista maschile e dell’organizzazione patriarcale della famiglia e della società. Penso tuttavia si stia andando verso la buona direzione in questo senso, un percorso lungo che abbiamo intrapreso con decisione.


Autoritratto tratto dalla serie Family at Home, 2020

Pensando all’essere donna fotografa, ravvede un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime dell’arte declinata al femminile?

A mio avviso, la rivoluzione che si compie con e grazie alla fotografia, dalla sua invenzione, è quella di un’attenta e particolare osservazione della vita in ogni suo aspetto, l’impossibile sintesi di questi punti di vista è ciò che chiamiamo realtà.
Certamente molte di noi sentono oggi il bisogno di approfondire temi fortemente legati al femminile, perché, come dicevo, la storia, narrata dal nostro punto di vista, è troppo giovane e i rigurgiti intollerabili di violenza ancora drammaticamente così presenti. Penso alle indagini di una giovane artista come la spagnola Laya Abril (1986), al suo grande progetto A History of Misogyny. Opere fondamentali che intendono mettere un punto su quanto sia stata dolorosa la lotta per le conquiste dei diritti delle donne, conquiste che vengono spesso minimizzate o sottovalutate in questi nostri tempi. Opere che si collegano direttamente alla tradizione artistica inaugurata negli anni ’60 e ’70 da molte artiste e fotografe, penso alle americane Diane Arbus, Cindy Sherman, Hannah Wilke, Martha Rosler, Carrie Mae Weems, all’austriaca Valie Export, in Italia in particolare a Cecilia Mangini, Marcella Campagnano, Liliana Barchiesi, Marisa Chiodo, Ketty La Rocca, solo per citarne alcune. Tutte artiste che attraverso la fotografia e il video hanno scandagliato il tema del ruolo sociale e familiare delle donne ponendo le basi per una necessaria critica all’immaginario che il patriarcato ha costruito in millenni di storia.


Evento Rome LOVE Simona Filippini, Magazzini Fotografici, Napoli

Esiste un network delle peculiari professionalità artistiche, ovverosia un’unione tra i modelli teorici e le prassi artistiche, pensando a collezioniste, critiche, curatrici, artiste della mano e del digitale?

Sì, esistono molteplici esperienze in questo senso. Per esempio, la collezione della fotografa Donata Pizzi, interamente dedicata alle fotografe italiane del periodo 1965-2015 che, con la mostra L’Altro Sguardo a cura di Raffaella Perna, ha inteso proprio valorizzare e preservare una parte fondamentale della storia della fotografia in Italia. La stessa Perna è autrice del libro Arte, fotografia e femminismi in Italia negli anni Settanta. Potrei dimenticare qui troppi nomi importanti tra le/i critiche/i e le artiste, ma voglio ricordare un’altra importane mostra, che ha posto al centro d’indagine il rinnovato interesse verso l’arte delle donne e l’arte femminista, del 2010 alla GNAM  Donna: Avanguardie Femministe degli anni ’70, realizzata in collaborazione con Sammlung Verbund di Vienna, ben 200 opere di 17 artiste.
Sono stata invitata a partecipare al progetto Il Sangue delle Donne a cura di Manuela De Leonardis, con altre 67 artiste internazionali. Esiste dal 2017 l’Associazione Donne Fotografe Italiane, siamo circa 50, molto diverse nella storia personale e negli stili, ne fanno parte figure importantissime del panorama italiano quali Paola Agosti, Paola Mattioli e Liliana Barchiesi. La presidente e fondatrice dell’Associazione, Patrizia Pulga, è autrice del libro Le donne fotografe dalla nascita della fotografia ad oggi, uno sguardo di genere, un censimento di moltissime tra le fotografe attive nel mondo. Nel 2018 è nata la Biennale della Fotografia Femminile di Mantova, una realtà che non ho ancora avuto l’occasione di visitare.


Rome LOVE, Laghetto dell'Eur #1, 2018, originale Fuji 10x6 cm ©Simona Filippini

Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi e i ruoli stereotipati delle donne, mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere. La sua storia personale può documentare ostacoli dovuti alla sperequazione di genere?

Sono nata nel 1966, in una famiglia poco interessata alla politica e ai movimenti di quegli anni. Mio padre dirigeva l’azienda fondata nel dopoguerra dai miei nonni, mia madre era a casa con noi figli. Primogenita di tre, sono stata cresciuta in modo apparentemente moderno, stimolata all’autonomia e a una certa indipendenza, ma mi fu presto chiaro che dell’azienda di famiglia, con mio padre, se ne sarebbe occupato mio fratello, più piccolo di me di due anni. Quando decisi, abbastanza presto, che la fotografia sarebbe stato il mio campo d’azione, già da molto piccola ne ero affascinata, lasciarono felicemente che me ne occupassi purché non entrassi in conflitto con la gerarchia patrilineare della famiglia. Così è stato, e fino a quando sono diventata madre non ho avvertito grandi ostacoli rispetto al mio lavoro. Solo in quel momento a 30 anni, di nuovo ho toccato con mano quanto il mio essere donna mi stesse penalizzando. Ancora oggi penso che le difficoltà maggiori si incontrino nelle relazioni familiari, nella famiglia d’origine così come nella famiglia che creiamo. Qui, prima ancora che durante gli anni di studio, dove le ragazze eccellono, prima che nell’ambiente di lavoro, nella famiglia si annidano tutte le insidie che costringono le donne a fare un passo indietro. La situazione poi si fa ulteriormente penalizzante per chi sceglie di lavorare nell’arte. Un campo che non è mai considerato produttivo in senso classico.


Di Lei, copertina catalogo 2009 ©Simona Filippini

Quali sono gli ingredienti caratteristici del suo linguaggio, del suo codice comunicativo rispetto al ʽfemminile’ rappresentato palesemente oppure celato?

Ho un linguaggio poliedrico, amo sperimentare, utilizzo la fotografia analogica, così come il digitale, il bianco e nero come il colore, la polaroid e il video. Dipende dal progetto che ho in mente. Difendo questa molteplicità espressiva. Fotografo la mia città, Roma, dal 1993 con apparecchi istantanei, Polaroid e Fuji. Ne è nato il progetto in progress RomeLOVE.
Realizzo progetti in pellicola b/n in medio formato, la serie di ritratti iniziata nel negli anni ’90 a Parigi tra cui quelli alla ballerina Andreana Notaro del 2005, di cui uno in mostra attualmente al Brescia Photo Festival nella collettiva Scolpite dell’Associazione Donne Fotografe Italiane, o il progetto Forcella nella mostra Alza gli occhi e guarda esposto a Palazzo Reale a Napoli nel 2005. Curo progetti partecipati, come il Di Lei, Donne globali raccontano (2009), dove ho seguito per diversi mesi 10 donne, provenienti da paesi extra-comunitari, alle quali ho chiesto di fotografare il loro quotidiano all’interno delle famiglie italiane presso le quali lavorano. Affrontando qui alcuni dei temi che mi stanno più a cuore: il ribaltamento del punto di vista tra italiani e immigrati in Italia, l’auto-narrazione, la relazione tra donne e in particolare la relazione tra datrice di lavoro e lavoratrice dipendente. È un tema quest’ultimo che mi ossessiona e sul quale concentrerò le mie energie, sia nella realizzazione di una nuova edizione del progetto Di Lei, sia scandagliando nella storia familiare.
Il progetto Femminile, Plurale (2010) dove, con la collaborazione delle fotografe Sveva Bellucci ed Eva Tomei, ho allestito un set alla casa Internazionale delle Donne e invitato le donne a venire e fotografarsi a vicenda la parte di corpo che più amano di sé.
Il video Italiani per Costituzione, realizzato con Matteo Antonelli nel 2013, dove intervistiamo diverse ragazze e ragazzi di seconda generazione sugli articoli della Costituzione Italiana.
Direi che in diversi dei miei progetti artistici il tema del femminile è centrale, quindi quasi ostentato, in altri più celato.
Come docente di fotografia e di educazione all’immagine inserisco sempre nei percorsi didattici fotografie iconiche che stimolino nel gruppo classe una riflessione sulla rappresentazione di genere, sulla costruzione dell’immaginario e degli stereotipi legati ai generi. Ne nascono dibattiti estremamente interessanti.


Andreana Notaro, 2005 ©Simona Filippini
Stampa ai sali d’argento da film 6x7 cm

Innumerevoli sono i suoi scatti. A quale tra le sue immagini è maggiormente legata e per quale ragione?

Sì, ho fotografato moltissimo, utilizzando la fotografia come strumento di conoscenza. Ero a Parigi nel 1992, arrivata lì nel 1989 sperando di diventare l’assistente del fotografo Paolo Roversi, dopo aver lavorato con lui due anni, ero rimasta e cercavo di lavorare come libera professionista.
Mi interessava il ritratto soprattutto, incontrare le persone, conoscerle. Ho ritratto molte attrici e attori, registe e registi, figure importanti del mondo della cultura. Poi quando furono assassinati Falcone e Borsellino nel 1992 ho sentito una nostalgia forte dell’Italia. Com’era possibile che nel mio paese succedessero cose così tragiche e io neanche conoscessi la Sicilia? Così sono partita per Palermo, dove sono rimasta sei mesi, ho fotografato le manifestazioni di commemorazione del 1993, vendendo i reportage in Francia, soprattutto. Ho conosciuto molte delle persone che formarono in quegli anni un movimento di lotta alla mafia e alla mentalità mafiosa, gente comune, intellettuali, giornalisti, fotografi. Sono legata alla fotografia che ho scattato al magistrato Antonino Caponnetto, capo del Pool antimafia, il 23 Maggio del 1993. Era l’anniversario della morte di Falcone e lui parlava sotto casa del Giudice, proprio sotto alla magnolia che si trovava all’ingresso del fabbricato e che divenne l’Albero Falcone. Due carabinieri lo proteggevano con i propri corpi, ero lì sotto, schiacciata tra loro e la folla che lo applaudiva, potevo vedere solo il volto e il microfono. Riuscivo a girarmi a fatica e ho scattato pochi fotogrammi, si vede Caponnetto con il braccio alzato in segno di vittoria e lo sguardo commosso dei giovani carabinieri della scorta. Un momento storico indimenticabile che sono felice di aver vissuto e fotografato, nel guardare l’immagine sento ancora i cori «chi non salta un mafioso è, chi non salta un mafioso è».
È impossibile citare tutte le fotografie che mi sono care, in oltre trent’anni di lavoro, ho degli archivi imponenti. Tra quelle dell’ultimo periodo forse posso citare una serie di fotografie che ho scattato durante il funerale di mio Zio Paolo, un uomo che mi è stato molto caro. Era consuetudine negli anni che realizzassi durante gli incontri familiari un ritratto di famiglia, dal tetto della casa degli zii, la famiglia è numerosissima, circa 30/40 persone tra adulti e bambini, quindi si rendeva necessaria una ripresa dall’alto. Per il funerale, mia zia era riuscita a ottenere che la funzione si svolgesse in giardino, in stile americano. Ho sentito l’impulso di salire sul tetto e scattare la fotografia di famiglia, quella di sempre. Non lo feci a cuor leggero, temevo che i miei cugini o altri parenti potessero risentirsene e pensassero che violassi un momento di dolore privato. Dopo qualche giorno mia cugina Francesca mi chiese se avessi delle fotografie della funzione. Ne feci delle stampe molto grandi, perché mia zia potesse vedere bene quante persone, oltre alla famiglia, erano state presenti. Le guardò con grande attenzione e mi ringraziò con molto affetto. Può essere difficile talvolta far comprendere che la fotografia è un gesto d’amore e di attenzione, soprattutto quando l’obiettivo è rivolto verso i propri familiari.


Antonino Caponnetto parla sotto all'Albero Falcone, Palermo 23 Maggio 1993
©Simona Filippini


Ha un intento programmatico ovverosia una narrazione da trasmettere e proiettare nel futuro?

Ho imparato a calibrare le mie energie negli anni, oggi sono più organizzata e cerco di portare avanti i miei progetti con maggiore coerenza e regolarità. Non è stato semplice per me raggiungere questa consapevolezza, ho sempre alternato progetti personali a lavori commissionati e reportage più di matrice giornalistica, spesso perdendo la concentrazione, tuttavia anche arricchendomi di ogni esperienza. Al momento, come detto prima, lavoro a un secondo capitolo del progetto Di Lei. Ho coinvolto alcune delle nuove cittadine già presenti nell’edizione del 2009, mi interessa proprio indagare cosa sia successo nelle loro vite nei 10 e più anni trascorsi dalla prima mostra. Ci sono tuttavia anche nuove presenze con le loro storie. Ci vorrà ancora del tempo: coinvolgere le persone e far sì che raccontino la propria vita fotograficamente è qualcosa che richiede i tempi giusti.
Sto anche lavorando alla fase finale di un progetto che ha come focus la mia famiglia e che ho iniziato circa dieci anni fa. La mia ricerca su Roma è sempre in corso e attualmente la mostra RomeLOVE, a cura di Chiara Capodici, è ospitata a Napoli presso Magazzini Fotografici. Anche questa, una bella struttura dedicata alla cultura fotografica, è diretta dalla fotografa Yvonne De Rosa e gestita da uno staff di donne.


Boys & Guns, 2000 ©Simona Filippini

La fotografia è stata una scelta o un inciampo del destino? Quali consigli sente di fornire a chi intendesse intraprendere questa professione artistica?

La fotografia è stata una scelta, vengo da una famiglia, soprattutto da parte di mio padre, di patiti della fotografia. La nostra casa era già piena di fotografie ben prima dell’avvento del digitale. Nell’azienda di famiglia, che si occupava di grandi insegne luminose, era sempre stata presente la figura del fotografo, dagli anni ’50.
Mio padre, da ragazzini, ci portava in giro a fotografare. Quasi una mania. Ho deciso presto di diventare fotografa, già al liceo ritraevo le mie compagne di classe.
Sono moltissimi oggi e sempre più numerosi forse le/i giovani che vorrebbero intraprendere questa carriera, solo a Roma sono sorte molte interessanti scuole e accademie. A queste/i giovani, consiglio sempre di sperimentare le diverse tecniche, di scattare con il film, di studiare cinema, letteratura, storia della fotografia, filosofia… lo spessore di un progetto fotografico dipende da quanto si è visto e si è letto. Da quanto si vive e si è vissuto con passione. Dico loro di essere umili ma determinati, di insistere.
Di lavorare tanto cercando di non avere fretta. Di non scoraggiarsi, perché sarà dura. Tuttavia c’è sempre più bisogno di persone sensibili capaci di osservare il mondo con sguardo benevolo, di persone dotate di un senso critico pronte a utilizzare il terzo occhio della fotografia come lente d’ingrandimento sul mondo.
Alle colleghe giovani dico, se possibile, di scegliere bene il momento nel quale diventare madri. Molte non beneficeranno di congedi parentali, né del sussidio di maternità… nello stesso tempo consiglio loro di fotografare i propri figli il più possibile, le aiuterà a osservarne la crescita e le fasi di autonomia. E a non dimenticare di essere fotografe.


Italiani per Costituzione, frame del VIdeo, 2013 ©Simona Filippini




A cura di Giusy Capone e Afrodita Cionchin
(n. 6, giugno 2021, anno XI)





Profilo biografico
Simona Filippini, laureata al Dams con una tesi sulla Storia e Critica della Fotografia, è fotografa dal 1986. Espone in diverse mostre personali e collettive in istituzioni museali e gallerie sul territorio nazionale. Collabora assiduamente con numerose aziende nazionali e internazionali, pubblica testi e fotografie su «Sette» del «Corriere della Sera», «Venerdì» di «Repubblica», «L’Unità», «Le Città Nuove», «DWF», «Nouvel Observateur», tra i magazine più importanti. Nel 2008 fonda l’associazione CAMERA 21- fotografia contemporanea.
Cura il progetto DI LEI, donne globali raccontano, nel quale 10 donne extra-comunitarie raccontano fotograficamente il quotidiano delle famiglie italiane presso le quali lavorano, ne cura la mostra a Palazzo Valentini a Roma e il catalogo ed. Iacobelli (2009).
Idea il progetto partecipato Femminile, plurale, dove 72 donne di ogni età fotografano la parte di corpo che preferiscono di sé, ne cura la mostra e il catalogo ed. Iacobelli (2010).
Idea il progetto partecipato BOX21, ritratti in piazza, realizzato in numerosi festival sul territorio nazionale. È regista e co-regista dei cortometraggi Italiani per Costituzione e 25, 2013 – A Scuola anch’io, 2018 – 42 gradi Nord/12 gradi Est, 2019.
Collabora con numerosi istituti scolastici pubblici e privati presso i quali cura seminari e laboratori di educazione all’immagine.
Dal 2016 è docente di fotografia presso Officine Fotografiche Roma, dove cura i corsi dedicati ai bambini e agli adolescenti.

Sito personale: www.simonafilippini.it