Veronica Tomassini: «Dove per gli altri dimorano le ombre, per me comincia la luce»

Nella serie Femminile plurale ospitiamo a maggio la scrittrice e giornalista Veronica Tomassini, siciliana, ma di origine umbre, come tiene a precisarlo. Collabora con «Il Fatto Quotidiano». Ha esordito con il romanzo Sangue di cane (Laurana editore, 2010), seguito da l’e-book Il polacco Maciej (Feltrinelli, 2012), poi dai romanzi Christiane deve morire (Gaffi, 2014), L’altro addio (Marsilio, 2017), Mazzarrona (Miraggi Edizioni, 2019), finalista al Premio Strega 2019.
Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce (2020) è il suo ultimo libro, per il quale ha scelto il self-publishing come gesto politico, contestatario. È un romanzo epistolare, un viaggio metafisico nel male da cui scaturiscono l’amore e la compassione. Un libro che abbraccia il trascendente, lo interroga, dove i personaggi naufragano per poi cogliere brandelli di infinito, alla maniera di Dostoevskij, non a caso tra gli scrittori che hanno maggiormente influenzato Veronica Tomassini.


Sangue di cane,
Il polacco Maciej, L’altro addio, Mazzarrona, Vodka siberiana. Lettere epiche e alticce: su quali temi si concentra la sua riflessione?

Il mio sguardo, più che altro, deraglia puntualmente, rovina dove gli altri lo tolgono. Dove per gli altri dimorano le ombre, per me comincia la luce. Quindi, sono riflessioni sul filo di una umanità provata di solito, che indugia su luoghi scomodi, sulla porzione di mondo più ostile, se vogliamo. Mi interessa il momento in cui le nostre certezze riparano nell’imperscrutabilità del destino, mi interessa l’uomo nel momento della sua caduta, il bivio in cui mi sembra di sorprendere una qualche verità superiore e sovrana. Il momento in cui l’invisibile si autodetermina e promette a ognuno la sua parte ultramondana, un biglietto per l’infinito. Siamo stati biologicamente forse concepiti dentro la grande assenza, il grande vuoto, la mancanza che si esplica nella risposta solo nel momento della debolezza, della fragilità, della tenebra che annuncia lei soltanto il suo contrario.


Il suo Vodka siberiana gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Quale idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Domanda difficilissima. I rapporti umani sono l’incognita, enorme, sono ambivalenti, grotteschi, crudeli. Dipende. Procedono su strade carraie, mai su autostrade. Non ho alcuna idea di cosa siano i rapporti umani, nemmeno questo romanzo ne indaga le profondità. Soltanto ne prende atto, dell’elenco di pulsioni che lei mi cita nella domanda, nel romanzo si verifica la stoltezza o la straordinarietà dell’una e dell’altra (dell’ossessione, dell’attrazione, di una miseria morale che rinasce sorgiva simile all’araba fenice in procinto di diventare un miracolo), si aprono come un ventaglio, un’affascinante raggiera. Non c’è una questione etica, una domanda sociologica, o peggio psicologica, nel romanzo, in una sottolettura; non sarò mai nei miei scritti pedagogica o esemplare, al contrario. Nel romanzo, le pulsioni, le relazioni umane, succedono, di fatto, come la vita.


«Perché la creatura piange?»: è ineludibile il dolore?

Sì. Il dolore è al centro del destino dell’uomo. Della Storia. La Storia nella storia minima. Il dolore è una lente, è un bisturi, detiene la lucidità sferzante, apre la porta della conoscenza, segreta, da cogliere velocemente, appena un brano, quel poco che ci è concesso. Non è possibile ignorarlo, non contemplarlo. Salire sulla Croce per l’uomo di fede, contemplare il Viso eterno immutabile, riconoscere nei rivoli di sangue sulla fronte, nella contrizione, nel tenero Agnello sacrificato, il viaggio nella salvezza. Pauroso, terribile. Ma questo è.
«Perché la creatura piange», si chiedeva Dmitrij ne I Fratelli Karamazov (come scrive Davide Brullo, nella recensione a Vodka Siberiana, sulle pagine de «Il Giornale», nda), perché? Nell’inesplicabile vuoto, o nel pianto inenarrabile, supplichiamo il Padre, Ciò da cui tutto è, tutto inizia e si completa. Il pianto come un vallo, un ponte, un attraversamento, per raggiungerLo.


Quanto sono politici i corpi dei derelitti che popolano le sue pagine? Quanto denunciano il crack morale occidentale gli alticci dell’est dell’Europa?

Sono corpi politici; sono il dito puntato contro una coscienza collettiva inesistente, sazia, pingue, involgarita. Posso testimoniarlo con fatti, uomini che morivano in una grotta assiderati, nella città in cui vivo, una città del sud; uomini che morivano in un parco, bevitori, senza tetto, nello sbadiglio generale di quelli che stanno dalla parte giusta. Morivano. Ricordo bene la disperazione, l’impotenza, a provare di salvarne uno si rischiava di impazzire per l’iniquità, lo spregio dell’indifferenza, la brutalità degli altri, distratti sempre, un passo più in là, sempre. Ricordo un bevitore, malato di cancro, dormiva in un parco, al freddo, faceva la chemio e poi andava a dormire in un parco, su una panchina. Sono diventata un’eretica, un’anticlericale, durante le omelie in chiesa, più di una volta, volevo balzare su, sulla panca, sull’altare e urlare: la salvezza è fuori da qui, non vi accorgete che c’è una guerra fuori da qui? Pontificate il vostro moralismo inutile, inapplicabile, ma Lui è fuori da qui, tiene la fronte barbone, lo solleva dai suoi escrementi, è fuori da qui.
Sono diventata un’anticlericale, la chiesa del Gesù rivoluzionario e scalzo non c’entra niente con le gerarchie ecclesiastiche e certi fasti offensivi.


Ex mercenari, ladri, traditori: è un romanzo catartico o redentivo? Serpeggiano intenti morali?

È redentivo, è la storia di un miracolo. Nella stoltezza, la storia di un miracolo. Erano tutti dei perdenti, ma hanno vinto, nella mia memoria, non c’è più nessuno di quel mondo, mi manca terribilmente. A volte penso: ma è esistito davvero? Dove sono andati? Moralismo: no, proprio no. Chi scrive, la voce narrante, è essa stessa la sacerdotessa del deprecabile.


Qual è lo status attuale della critica in Italia, come istituzione culturale e manifestazione del pensiero critico?

Una critica militante? Non saprei più, nondimeno ci sono nomi enormi, Giovanni Pacchiano e Angelo Guglielmi, ho avuto il privilegio di essere recensita da loro, che considero appunto giganti. Ci sono anche nomi interessanti, mi viene in mente Davide Brullo, avventato e onesto. E poi davvero non saprei dire di più.


Quali direzioni, mete o deviazioni vede attualmente caratterizzare il panorama culturale?   

Le sembrerò una disfattista, ho la sensazione che siamo in una fase di ristagno, di stanchezza.
                                              

In riferimento alla cultura romena, quali nomi hanno attirato la sua attenzione?  

Cioran, senz’altro Cioran.


La scrittura contemporanea può annoverare letterate illuminate, vere pioniere quanto a innovazione e rispetto della tradizione. Qual è l’attuale status della letteratura esperita da donne?

Lo status attuale lo conosco male, evito storie ombelicali e interni borghesi, se mi è possibile, la tendenza è un po’ questa, cosa bisogna raccontare d’altronde se non la vita. E se la tua vita è giustamente connotata di buone maniere, consuetudini, uniformità, non so come spiegare, be’, allora è un po’ un problema. Ritengo tuttavia che perlopiù non esista una letteratura femminile, né una donna che scrive. Esiste uno spirito bifronte, immagino qualcosa di millenario, che si replica di secolo in secolo, assumendo ogni volta un nome, un corpo, uomo o donna. Viola Di Grado, Ilaria Palomba, Cristina Caloni, cito loro, giovanissime isole di questa letteratura contemporanea. Per il resto, mi sembra che un’affezione riverente a certi criteri come la conformità abbia pagato un prezzo molto alto nel genio, imprescindibile e di ognuno.


Riesce a scorgere un fil rouge che annoda le plurime e molteplici anime della letteratura declinata al femminile?

Azzardo, non ne son sicura. Forse le donne hanno raccontato con uno spirito implume e tragico il medesimo quesito che attiene all’amore. Non c’è altro, a pensarci bene. Questo fuoco le contraddistingue, in qualche modo.


Taluni reputano che la Letteratura non prescinda dal tempo per interpretare semplicemente lo spirito della Storia universale e che, ciononostante, essa sia congiunta alla finalità delle mode e a qualsivoglia ambito del gusto. Quali potrebbero essere il ruolo e la funzione della scrittura nel frangente storico che stiamo vivendo?

Chi scrive sarà impregnato della Storia, prima che della propria, piccola, irrilevante. La suggestione del tempo non può essere ignorata, il senso drammatico del nostro vivere, oggi più che mai, entra nelle nostre vite e nelle nostre parole. Come potrebbe mai uno scrittore distinguere la vita dalla parola? Il ruolo della scrittura non sarà mai didascalico, o peggio pedagogico, sarà lo scandalo. Ma nulla di più esemplare dello scandalo insegna la vicenda dell’uomo e insegna l’amore, che è quel che conta. Come sempre.








A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone
(n. 5, maggio 2022, anno XII)