Ioana Pârvulescu e il suo romanzo «La vita comincia venerdì»

Nel nostro Focus incentrato sulle scrittrici romene, Ioana Pârvulescu (n. 1960), scrittrice e docente alla Facoltà di Lettere di Bucarest. Per diciotto anni ha tenuto una rubrica settimanale sulla rivista «România literară». Ha diretto una collana di letteratura universale per l’editrice Humanitas. Ha tradotto dal francese e dal tedesco. È autrice di saggi sulla vita quotidiana e romanzi sulla Belle Époque, sull’infanzia e sul personaggio biblico Giona, tutti campioni di vendite. Oltre al Premio dell’Unione Europea per la letteratura per questo romanzo, nel 2018, ha seguito anche quello per il racconto, con Una voce.
Il suo romanzo La vita comincia venerdì (trad. di Mauro Barindi, a cura di Bruno Mazzoni, postfazione di Mircea Cărtărescu) è uscito per le edizioni Voland (Roma) nel 2020. Pubblicato nel 2009 dall’editrice Humanitas (Bucarest), il romanzo ha avuto in Romania uno straordinario successo di pubblico, guadagnandosi nel 2013 il Premio dell’Unione Europea per la letteratura, un riconoscimento che l’ha imposto all’attenzione delle case editrici estere entrando perciò nel circuito virtuoso delle opere tradotte in decine di lingue – è stato tradotto in francese, inglese, bulgaro, turco, svedese, ungherese ecc. – per la qualità letteraria che le contraddistingue.
La storia è ambientata nella Bucarest degli ultimi tredici giorni del 1897, che si apre in un clima carico di mistero:  nei boschi alla periferia della capitale, a Băneasa, è rinvenuto, privo di sensi, un giovane, Dan Kretzu (o Crețu), che in seguito scopriremo essere un giornalista. Nessuno sa chi sia, e per come è vestito, parla e si comporta sembra un tipo sospetto, proveniente da un altro mondo, da un’altra epoca. Mille congetture si affollano attorno a lui. La polizia quindi lo pedina, ma il caso vuole che un altro giovane, di nome Rareș, di famiglia aristocratica, sia trovato, ferito a morte nello stesso giorno e luogo. Sono questi i due misteri che alimentano e vivacizzano la trama del romanzo – collegati alla sparizione di un portafoglio e di una preziosa icona – attorno cui si coagula tutto un folto ed eterogeno universo di personaggi – citiamo i principali: la signorina Margulis, Nicu, il fattorino, il poliziotto Costache Boerescu –, uno più peculiare dell’altro per estrazione sociale e per psicologia, che interagiscono tra loro e, direttamente o indirettamente, con le storie dei due misteriosi giovani.  Con questi ingredienti, il romanzo combina insieme, in una cornice d’epoca, un po’ di giallo, di mistero e di fantastico, il tutto sullo sfondo di un soave e accurato affresco “vintage” di storia e costume nella Bucarest alle porte del 1900, dove il passato guarda al futuro pieno di speranza e di progresso del nuovo secolo ormai alle porte.



Ecco di seguito un brano estratto dal romanzo, dove l’innocenza e l’altruismo di Nicu si incontrano con lo stranito Dan catapultato in un’altra epoca...






Frammento da «La vita comincia venerdì»


– Crede in Dio?
Nicu era entrato nella casa detta dei pittori senza bussare e senza meravigliarsi del disordine che regnava all’interno. Neppure casa sua era una reggia, ma, a ogni modo, quando sua madre stava bene, metteva a posto, faceva le pulizie e lavava i panni. D’altronde, lei faceva la lavandaia di giorno. D’estate andava a lavarsi al fiume, dove le donne, tutte, sguazzavano nude insieme agli uomini senza provare il minimo imbarazzo; d’inverno era più complicato, andava solo in case dove avevano l’acqua corrente. Poverina, aveva le mani «da lavandaia», rosse e gonfie. Le rare volte in cui lo accarezza, sentiva le callosità dei suoi palmi, e, più che altro, gli graffiavano le guance. Lo straniero, appoggiato con la testa su alcuni stracci e avvolto in una coperta marrone, aveva lo sguardo rivolto verso la finestra da cui a mala pena filtrava la luce, e a ogni folata di vento penetrava all’interno, per morirvi, anche qualche fiocco di neve. Aveva un aspetto peggiore rispetto al giorno prima, gli era cresciuta un po’ la barba e per questo motivo sembrava avesse la faccia sporca. Non assomigliava più a Iulia. E anche le guance parevano più scavate. La domanda su Dio piacque molto a Nicu e, se gliela aveva posta, era un segno di grande amicizia da parte sua, era la sua ultima scoperta. Comunque le possibilità per conversare erano limitate, anche se il suo maestro di scuola gli diceva che aveva la lingua lunga e talvolta, per questo, lo tirava per le orecchie o lo picchiava sulle nocche con una verga: «Ti prude troppo la lingua!» e «Non stai mai fermo al tuo posto, a volte sembra che tu abbia i vermi». Nicu i vermi li aveva avuti, in effetti, e il dottor Margulis gli aveva dato da mangiare aglio e sedano e delle pasticche contro il verme solitario, ed era guarito. Voleva fare amicizia con lo straniero, perché si vedeva lontano un miglio quanto era bisognoso di aiuto. Non si aspettava certo di ricevere risposta alla domanda su Dio, sicché disse sempre lui, con quel tono preso dal suo maestro:
– Io credo nell’elettricità. Ma credo anche in Dio, quando mi trovo in difficoltà. Oggi ci credo.
– Oggi ti trovi in difficoltà? Che giorno è oggi?
Vedi come lo straniero gli parla e come capisce di cosa si tratta, non è stupido, né malato di mente, ci ha visto bene, già da ieri. Ma Nicu non si sentiva a suo agio. Rispose:
– Oggi è sabato e sono triste.
– Pure io – constatò in tono secco lo straniero, mentre continuava a guardare lo squarcio nella finestra come fosse un sole con tanto di raggi. Ma il sole era rotto e freddo.
Nicu avrebbe preferito che gli domandasse «Perché?» e che gli raccontasse del portafoglio che aveva cercato invano tutta la mattina. A lui poteva dirlo. Se l’uomo era un marziano, magari sapeva dov’era, senza che dovesse cercarlo, e se all’interno c’era un biglietto della lotteria e se i numeri sul biglietto erano quelli vincenti. Perché diversamente non aveva senso che si sforzasse ancora.
– Come si chiama? – domandò Nicu, sebbene lo sapesse, ma lo straniero non sapeva che lui lo sapeva.
– Dan Crețu. 
– Io, Nicu, cioè a scuola il signor maestro mi chiama Niculae, Stanciu Niculae. Conosci il farmacista Kretzu, quello coi capelli rossicci? In realtà sembrano quasi biondi. A volte mi manda a consegnare ogni tipo di pomate, unguenti, pillole e polveri che fanno guarire. Io faccio il fattorino – disse il ragazzo, cercando di apparire modesto, anche se ne andava molto fiero.
– Che sei venuto a fare qui?
Nicu non sapeva cosa dirgli, sicché si occupò del fuoco.
– Vado al Nido di Cicogna a prendere una candela. Vero che è un bel nome?
– Nicu?
– No, il nome della chiesa, Nido di Cicogna! Mi ha raccontato il cantore che un tempo qui venivano le cicogne a fare il nido sul tetto – che era fatto di scandole. Come sarei contento se ritornassero, a me piacciono tutti gli uccelli, perfino le cornacchie, mentre al mio amico Jacques piacciono un sacco i gabbiani. Li guardiamo perché volano… Vorrei anch’io poter volare, ho sognato di volare. E anche Jacques a volte fa il mio stesso sogno, poverino. Lei ha mai sognato qualche volta di volare?
– Ho fatto molto di più. Io HO volato – disse l’uomo, e Nicu quasi non riusciva a credere che i suoi sospetti venivano confermati: era un uomo venuto dal pianeta Marte caduto sul pianeta Terra. Sbalordito, non osò chiedere più nulla.
Sparì per alcuni minuti e ritornò con una grossa candela, accesa, che riparava con il palmo di una mano. Ammonticchiò alcune stecche di legno che si trovavano nella stanza e gli diede fuoco con bastante facilità, poi scappò fuori di nuovo. Questa volta fece ritorno portando una brocca, dallo smalto ormai consunto, piena d’acqua.
– Tè non ne ho trovato. Se vuole gliela scaldo sul fuoco. Ho portato un po’ di pane, lo preparavano per la messa, perché domani è domenica. Il vino non hanno voluto darmelo, credevano che me lo sarei bevuto io, ma io non ho ancora bevuto vino in vita mia. Avrà fame, lo mangi.       
E si svuotò le tasche della giubba.
– Ha mai parlato per telefono?
L’uomo annuì in segno di conferma, masticando.
– Anch’io, già tre volte, da «Universul», me l’ha permesso il signor Cazzavillan, il direttore. Si sente abbastanza male, con ronzii e crepitii, ma si ha proprio la sensazione che ci sia una persona intera lì dentro, nel ricevitore a imbuto, piccola come una bambolina, con la differenza che non la si può vedere. Alcuni assomigliano alle loro voci, ma ce ne sono altri impossibili da riconoscere, si direbbe che hanno una voce sbagliata, come se non fosse adatta a loro… Le va se diventiamo fratelli?
Non gli rispose. Tacque anche lui per un po’, e sospirò. Tirò fuori la mucca di tasca e ne agitò le zampe.
– Sa, ora si chiama Fira… Senta, io sono venuto ad aiutarla – disse, adocchiando il pane che spariva nella bocca dello straniero, che si era alzato mettendosi a sedere sulla sponda del letto. – Io aiuto lei e forse tu, cioè lei – si corresse – aiuterà anche me, un giorno. Ma io la aiuto comunque, gratis.
Nicu parlava come quando, inghiottito a fatica un boccone, lo si sente di traverso da qualche parte, in gola.
– Chi ti ha mandato?
La domanda suonava un po’ brusca. Il ragazzo ci pensò su un attimo.
– La mia nonnina diceva che è Dio che ci manda e che conosce la strada di noi tutti… Si parla di lei in «Universul», me l’ha letto zi’ Cercel. So pure io leggere, un poco, specie quando è scritto a lettere cubitali. E me la cavo abbastanza bene a scrivere, ma con la mano sinistra. Le lettere cubitali sono quelle grandi, così si chiamano da noi al giornale. E se lei è giornalista, come c’è scritto, la porto io a «Universul», perché il signor Procopiu ha bisogno di qualcuno istruito, che sappia scrivere bene. Il signor Procopiu è una specie di capo, ma solo il direttore Cazzavillan è il capo di tutti. È dalla festa di san Demetrio che cercano qualcuno, da quando cioè improvvisamente se ne sono andati tre redattori, e non hanno ancora trovato nessuno che li sostituisca. Tu, cioè lei, sa scrivere, non è vero? È proprio un giornalista?
L’uomo o non aveva sentito o voleva stare in silenzio. Nicu osservava le sue scarpe colorate, ora ne distingueva meglio le righe viola e verdi. Non sembravano affatto resistenti e si vedeva che erano ancora bagnate, dal giorno prima. Aveva dormito vestito, come i vagabondi.
– Forse le daranno un paio di calosce che hanno a «Universul». Le migliori sono della marca St. Petersburg, tutti i giovani le portano, hanno la doppia suola.
Nicu lo prese per mano, come faceva con sua mamma quando non sapeva bene cosa le succedeva. Gli prese anche il cappello da dentro un secchio, lo strofinò un po’ con la manica della giubba, e si domandò meravigliato da dove saltasse fuori. Come aveva raccontato a Jacques, era sicuro che il giorno precedente non aveva niente in testa. Riuscì a smuoverlo, ma sembrava che lo straniero non si fosse svegliato del tutto. La cuoca della famiglia Margulis aveva raccontato ai ragazzi di certe persone che camminano nel sonno, sui tetti, nelle notti di luna piena, come se fossero sveglie, e, se le chiami, cadono giù, ma per il resto «sono sane come un pesce». Ci sarà stata la luna piena l’altra notte? Non ci aveva fatto caso. Guardò lo straniero con occhio severo. Magari ci si vergogna un po’ a stare accanto a uno conciato così per strada, con il cappotto troppo grande e l’aria di chi è piombato dal cielo. Certo, adesso lui di sicuro avrebbe preferito essere seduto in una carrozza coperta, di lusso, di fianco a un uomo ben vestito, allegro e potente, profumato di patchouli, e non in compagnia di una specie di extraterrestre che puzzava di povertà. Ma in famiglia è così, chi ti capita, ti capita. È come alla lotteria, alcuni vincono, altri perdono. Nicu aveva già adottato, nella sua famiglia poco numerosa, questo Dan, che alla luce del giorno sembrava mite e malato. E se, rifletté, e se era proprio così, se aveva anche lui un fratello sconosciuto che era cresciuto lontano da lui, come accadde nella famiglia di un bottegaio del mercato del pesce? Quando i due fratelli si incontrarono, entrambi si sentirono trapassare da una sorta di scossa elettrica e spuntarono loro le lacrime agli occhi. Anche a lui era sembrato di sentire quella scossa, quando lo aveva visto per la prima volta, tranne che non gli era scesa nessuna lacrima. E se non ti viene da piangere, si può ancora dire che ci si sente come due fratelli?




A cura di Mauro Barindi
(n. 6, giugno 2022, anno XII)