«Adela» di Garabet Ibrăileanu, il primo grande romanzo sentimentale romeno

Adela (Fragment din jurnalul lui Emil Codrescu [iulie-august 189…], Editura «Adevărul», Bucarest 1933) è il primo grande romanzo sentimentale romeno, una storia tenera e coinvolgente, giocata sull’esile confine, sul sottile filo tra amore fisico e amore platonico, tra amore filiale e paterno e amore che non osa andare oltre, tra il detto e il non detto.
Nel periodo mitico e dorato fra le due guerre della letteratura romena, spuntarono come pure gemme i suoi grandi romanzi moderni, ammirati e in qualche modo rimpianti dalla critica e dai lettori (nel numero 5, maggio 2013, di «Orizzonti Culturali» abbiamo dedicato un pezzo a Craii de Curtea-Veche di Mateiu Caragiale, il capolavoro assoluto di quel periodo e non solo); Adela è fra questi romanzi che alla sua uscita suscitò da subito l’ammirazione della critica (gli fu assegnato il premio nazionale per la prosa) ed ebbe un vasto successo di pubblico. Mai prima d’ora uno scrittore romeno era riuscito a scavare così in fondo nei sentimenti, nella psicologia di un uomo e di una donna sorpresi a fare i conti con i propri fantasmi d’amore. Si è scritto e speculato che la storia abbia in qualche modo un risvolto autobiografico. Ovviamente è quasi superfluo anche ricordare che Ibrăileanu di professione non era scrittore, bensì il noto critico letterario e professore universitario che tutti conosciamo, e il suo romanzo è rimasto un unicum nella sua produzione – qualche decennio più tardi, un altro critico letterario, George Călinescu, avrebbe infranto questo record, per così dire.

Sarebbe troppo azzardato vedere in questo romanzo breve e cesellato con squisita finezza i prodomi di temi che Nabokov – e chissà Bulgakov – avrebbero sviscerato più avanti? È una sensazione, un’ipotesi. Un possibile confronto fra Adela e Lolita (o Il maestro e Margherita) potrebbe essere un possibile approccio per gli studiosi. Ovviamente, gli spunti da cogliere e sottolineare in questo romanzo saranno di ben altro calibro rispetto a quelli presenti in queste opere, ma l’idea è lì in nuce per essere sondata.
Emil Codrescu, il protagonista maschile, incarna forse ai nostri occhi moderni un modello desueto di uomo, legato ancora ai cascami di un romanticismo che oggi fa (o farebbe) sorridere. Ma del tutto plausibile per la sensibilità moderna. E Adela, l’eroina del romanzo, in questo senso, pur se legata a un mondo crepuscolare, sembra sovrastare decisamente il compito dottore con la sua esuberanza e la sua carica di seduzione. Anzi, parrebbe decisamente moderna, fuori dai rigidi schemi morali della società di allora: sposata e divorziata, senza figli…, sarebbe stata probabilmente bersaglio e fonte di pettegolezzi e di malignità.  

Il romanzo è stato adattato anche per il cinema con lo stesso titolo nel film diretto da Mircea Veroiu nel 1984 (o 1985) che vinse nel 1985 il gran premio alla Mostra del Film d’autore di Sanremo; la critica italiana ebbe a definire il regista come il «Visconti romeno».     

Di Adela esiste una vecchia traduzione in italiano di Pietro Potestà e Petru Ciureanu, edita nel 1940 dallo storico editore Carabba, editore che fece conoscere tanti altri celebri romanzi romeni. Questa traduzione come alcune altre sono forse oggi attempate, ma soprattutto introvabili, fuori commercio da decenni, e meriterebbero perciò di essere rivisitate e riproposte in nuove edizioni, ridando così vita e circolazione ai capolavori della letteratura romena. 



Frammento da «Adela»


Questa mattina ho incontrato Adela!
Si trova qui da due giorni! È con sua madre e con «la signora Anica».
Non la vedevo da tre anni. Nel frattempo si è sposata e poi separata.
«Signora!» Mi è sempre risultato difficile cambiare l’appellativo di «signorina» in quello di «signora». Ho come l’impressione d’intromettermi in questioni troppo intime, di prendere atto con brutalità di fatti che non mi riguardano e che la decenza vieta che mi riguardino. (Psicologia di un quarantenne, inopportuno e perversamente lucido!). Per giunta, ogni volta che si marita una bella ragazza che fa parte delle mie conoscenze, ho come l’impressione di sentirmi defraudato. Una cosa è certa, non provo una grande simpatia per i loro signori e capofamiglia. Mi limiterò, nel mio intimo, a chiamare Adela usando «signorina». Ignorerò il signor L., causa primaria di tale trasformazione, e ignorandolo, lo nego. Negando la causa, nego l’effetto…
Ma Adela non è stata una semplice conoscenza, è stata la mia amica, e la parola «signora» è legata a fatti e sentimenti inconsueti.
La nostra amicizia ebbe inizio quando lei, con gesti, nelle sue intenzioni, furtivi (perché non me ne accorgessi!), ma estremamente elaborati, si arrampicava sulle mie ginocchia, se ne stava lì da brava per un po’, e poi, sicura del luogo conquistato con tanta strategica abilità, mi sfilava dal taschino l’orologio – la sua grande passione – lo ricollocava al suo posto in tutte le maniere, mi sistemava con minuziosa fantasia i baffi, la cravatta e i capelli. Altre volte, sempre seduta sulle mie ginocchia, consolava la sua bambola che «piangeva» disperata. Io le «mangiavo» i ditini uno dopo l’altro, che io definivo come dei «lecca lecca»; appoggiavo la mia fronte sulla sua perché mi vedesse invece che con entrambi gli occhi solo con uno, lungo da una tempia all’altra, la qual cosa, una volta abituata alla spaventosa visione, la faceva esplodere in una sonora cascata d’ilarità; passavo le dita fra i boccoli dei suoi capelli biondi e, se dimenticavo di preoccuparmi dei suoi fiorellini dorati, mi afferrava il dito, me lo portava al capo e aspettava il risultato con gli occhi fissi sui miei. Ogni giorno dovevo far visita alle sue bambole, tutte, e conoscerle per nome. Alle volte, quando «era indaffarata», me ne affidava qualcuna perché la «vigilassi», anzi, le dovevo dare anche il biberon. Di sera, mi portava in tutte le stanze dove i suoi «bambini» erano coricati in letti lillipuziani, in scatole per scarpe o per il tabacco, mentre quelli meno assistiti dalla sorte erano relegati in giacigli più scomodi. Naturalmente, alcuni bambini piangevano, altri non volevano addormentarsi, perché facevano i capricci, o altri erano ammalati – e lei li redarguiva, faceva loro la morale, li consolava… ciascuno a seconda dello stato d’animo in cui li trovava. Quando arrivava anche per lei il momento di andare a letto, il mio ruolo acquisiva maggiore importanza. Dopo che la tata l’aveva spogliata, dovevo entrare nella sua stanzetta e tenerle compagnia per «alcuni minuti», che talvolta si prolungavano ben oltre il dovuto tanto da costringere la signora M. a mettermi letteralmente alla porta. Il rituale con Adela presso il suo lettino delimitato da un graticcio color verde variava di pochissimo. Di solito le raccontavo una fiaba scelta da lei, sempre la medesima, che non si stancava mai di ascoltare. Era la storia, ovviamente, di un vecchino, di una vecchietta e di due bambine. Gioiva e s’indignava sempre nella stessa maniera, sera dopo sera, sebbene conoscesse il breve racconto, e, ogni tanto, ne cambiavo qualche particolare per metterla alla prova, ma lei mi correggeva sfoderando tutto il suo candore. Alle volte giocavamo a nascondino. Qui la tecnica era complicata. Conversando, a un certo punto mi accorgevo che era colta dall’impazienza. Capivo: voleva nascondersi. Mi alzavo quindi dalla sedia e mi allontanavo di qualche passo. Quando ritornavo, la trovavo con la trapunta tirata fin sopra la testa: si era nascosta. Io allora mi mettevo a cercarla per tutta la stanza: «Ma dove si sarà mai cacciata Adela? Dove si sarà nascosta?» E solo quando non poteva più trattenersi dal ridere e vedeva che per colpa sua si era fatta scoprire, scostava il piumone dal viso e si arrendeva.
In inverno, quando si ammalò di scarlattina e spesso, in qualità di studente in medicina, la vegliai accanto al suo lettino, le insegnai durante la convalescenza un motivetto, che ebbe in seguito un ruolo importante nel nostro legame. Pura riconoscenza per il suo maestro o buffo bisogno di fare effetto? Sta di fatto che, come conseguenza, ogni volta che andavo a casa sua, mi accoglieva immancabilmente con un delicato e monotono «La dada madà», aggiungendo, puntuale, la dedica: «Pe’ te». Adela, vittima della mia infamia, si prendeva la rivincita senza saperlo: quel «La dada madà» era in qualche modo la trasfigurazione, personalissima, dell’universale La donna è mobile, che io le avevo cantato – un’allusione diretta ad alcune sue volubilità. (Le passioni sono sempre avide, per questo mi sembrava sempre di essere tradito.) E ora mi ripagava con la stessa moneta, sfidandomi ogni giorno con la professione di fede dell’infedeltà femminile e aggravando la sfida con la sua personale sottolineatura. Per un po’ di tempo Adela completava quell’accoglimento grazioso ricorrendo a un’altra attenzione speciale. Non appena terminava quel motivo, correva in camera sua e mi portava un vestitino nuovo, rosso come la cresta di un gallo, con applicazioni di filo dorato, e me lo posava sulle ginocchia, lanciandomi con i suoi occhi azzurri certi sguardi eloquenti, che volevano dire chiaro e tondo: «Guarda! Hai mai visto niente di simile?» Ma il vestitino è invecchiato molto in fretta…
Ma la sua gioia più grande era quando la lanciavo in aria, «al soffitto», una gioia espressa prima con risolini gorgoglianti simili a quelli di una tortorella, poi con strilli acuti quando raggiungeva il punto più alto. A volte mi «lanciava» anche lei, stringendomi saldamente le ginocchia con le sue braccine e strillando forte: «Papa g’ande!»
La nostra amicizia era così grande che Adela, quando aveva bisogno di capire l’universo, per il momento ancora in modo parziale, ero io la persona cui preferiva rivolgersi per chiedere delucidazioni. Un giorno, sentendo che sarebbe dovuto venire un veterinario per vedere uno dei cavalli del signor M., mi prese discretamente da parte e mi domandò: «Il dottore che arriverà è un cavallo grande?» Aveva quattro anni. Per quella logica perfetta la lanciai in aria tutto il tempo che volle, passai le dita fra i suoi boccoli, le misi a disposizione il mio orologio, i miei baffi e il mio naso e trascorremmo insieme un pomeriggio gioioso. 
Inutile dire che ero anche il suo confidente en titre. Un pomeriggio, quando mi vide entrare (mi stava aspettando!), mi venne incontro amareggiata, furiosa, indignata per confidarmi la terribile offesa che aveva ricevuto da una signorina, figlia di un vicino: «Madameta mi ha dato del tu!» Era una cosa terribile, in effetti. La piccola moldava sapeva che quel pronome insignificante si usava solo per rivolgersi ai domestici… Aveva tenuto segreta quell’inaudita offesa. Le altre persone spesso si prendevano gioco delle sue sfuriate, la qual cosa la faceva arrabbiare ancor di più e la rendeva circospetta.
Ci scrivevamo anche. Nelle lettere d’affari o d’invito del signor M., recapitate da un garzone, trovavo di frequente anche un post-scriptum «scritto» da Adela – certi scarabocchi incredibili, certi grovigli complicati, certi geroglifici… – con i quali mi teneva al corrente sulle sue bambole, oppure voleva che andassi da lei, oppure mi raccontava qualche sventura, ed era convinta che io li capissi. Quando, finalmente, attorno ai cinque anni, imparò un alfabeto più semplice, quello latino, ricopiava in continuazione le lettere su qualsiasi pezzo di carta che trovasse in casa, e mano a mano che le copiava, me le portava perché io le ammirassi. A volte per compito assegnava anche a me da scrivere delle lettere e con me si comportava nell’esatto modo in cui si comportava con lei la signora M.
A causa della nostra grande amicizia, la signora M. mi diceva, per scherzo, che «avevo fatto girare la testa» a sua figlia. Ma sua figlia la testa l’aveva fatta girare anche a me… Diventai perfino geloso dei signori M. e quando avevo la sensazione che Adela tenesse più a me che a loro, provavo una gioia che coltivavo con avidità, in segreto. E poiché i signori M., per ragioni pedagogiche, erano costretti a comportarsi in modo riservato con lei, io sfruttavano senza vergogna la mia situazione, da irresponsabile, per conquistare il suo cuore. Ma la signora M. non poteva lontanamente rendersi conto dell’intensità della nostra passione. Mi sentivo in imbarazzo a coccolare la bambina davanti a tutti – non sono mai riuscito a baciare i bambini in pubblico – le divoravo gli occhi, il nasino, le guance, i riccioli, la nuca quando eravamo noi due soli. Durante questi tête-à-tête non mancavano neppure dei dialoghi appassionati:
– Adela, mi vuoi bene?
– Ti vo’io bene!
– Ma tanto?
– Ta’tto, ta’tto!  
È vero che le risposte non avevano il calore e la sfumatura delle domande. A quell’età, fra quelle parole astratte e il loro contenuto non c’era perfetta corrispondenza. Adela le pronunciava con aria seria e grave.
Il segreto della nostra reciproca passione era semplice. Lei mi «aveva fatto girare la testa», perché tutti noi, per un istinto atavico, proviamo tenerezza per i piccoli (e, per derivazione, per i piccoli di animale, per le piante in bocciolo e perfino per gli oggetti in miniatura); perché Adela era un giocattolo in carne ed ossa e colma di sorprese; e poi quella persona che ero io, senza sorelle né mamma, aveva concentrato sulla bambina ogni possibilità di affetti familiari. Io le avevo fatto girare la testa perché entravo nella mente dei bambini, cioè nella sua, e perché certamente, con il suo istinto da cucciolo, sentiva che l’adoravo. Ma Adela non era solo un cucciolo egoista. Era capace anche di azioni altruiste, a volte molto dispendiose per lei. Spesso, per condividere assieme a me la causa della sua felicità, quando sgranocchiava una mela – di solito ancora acerba – seduta sulle mie ginocchia, ne avanzava un pezzetto, scolpito con i suoi dentini come se si trattasse di un gioiello dal quale fossero state tolte delle pietre preziose, e con la sua mano da bambolina, me lo infilava in bocca. E poi mi prendeva per i baffi, attenta al risultato. Non ci si può immaginare un frutto più saporito e un idillio più incantevole di questi… Ma il suo altruismo la induceva a porre perfino in pericolo la sua vita per me. Se qualcuno fingeva di voler picchiarmi, lei accorreva a difendermi con l’arditezza di una piccola e agile chioccia, che attaccava temeraria, alla cieca, gli aggressori anche quando erano in soverchiante numero.
In un’unica occasione la nostra amicizia fu offuscata, per alcune ore, a causa della mia stupida insensibilità verso le sue delicate avances. Un giorno il signor M. mi accolse al mio arrivo con alcune notizie non buone per lui, e io non prestai ad Adela adeguata attenzione, rimanendomene distaccato e freddo. Allora lei strinse le labbra e l’azzurro dei suoi occhi si fece cupo. Poi m’ignorò completamente, ma non lasciò la stanza, e mi ci volle tutto un gioco di strategia, costituito da lusinghe, vigliaccherie e – miserabile corruttore di anime! – soprattutto da tentazioni per poter riconquistarla. Alla fine, riuscii a cavarle un sorriso, e poi, con una trovata comica, una risata senza freni. E dopo ridiventammo ancor più amici, per tutto il giorno.
La nostra amicizia durò fino a quando compì otto anni, assumendo varie fogge, e mano a mano che l’animale andava trasformandosi in persona, essa scemò anche un po’ per via del fatto che, in seguito, io non mi trattenevo più al podere, in sua compagnia, per tutta la durata delle vacanze.
Quando, dopo un’assenza di sette anni, trascorsi di nuovo due estati in campagna, non trovai più la mia Adeluccia, la mia Chicca, la mia Signorinella, la mia Cucciola, il mio Anatroccolo, la mia Alancia (così pronunciava lei la parola «arancia») – così veniva soprannominata un po’ da tutti – bensì una signorina di quindici anni, una ragazza alta, snella, troppo alta per la sua età, troppo snella per la sua altezza, con una folta coda di cavallo di un biondo dorato, legata con un fiocco azzurro, dal viso ancora di fanciulla e tuttavia di una bellezza altera, fiera, quasi orgogliosa, un miscuglio unico, che le donava un’aria da adulta e al contempo ne accentuava l’aspetto infantile. L’amicizia rinata crebbe rapidamente sui ricordi dell’infanzia e sulla sua precocità intellettuale come pure sul mio ritardo affettivo.
Come ai vecchi tempi, percorrevamo a cavallo quasi ogni giorno i cinque chilometri che servivano per arrivare alla loro casa. Adesso ero il suo mentore (da qual momento diventai il suo mon cher maître). Le regalavo dei libri, le suggerivo determinati brani e passeggiavamo per intere ore nel parco, parlando di letture, descrivendole la vita delle grandi città e iniziandola in pratica, dal vivo, alle scienze naturali, per le quali aveva una speciale predilezione. Ma la «ricreazione» durava più a lungo delle nostre lezioni «scientifiche e letterarie», così le definiva lei.
Non assunsi mai un tono pedante e soprattutto nella mia condotta non riuscii mai ad avere l’esprit de mon âge. Quindi, a trentacinque anni, e già da allora con i capelli brizzolati, costruivo trappole per uccelli (Adela aveva gabbie, becchime, conosceva le abitudini e i gusti di tutti i volatili); facevo aquiloni così grandi che lei a malapena poteva sorreggere, che facevamo volare attaccando al filo «messaggi» o fazzoletti e, di notte, lanterne veneziane, confezionate da lei. Mi arrampicavo sugli alberi per cogliere per lei i frutti migliori, nascosti quasi apposta, come nelle fiabe, sulle estremità dei rami più difficili da raggiungere. Facevamo giri in barca sul laghetto, «gettando l’ancora» nelle sue profondità, all’ombra di verdi salici frondosi, come sotto pergolati animati, che ci isolavano dal mondo, per leggere, conversare e ammirare i nostri visi riflessi sullo specchio dell’acqua, oppure per prendere qualche pesce all’amo, attendendo invano durante ore e ore senza che il galleggiante si scuotesse, per divertimento dei pesci riluttanti alle lusinghe. Facevamo fionde per cacciare passeri e cinciallegre, e alle volte ci riuscivamo! Andavamo a raccogliere le more, occasione nella quale Adela incontrava spesso sue amiche d’infanzia. Le sue labbra, arrossite dal succo rosso rubino, conferivano un’espressione provocante alla sua bellezza bionda. Alla fine, cedendo, gradino dopo gradino, al più autentico roussianesimo e contribuendo all’influsso dei libri di Fenimore Cooper, facevamo, di nascosto, archi di vinco e frecce di corgnolo e andavamo a caccia nel bosco! Ovviamente non cacciavamo mai niente.
Ma la ragazza bionda tendendo l’arco, con il corpo teso come l’arco, mi rimase nel ricordo come una splendida visione artistica o da sogno.
(…)
Ma con lei ebbi anche qualche bisticcio. Le parlavo spesso del futuro e, naturalmente, anche di quando avrebbe formato una famiglia. Lei taceva. Ma un giorno mi rispose, arrabbiata, smarrendo per un attimo il rispetto che mi aveva sempre portato:
– Perché insisti sempre a voler che mi sposi?
– Non sono io a volerlo, ma tutte le ragazze si sposano.
– Eh! – esclamò lei brusca, facendo con il capo, il naso e la bocca un gesto d’impazienza.
In un’altra occasione – era durante la seconda estate di villeggiatura – mi pregò di restare di più, io le risposi che non potevo, al che lei mi disse lanciandomi un’occhiataccia:
– Già, che importanza posso avere io per te!
– Quale importanza? Non siamo più amici?
Allora, posticipando la partenza, la rabbonii, tranquillizzandola del tutto. Un giorno prima di partire, mentre durante una conversazione le dissi le seguenti parole: «Quando sarai grande», lei m’interruppe in tono bellicoso:
– Sono già grande. Non sono più una bambina. Credi che se non ho avuto la fortuna di nascere con i capelli brinati…
– Non sono nato con i capelli brizzolati. Chiedi alla signora M. Ma non si tratta di questo. Sei ancora minorenne. Devi crescere ancora.
– Non crescerò più! Non vedi quanto sono alta? Pensi di essere più alto di me?
– Penso di sì.
– Su, andiamo allo specchio… Eh, vedi?
– Sì, lo vedo, sei molto bella, ma sei piccola. Mi arrivi appena alla spalla.
– Non è vero! Sono alta quanto te…insomma, quasi. Ma una donna non deve essere alta come un uomo.
Poi sparì in una stanza e tornò con i capelli incipriati.
– Be’, e ora che mi dici?
– Dico che sei piccola. Ma sappi che stai bene così, come altrettanto bene ti sta la cascata d’oro incipriata. (Con i capelli innevati, spruzzati d’oro sotto la cipria, era davvero di una bellezza rara – era il suo ritratto realizzato dalla raffinata fantasia di un pittore innamorato.) Guai al principe che ti cadrà ai piedi fulminato…
– I principi non cadono fulminati ai piedi delle «bambine»!
Adela aveva ragione. Mi stavo contraddicendo. Cambiai argomento.
Se non avessi conosciuto la sua indole piuttosto orgogliosa che giustificasse la sua ambizione all’uguaglianza; se non mi fossi reso conto che era stata la nostra stretta intimità (come se ci potesse essere uguaglianza tra un uomo maturo e una bambina) a porle il problema dell’uguaglianza; se non avessi compreso che anche la sua vita trascorsa fra persone in là con gli anni aveva contribuito a far nascere in lei il desiderio di sentirsi «grande»; e se, soprattutto, il documento di nascita, l’incorruttibile specchio e l’«introspezione» non mi avessero detto chiaramente che sono un uomo maturo e dai capelli grigi, avrei interpretato il suo comportamento come un’esplosione troppo precoce di un sentimento di altra natura, di cui lei si rendeva conto, e quanto ridicolo e colpevole mi sarei sentito anche senza una colpa reale!
Ma la vita mi allontanò dalla mia unica amica. Non trascorsi più in campagna le vacanze dell’anno dopo. Ero diventato un personaggio ufficiale. In autunno sarei dovuto partire per l’estero, al seguito di una delegazione per alcuni non ben specificati studi comparatistici – una sinecura giustificata quasi abbastanza a sufficienza. Prima di partire, mi recai a Iași.
Il signor M. era morto da alcuni mesi. Trovai Adela vestita di lutto, più alta, meno espansiva e più bella. La sua bellezza aumentava con la fatalità delle evoluzioni naturali.
Durante i pochi giorni in cui mi fermai lì per affari, le dedicai tutte le ore libere che avevo a disposizione. Voleva sapere subito se l’estate prossima sarei venuto in campagna.
– Sei sicura che ti troverò ancora là, a casa di tua madre?
– Ne sono assolutamente certa.
– Nulla è sicuro a questo mondo.
– Se verrai, mi troverai a Vorniceni, con la mamma.
Sapevo che non ci sarei potuto andare, ma non osai dirglielo in quel momento, quando, rimasta solo con la signora M., aveva bisogno del massimo sostegno morale attorno a sé.        
Che lunghe lettere le scrissi dall’estero! Talvolta non avevo nulla da scriverle, tuttavia non potevo non scriverle. Quelle lettere, indipendentemente dai sentimenti del momento, erano diventate una consuetudine alla quale non potevo resistere.
(…)
Dopo alcune lettere senza risposta, non mi scrisse più neppure lei. Le sue lettere non contenevano rimproveri. Ma si facevano sempre più brevi e fredde. Nell’ultima mi diceva: «Se non mi scrivi, non ti posso scrivere neppure io. Ho la curiosa sensazione di parlare da sola». Non potei rispondere neppure a questo suo ultimatum. Allora le lettere dovevano essere ancor più complicate, e la situazione anormale, con il colpevole passar del tempo, era giunta alla sua perfezione psicologica.
Quando, dopo un anno, con un biglietto mi comunicò che si era sposata (un semplice biglietto, speditomi come a una qualsiasi delle sue conoscenze più remote!), ebbi un sentimento di straziante dolore (Adela aveva compiuto il passo più importante della sua vita, senza magari potermi avvertire!) e il più insopportabile sentimento di vergogna della mia vita. Mandai un telegramma con una banale e breve formula di felicitazioni. Una più calorosa sarebbe stata di cinica insensibilità! In seguito venni a sapere che si era separata, subito dopo il matrimonio.
(…)
Porsi i miei doverosi omaggi quando giunsi alla residenza della famiglia M. fui stato sistemato come un vero signore. Portarono da Vorniceni moltissime cose, più del necessario. Trasportarono anche un pianoforte. Indisposto dai sobbalzi durante il tragitto, se ne stava immusonito in un angolo, esigendo assolutamente un accordatore.
La signora M., anemica e malata di reumatismi, è invecchiata parecchio negli ultimi anni. Era così bella quando la conobbi! Come ogni adolescente, m’invaghivo di tutte le giovani signore che conoscevo da vicino. Amai anche lei. Ai tempi dell’adolescenza, per tutta la durata di una vacanza di Pasqua, dedicai solo a lei le ore trascorse sognando a occhi aperti dopo che le candele erano state spente.
Adela assomigliava alla mamma come era allora, solo gli occhi sono diversi. La signora M. ha occhi castani, ora inariditi e sbiaditi. Mai come adesso sono stato colpito o interessato dalla somiglianza fra loro. In un primo momento mi è parso che l’aspetto della signora M. svantaggiasse quello di Adela. Un memento sinistro: Adela già oltre i trent’anni… Ma dopo mezz’ora ho avuto l’impressione che la signora M. fosse lì apposta per far risaltare la giovinezza e la bellezza trionfanti di sua figlia.
(…)



A cura e traduzione di Mauro Barindi
(n. 2, febbraio 2014, anno IV)