L'esodo delle madri, ecco il dramma dell’emigrazione. Due romanzi di Liliana Nechita e Dan Lungu

Grazie alla Settimana della Cultura Italiana organizzata lo scorso febbraio dall’Università di Bucarest e alla conferenza tenuta per l'occasione da Antonio Ricci all’Istituto Italiano di Cultura della capitale, il tema dell’emigrazione romena in Italia ha già avuto spazio sul numero di aprile della nostra rivista. Ora vogliamo accostare la medesima problematica da un’altra prospettiva, quella della narrativa romena contemporanea, di cui si è avuta testimonianza nella seconda giornata della predetta Settimana grazie a una tavola rotonda con gli autori di due romanzi sul tema – Ciliegie amare di Liliana Nechita (Laterza, 2017) e La bambina che giocava a Dio di Dan Lungu (entrambi li raccomando calorosamente ai nosttri lettori) – e la psicologa Maria Iordănescu.
Prima di presentare le differenze di approccio dei due romanzi, è necessario sottolineare una loro similarità, che, d’altronde, caratterizza gran parte della produzione letteraria sul tema, cioè che in entrambi i romanzi l’emigrazione è un fallimento: per quelli che partono e, in genere, anche per quelli che restano. Non c’è dubbio che il fenomeno dell’emigrazione, presente su tutti i continenti e in tutti i tempi, visto dall’alto della storia, ha prodotto nuove civiltà, nuove culture, nuove lingue, ha spinto in avanti il mondo, e quelli che realizzarono questo non furono i vinti bensì i vincitori, quelli che hanno superato il dramma dello sradicamento, che si sono adattati, che hanno riconfigurato la propria personalità ed esistenza e contemporaneamente quelle di chi stava loro intorno. Ma questi sono, se sono, oggetto di studio, collettivo, per gli storici, sociologi, antropologi, ma raramente per gli scrittori. La letteratura invece, che propone sempre una prospettiva ravvicinata, al livello dell’individuo, dei suoi tormenti e drammi, è calamitata dai vinti: le parole di Giovanni Verga all’inizio dei Malavoglia potrebbero fare da epigrafe a questa letteratura, e sicuramente ai due romanzi in questione.     

Ciliegie amare di Liliana Nechita

Il libro di Liliana Nechita è stato pubblicato dalla casa editrice Humanitas non a caso nella collana Memorialistica/ Diari, perché è una confessione: della propria esperienza di emigrante in Italia, raccontata in forma di lettere o piuttosto pagine di diario rivolte a un’amica. Al momento della pubblicazione del romanzo (2013), Liliana Nechita viveva e lavorava, come ancora fa, da parecchi anni in Italia, e la storia di quegli anni è una di solitudine, di nostalgia, di non adattamento, di umiliazioni e di sofferenza per la separazione. Era una madre che aveva allevato da sola le proprie figlie, con cui viveva in una simbiosi velata di amore, tenerezza e sensibilità, decise di abbandonarle quando la povertà a casa le parve incurabile e quando l’unica salvezza per le figlie sembravano i soldi venuti da lontano. Come la maggior parte delle romene arrivate in Italia in cerca di lavoro, la Nechita fa la badante in famiglie che, dato che la pagano e che proviene da un paese che considerano a priori arretrato, spesso la trattano come un essere inferiore, cui si può comandare, limitare lo spazio, il tempo e la libertà. L’esilio volontario di Liliana è una sofferenza permanente, incurabile e indifferente alle dimensioni delle restrizioni di fatto. La sua salvezza reale, esistenziale – non quella metaforica, del personaggio – è la scrittura. Essa riesce a fronteggiare la sofferenza scrivendo. Dalla pubblicazione delle Ciliegie amare Liliana Nechita ha conosciuto successi e riconoscimenti (interviste, trasmissioni radio e televisive, in base al suo testimonial l’Esodo delle madri il canale nazionale della TV romena ha realizzato un eccellente documentario, lei ha cominciato ad impegnarsi attivamente soccorrendo le emigranti romene, nel 2013 ha ricevuto l'onorificenza di «Donna dell’Anno» per la promozione e la difesa dei diritti delle donne, questo primo libro è stato pubblicato anche in traduzione italiana presso la Laterza, e lei si è riconfermata scrittrice con un secondo e bel romanzo).
In questo contesto è interessante osservare che il messaggio trasmesso ai presenti alla suaccennata tavola rotonda, in una registrazione video, è stato identico con quello del romanzo. E questo si può riassumere in questa frase del romanzo: «La vita dell’emigrante è una lenta morte interna. Il tuo corpo può essere ovunque, in Italia, fra le nebbie dell’Inghilterra, sulle pianure della Spagna, le mani colgono o strofinano, le spalle si curvano, ma quando l’anima l’hai lasciata a casa, dentro hai solo la morte». Il commento più corretto (e competente) a questo messaggio deprimente, è venuto da Maria Iordănescu: se questa donna avesse avuto un consulente psicologico bravo non sarebbe mai andata via dal suo paese.  Il libro di Liliana Nechita è impressionante perché sincero, ma deve essere preso per quello che è: la testimonianza soggettiva e sensibile di un’anima che si rifiuta di guarire.    

La bambina che giocava a Dio di Dan Lungu

Nel diario di Liliana le persone care rimaste a casa, per cui si compie il suo sacrificio, sono quasi assenti: sempre rivolta su se stessa, sul proprio dolore di essersene separata, esse sfumano, anzi acquistano col tempo una leggera aureola negativa. Ben diverso è il romanzo di Dan Lungu, dove i rimasti a casa sono la struttura portante del dramma. Sul libro di Liliana Nechita c’è poco da raccontare perché in sostanza esso è uno stato d’animo. Invece raccontare il romanzo di Dan Lungu, con i suoi dettagli, numerosissimi e altamente significativi, diventerebbe una recitazione. Perché Dan Lungu è uno scrittore maturo, che sa creare un intero universo rimanendone fuori; o, per essere esatti, due universi, quello di chi parte e quello di chi resta. Alla già ricordata tavola rotonda Dan Lungu ha svelato le spinte che l’hanno portato a scrivere questo romanzo: una scommessa personale e l’avvio di un progetto fallito. La scommessa era da scrittore: scrivere un romanzo dalla prospettiva di un bambino, un bambino sensibile e innocente, una bambina. Una scommessa rischiosa vinta con brio: la maggior parte del romanzo racconta l’esperienza di Rădiţa, la bambina affidata ai nonni dalla mamma emigrata in Italia, un’esperienza vista attraverso i suoi occhi, pensata dalla sua mente vispa e inventiva, di bambina di otto-dieci anni. La mente di Rădiţa non solo interpreta il mondo in cui vive, complesso, in continua trasformazione, pieno di persone interessanti e per lei fondamentali, ma inventa pure il mondo invisibile in cui vive la mamma e ordisce il piano di andare a riprenderla: perché l’urgenza di Rădiţa viene dal dolore di vedere la mamma sbiadire e cancellarsi dalla vita di tutta la famiglia, diventare sempre più una voce senza consistenza e che parla con un accento straniero. È un miracolo come riesce lo scrittore a farci entrare nell’anima e nella mente della piccola e vedere il mondo con i suoi occhi.
La seconda spinta dichiarata da Dan Lungu, ossia il progetto fallito, veniva dall’Istituto Culturale Romeno che intendeva realizzare un volume documentario sugli emigranti romeni. Il volume non è stato realizzato, ma si è realizzato un viaggio di documentazione dello scrittore Dan Lungu accompagnato dal fotografo Didier Ruel attraverso il mondo povero, variopinto, inaspettato, inventivo, pieno di storie interessanti, di personaggi stupendi, degli emigranti romeni: gente che vive come vien viene, nelle stazioni, in carrozze abbandonate, che non solo ha rimodellato la propria esistenza e le proprie attese, ma se le rimodella di continuo, attaccata alle instabili comunità di connazionali, con un’inesauribile voglia di vivere. Tale documentazione offre nutrimento all’altra metà del libro, il mondo visto dalla madre emigrata. Angosciante, nei due romanzi, è la consapevolezza dei protagonisti che il mondo intorno sta cambiando e che loro stessi stanno cambiando, e che il cambiamento allarga sempre di più la crepa della separazione. Quelli che sono partiti e quelli che sono rimasti diventano sempre più estranei e l’unico legame (frustrante) che resiste si riduce sempre più ai beni materiali mandati a casa.
Non intendo fare qui una presentazione ampia del romanzo. Mi limiterò di nuovo solo al commento di Maria Iordănescu: nella grande finezza con cui Dan Lungu coglie la psicologia della bambina, esistono due situazioni emblematiche che esprimono il capovolgimento dell’ordine normale delle cose nell’anima della piccola: l’invenzione del gioco solitario in cui la bambina ordina, mentalmente, alle persone che stanno per compiere una certa azione di compierla e, siccome loro la compiono, lei si sente Dio – un modo di riacquistare il proprio controllo sul mondo, che prima le veniva assicurato dalla mamma; e il momento quando, immaginando la vita della mamma in esilio, la bambina sente pietà per la mamma e, invertendo i ruoli, sente che solo lei può salvare la mamma dalla solitudine e dall’estraneità.  

Chiuderei queste storie di esilio e di separazione con una testimonianza della stessa Maria Iordănescu, che da psicologa ha lavorato con più di 400 bambini abbandonati dalle mamme espatriate: tutti questi bambini, proprio tutti – ha insistito Maria Iordănescu –, una volta arrivati all’età del giudizio, dichiaravano che avrebbero preferito la povertà totale all’assenza della madre. E non sorvoliamo sul fatto che, tanto nell’esperienza veritiera di Liliana Nechita, quanto nella finzione di Dan Lungu, le mamme lontane, che soffrono la separazione dai figli, al telefono non sanno chiedergli altro che: «Cosa vuoi che ti mandi la mamma?».



Smaranda Bratu Elian
(maggio 2018, anno VIII)