Denisa Comănescu e la sua creazione poetica: «Ritorno dall’esilio»

Nel nostro Focus incentrato sulle scrittrici romene figura anche Denisa Comănescu, una delle più importanti poetesse romene viventi. È stata editore e direttore editoriale di due grandi case editrici in Romania, dal 2007 ricopre la carica di direttore generale della casa editrice Humanitas Fiction. Nel 2006 vi ha avviato la collana di libri personalizzata «Raftul Denisei», dedicata alla narrativa straniera. Le sue poesie sono state pubblicate in oltre 15 paesi.
Fra le sue raccolte poetiche: Izgonirea din paradis / Cacciata dal Paradiso (1979, Premio per Debutto dell'Unione Scrittori della Romania); Cutitul de argint / Il Coltello d’argento (1983); Barca pe valuri / La barca sulle onde (1987); Urma de foc / Traccia di fuoco (1999), con una postfazione di Mircea Ivanescu (Premio del Festival Internazionale della Poesia di Oradea, 1999, Premio di Poesia della rivista Tomis, 1999); Acum biografia de-atunci / Ora la biografia d’allora (2000).
Pubblichiamo una selezione di versi dall’antologia poetica Ritorno dall’esilio, traduzione di Bruno Mazzoni e Mihail Banciu, Transeuropa Edizioni, 2015.


L’ossessione della biografia

Se qualcuno scostasse i miei capelli
se li sollevasse leggermente dalla fronte
come un diamante allucinato affiorirebbe
questa città
con vie solitarie e case sghembe
che crollano giù al semplice richiudersi di un portone
con giardini di sterlizie e cassonetti
dove l’eco dell’infanzia
si sente ancora sussurare:
“Mea mater, mea pater
filium vestrum lupus est”
con la musica che infrange il timpano delle macchine
e le fotografie che uccidono lo sguardo dei vecchi
con la brocca piena di latte
lasciata in ogni casa
dal padre morente
sperando lo trovasse il fidanzato
che lasciò sua figlia
(ma lui non arriva
e il vecchio e spirato invano
o se anche venisse
non gl’importa
pensando che un giorno anche suo padre
venderà l’anima
per chissà quale losca faccenda)
con i lilla nel cortile del pensionato per studentesse -
i ciechi vegliano sui suoi anemici fiori
troppo precoci e avvertono
che i Gemelli sguazzano nell’Acquario

(“È folle, è folle
presto avremo un banchetto”)
con la vecchia gibbosa
che sbeffeggiavi
quando gridava:
“Ti ridurrai anche tu come me
ti ci ridurrai!”
(Una settimana dopo sei caduto
e sei rimasto a lungo sospeso
all’ombra della vecchia
come dei ceppi.
Se fosse ancora in vita nella casetta sotto la collina
quante cose potrebbe ancora dirti)
con l’amica che recava con sé la bruttezza
quasi fosse un portamonete zeppo di denari
(finché pure lei ti ha lasciato:
si e ritirata nell’antro di una montagna
al fianco di un giovane vigoroso, lei
minuta, gracile, raggrinzita...
Quando tornerà
con i libri rilegati con metalli preziosi
molti di quelli che erano rimasti
saranno scomparsi)
con il verginale letto
letto da supplizio
(qualcuno entrava dalla finestra
portandoti via le notti)
su cui ti dibattevi come se
un fantolino avesse instillato i suoi vagiti
dentro di te
e non conoscevi nessuna ninnananna
con i colombi della gabbia avuta in dono

a diciott’anni
(ogni autunno ne uccidi uno
e divini le sue viscere
paffete: muore il padre
paffete: muore l’amato
paffete, bevi del flacone con una dose scarsa di neuleptil
paffete, paffete...)
Nessuno però solleva i miei capelli dalla fronte
nessuno me li scosta leggermente
e questa città dove
“Mea mater, mea pater
filium vestrum lupus est”
e simile a un mare morto
(e invano i ciechi hanno vaticinato
un banchetto
il marcio fu sepolto in me
troppo in profondità
per arrivare da solo in superficie)
rimarrà per sempre celato
come un diamante allucinato.



Io soltanto vado ancora incontro alla gioia

Vidi innamorati in rovina

vidi il sole malato
che sputava su
molti momenti felici
dei miei amici:
con fiori di ghiaccio li ha illusi
gettandogli poi mele marce.
I corpi sventolarono il loro orgoglio di un attimo
in mezzo a impudiche piogge
l’autunno ha delastricato le cose
dei falsi zaffiri
gli sposi incisi sugli alberi
sono fuggiti via...
Io soltanto vado ancora incontro alla gioia
che varca con passi di zucchero il fiume.



Bucolica

Passa il carro dell’autunno chiassoso tra i pioppi
e rammento d’un tratto che il tempo non ha occhi.
Come il cavallo di vecchio lampone mena
tra i villaggi di latte, tra le pietre di lana
gli darei il fisciu verde perché lo stracci: su, assaggia
su, pasci i miei capelli gialli e la sottana scura
il mio corpo sia alla rinfusa qual fuoco sui tesori
perché per lo spavento, se voglio, posso vestirmi da corvo
e aspettarti in lutto a casa di nessuno...
Passa il carro dell’autunno su ruote di cotogna.



Ritratto di fanciulla

Le donne ti dicono
di trovarmi stupenda
e le tue mani
quando mi abbracci
scricchiolano
come sedie vecchie
sei sul punto di vendermi
per la tranquillità di guardare
con gli occhi incontaminati
dei bambini.



Tema libero

Il soggetto posso essere io
tu
o chiunque
il predicato però deve riguardare il sonno
il complemento sia leggero
come il tocco delle tue dita sul seno
ma non dica nulla
della colpa nascosta
nell’angolo dell’occhio destro
non dica nulla
su come essa si spande sulle nostre parole
pronta a iniziare
un’amichevole concorrenza.



Febbre di giugno

immersa fino al collo
decapitata
metti una foglia di lappa
m’insegno la depilatrice,
non occorre un intervento chirurgico
guarirà,
spunterà una testa nuova
assai più resistente e più bella
abbiamo perso la terra sotto i piedi
l’abbiamo lasciata indietro lontano
perché l’hai perduta, si sente l’eco, esiste quel qualcuno?
no, gli risponde la mia voce
come se avessi schiacciato il tasto di un registratore,
quel qualcuno non c’è
c’è il mare, la bambola che mi chiama mamma
con la mano che trema spasmodica come un feto al mattino nel
lavabo
c’è la mia gioventù.



Respirazione recuperatoria

la mia mano destra è un tubo

come pure il mio occhio destro
e la bocca, arrugginito tubo al mattino
quando con due dita provo a sbiancarla
mentre il veleno sta spuntandovi dentro come erba
l’estate scorsa al mare la tua caviglia era un tubo rovente
con quanta disperazione ne sfiorai la delicata tibia
cordone ombelicale tra me e il mondo, la tua caviglia,
magnetico tubo che mi tiene ancora in vita
continuo tuttora a percorrere abissi come onda da lui prodotta
tuttora continuo a respirare solo grazie a esso



Pubblicherò questa poesia

il mio amore per te
e questo prato di radichella alpestre
il tuo rancore lo hanno masticato gli scoiattoli delle picee
la tua fiacchezza è scivolata giù in terra
sotto la prima foglia di acetosella
il tuo corpo mi domina con la sacra merenda
cosa preannunciano le acque del fiume Bistriţa
nell’enorme caldaia ove continuiamo a bruciare?
in noi un vulcano dà strani segnali,
la sua lava sarà forse il mio latte
esasperato per non aver gemmato?



A proposito di Mary Stuart

prendendo in considerazione la tua fuga dal ridicolo
come puoi startene disteso accanto a me
così ridicola nella mia camiciola
che grida che ci ameremo in eterno?
l’infanta è tornata e pretende il trono
non ha tenuto conto del primogenito
non tiene conto che la madre è una vecchia pazza
e il padre è sottoterra
tu lo sai bene, la sua nuova nascita è una finzione
danzi davanti a lei madre-padre-delfino
le getti negli occhi la polvere della corona d’oro
e non le dici nulla di sua sorella
che governa il mondo
del boia nascosto dietro l’uscio
che ne apprezzerà, come te,
il collo altissimo e troppo esile



Chiamata tardiva

pagine piene, vita straziata
in uno stabbio in bucovina
un uomo dagli occhiali azzurrati allontanandosi
fiacco
enormi cani saldandosi la lingua alle mie mani
il clivio del colle come una slitta
e un ruscello come pece che mi chiama a valle
lì nella tiepida acqua andrò a prender sonno
ho un assegno nella borsetta per il più esigente
barcaiolo
quali buone mamme le onde nere.



Sylvia

da te
tutte le poetesse del mondo hanno imparato
a includere nella propria biografia anche un suicidio mancato
quasi che tu fossi stata la camera a gas
ci hai rimpinzato con le pinze d’oro della tua impotenza
due bimbetti, due rose
ci hai strappato l’ultima ridotta di pudore
infantile rivalsa
poiché un pupazzo di neve
ha una sua durata, non mediata, esatta
che te ne faresti di un plotone permanente di pupazzi
di neve, miseri spaventapasseri in un campo abbandonato?
sono abitata da un grido, dice il canto
come se la paura uscisse fuori da te
ed entrasse svolazzando nel suo stesso corpo
all’angolo delle labbra le tracce di un vecchio bacio
sono la lingua di un cavallo
che sbava vicino lo stesso cancello chiuso
che circonda lo stazzo
sono una pallida copia
camuffata in un paffuto poppante che recide con forza
il suo cordone ombelicale
la tua memoria, questo alibi perfetto.




A cura di Bruno Mazzoni
(n. 6, giugno 2022, anno XII)