Inchiesta esclusiva sul ruolo e l'immagine della letteratura ai nostri giorni (III)

La nostra rivista ha avviato, in esclusiva, un'ampia indagine sul ruolo e l'immagine della letteratura ai nostri giorni, tra decine di critici e scrittori italiani, nell’ambito delle serie Incontri critici e Scrittori per lo Strega, di cui proponiamo qui le prime articolate risultanze, divise in tre dense pagine: parte prima, parte seconda e parte terza. L'inchiesta è accompagnata da un saggio introduttivo a cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone. Tutti i contributi sono riuniti nel nostro spazio appositamente dedicato, consultabile qui.
In questa terza parte della nostra inchiesta riuniamo, in 11 interviste, le scrittrici che abbiamo finora ospitato nella serie Femminile plurale: Flora Fusarelli, Federica Iacobelli, Cristina Marconi, Stefania Mazzone, Ilaria Palomba, Romana Petri, Lella Seminerio, Ornella Spagnulo, Nadia Terranova, Veronica Tomassini e Francesca Valente, vincitrice del Premio Italo Calvino 2021 e del Premio Campiello Opera Prima 2022.


Dalla serie FEMMINILE PLURALE


FLORA FUSARELLI (intervista integrale qui)

La scrittura è sempre stata fondamentale, in ogni epoca. Un’arma bianca potente e distruttiva, sferzante e costruttiva. La letteratura non ha tempo tuttavia si adatta ai tempi che vive. Altra cosa è invece la letteratura analizzata all’interno dell’attuale panorama editoriale che non permette – a causa della grande distribuzione imperante e, a mio avviso, di un tipo di informazione standardizzata – una diffusione che si muove in base ai meriti e che dia a chi scrive la possibilità di essere letto.



FEDERICA IACOELLI (intervista integrale qui)

Se parliamo di scrittura, intesa come l’atto di scrivere, il momento storico che viviamo la vede proliferare: tutti o quasi tutti scrivono, tutti o quasi tutti vogliono scrivere. Mentre la letteratura perde peso, la scrittura come espressione e comunicazione di sé, del ‘personaggio di sé’ e della propria opinione, ma anche come storytelling, come contenitore di trame, si prende sempre più spazio negli spazi del nostro quotidiano. E questo fenomeno è senz'altro uno specchio del nostro tempo nella nostra società occidentale e ‘democratica’. Se però parliamo di letteratura, allora la mia indole, unita alla mia piccola esperienza, mi conduce a sentire e a credere che quando si crea, così come si è uomini e donne insieme, si sia anche appartenenti a più tempi, a più epoche nello stesso momento. E forse per questo mi accade di trovarmi tanto d’accordo con Edward Morgan Forster, il letterato e scrittore inglese che un secolo fa, nelle conferenze raccolte sotto il titolo di Aspects of the novel - Aspetti del romanzo, proponeva un itinerario in cui (cito dalla traduzione di Corrado Pavolini) «non possiamo accettare di suddividere la narrativa in periodi e ci rifiutiamo di contemplare il fiume del tempo. Un’altra è l’immagine che si adatta alle nostre possibilità: l’immagine di tutti i romanzieri intenti a scrivere i loro romanzi in uno stesso momento. Essi provengono da epoche diverse e da ceti sociali diversi, hanno temperamenti diversi e diversi scopi, ma tutti tengono la penna in mano e sono assorti nel processo creativo. Guardiamo un momento al di sopra delle loro spalle e vediamo che cosa scrivono. Con questo gesto potremo forse esorcizzare il demone della cronologia che è attualmente il nostro nemico, e che talvolta è anche il loro».



CRISTINA MARCONI (intervista integrale qui)

Io vedo un mondo assetato di storie, da una parte per compensare quelle che la pandemia ci ha impedito di vivere, dall’altra perché è vero che ogni epoca pensa di essere particolare o folle, ma la nostra lo è davvero: in tempi imbizzarriti, abbiamo paura di essere disarcionati e il confronto con altri modi di vivere la realtà è un punto di riferimento importante. Per questo, credo, l’autofiction sta avendo un periodo d’oro: risponde anche alla curiosità che ciascuno di noi ha verso l’altro e che non è più tanto «chi sei?» ma piuttosto «tu come fai?».



STEFANIA MAZZONE (intervista integrale qui)

Parlare di funzione della scrittura può essere estremamente pericoloso. La scrittura, in sé, non ha funzione, anzi, la sua funzione è esattamente l’espressione di uno spazio infunzionale. Spazio ritagliato dai resti, dal margine, come diceva Bela Hook, nel quale il possibile destruttura funzioni e prefigurazioni.



ILARIA PALOMBA (intervista integrale qui)

Non sarò universale, non riesco a esserlo, ho con i libri la relazione che non riesco ad avere con le persone, per cui i libri che cito ovviamente li ho amati e odiati. I libri che leggo sono tracce di un cammino. Penso alla scrittura come margine, perché solo in tal senso è possibile creare qualcosa di autentico. Mi piace l’imperfezione, dice qualcosa di nuovo, riporta in vita ciò che sembra agonizzare. La scrittura perfetta – quella levigata, senza sbavature, editata fino allo strazio – è una specie di morte, a me piace l’inconsueto. Ci sono molte mode: il distopico, l’autobiografico, la non fiction, il noir ambientato nelle periferie. Qualcosa di autentico è nel confondere tutto. D’altronde, il mito ha sempre confuso i piani. L’eterno non è mai attuale. Tra i libri più belli letti ultimamente annovero Miti personali di Matteo Marchesini (Voland). Non è un libro facile, è un testo complesso, composto da piani sovrapposti, significanti i cui significati non si escludono a vicenda. Si tratta proprio di un’idea di letteratura diversa rispetto a quella a cui siamo abituati. Socrate, Ettore, Pericle, Edipo, Narciso, Orfeo, Nietzsche, Kant, qui sono tutti esseri evanescenti, esposti alle loro fragilità, all’implacabilità del destino che li sovrasta, e si prende gioco di loro. Talvolta bambini, giocano e si feriscono, pensano fino a impazzire, vanno incontro al loro destino innocentemente, restano puri anche quando compiono le azioni più ignobili. L’innesto tra Nietzsche e Kant avviene in modo spontaneo, come in sogno; disorienta la loro sovrapposizione, la descrizione della pazzia, della demenza per via di una ricerca che non trova pace, la ricerca di tutto ciò che è senza confini porta a deragliare, e si smembra nel momento in cui tocca il reale, il noumeno, l’eterno ritorno, la verità indicibile, la vita in sé, ciò che a nessuno è concesso di comprendere. Ogni cosa appare reale ma è quel reale trasfigurato dalla/nella irrealtà, nel surplus onirico che scopre la verità oltre la realtà, la verità è sempre indicibile, oscena. La prosa di Marchesini è implacabile, non è costruita ma costruisce, la prosa è trama e viceversa. Mi piace il gioco delle sensazioni espanse, anche quando è metafisico Marchesini resta attaccato alle sensazioni, questi racconti sono anche poesie, e le sue poesie sono anche racconti. È un libro mutevole, pieno di direzioni, di segni, ciò che è velato diventa manifesto ma resta in parte velato nella prosa stessa, che non eccede mai, non urla, ma la sua precisione è pienamente carnale. Le emozioni passano tutte, a tratti sconvolgono.
Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin (Voland), letto un po’ di tempo fa, mi è piaciuto perché in questo libro passa solo la necessità del confronto con la fede e con il perdono. È un libro in cui autobiografia e narrazione storica s’intrecciano, quasi un dialogo tra Demetrio e Geremia.
Apprezzo Franz Krauspenhaar, sto leggendo Grandi momenti (Neo), e prima ho letto La presenza e l’assenza (Arkadia), un noir esistenziale sulla falsariga di Dürrenmatt. Un libro d’azione, con dialoghi serrati, ma anche visionarietà. Man mano che si procede, la trama si infittisce, approdando all’indagine psichica di due personaggi corrotti, con un finale a sorpresa, volutamente non chiuso e non consolatorio. È un romanzo esistenziale più che un noir, con un forte carico di violenza psicologica, sottile e spietato. 
Mi è piaciuto Atti di sottomissione della Nolan (NN), perché mi piacciono i diari, ma ne riconosco i limiti, ovvero, un’esposizione narrativa esibizionistica e voyeuristica, e ciò va benissimo, almeno per me, però qui tutto è su un unico piano, è privo di analisi. La realtà ha senso se la si legge sotto, dentro l’inconscio, e la distopia ha senso se può diventare una filosofia, in questo senso non si può non citare Necropolis di Giordano Tedoldi (Chiarelettere), che finge di essere un romanzo distopico, quando invece è un’analisi spietata del tempo presente, un’analisi filosofica e, per certi versi, una profezia. È un libro che ho letto tre volte, e a cui devo molto, perché grazie a quel libro anch’io ho iniziato una ricerca affine. Bisogna riconoscere l’autenticità stilistica, nel senso che esiste un’urgenza, un’urgenza che travalica la pagina ben scritta e la trama ben costruita. Un’urgenza che credo debba in qualche modo tradire la prosa. Il bordo di Nicola Neri (Se) mi ha appassionato perché è una scrittura sotto, senza nessuna costruzione, è una scrittura che va per una strada e si perde, e ti fa perdere al suo interno.
Senza profondità possiamo scrivere tutti nello stesso modo e parlare tutti degli stessi temi, quindi, l’attualità va benissimo, soprattutto se la si rende epica, di sicuro è roba che vende. Credo invece che avere una propria linea di ricerca a prescindere da come si muove il mondo sia importante.
Ne La verità su tutto (Mondadori) troviamo la Bhagavad Gita, il cammino dei santi, Simone Weil, il Libro Tibetano dei Morti, i rave party, l’ego dissolution degli psichedelici, Gurdjieff, gli ecovillaggi, gli ashram, il Devadatta, il bene e il male sempre vicini, capaci di toccarsi e confondersi. Si tratta di un testo profondamente filosofico, che cerca insieme nell’interiorità e nell’esteriorità. Ciò che Michel Maffesoli chiama trascendenza immanente. Perché questo anelito al sacro? Forse il mistero è una illusione necessaria per continuare a vivere senza disperazione, forse il mistero non esiste, o forse è solo un doppio prodotto dalla tecnica. Forse stiamo – e penso alla mia generazione – solo cercando altre strade, senza dimenticare da dove veniamo, in movimento e in evoluzione.
In ultimo, voglio citare un libro di cui ho scritto su «Suite italiana», che ha vinto lo Strega tempo fa, per me il fatto che abbia vinto lo Strega è ininfluente, mi piacque subito Due vite di Emanuele Trevi (Neri Pozza). È sempre «l’impossibile che genera il possibile», perciò ogni racconto di una vita è anche il racconto di qualcos’altro, non esiste la completa coincidenza alla realtà, così come non è possibile parlare fino in fondo di realismo, ogni memoria di qualcosa è nello stesso tempo ricreazione del mondo, perciò potremmo azzardare che, esclusi i generi e i manierismi di cassetta, esistono due sole forme di letteratura: la memoria e l’assurdo.
Stranieri contemporanei ne leggo pochi, purtroppo. Ultimamente leggo quasi solo libri di filosofia.




ROMANA PETRI (intervista integrale qui)

La scrittura non salva il mondo, e comunque se mai lo avesse fatto, oggi lo fa meno. La ragione è semplice, ci sono sempre meno lettori. Molti lettori sono morti, ma non sono stati sostituiti dalle nuove generazioni. E i libri che vengono letti più degli altri sono quasi sempre di intrattenimento, consolatori. Insomma, tutto quello che non è letteratura. Tutto quello che non inquieta e dunque non spinge a un’intima riflessione.



LELLA SEMINERIO (intervista integrale qui)

Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare propedeuticamente una riflessione: viviamo strettamente interconnessi, in un mondo molto veloce. In tale contesto non abbiamo più bisogno di leggere un libro per aggiornarci, ma abbiamo ancora bisogno di leggere un libro per sentirci vicini, gli uni agli altri. I media attuali rimangono capacissimi di descrivere qualsiasi accadimento stia avvenendo in qualunque parte del mondo si stia consumando, ma procedono filtrando tutti i loro racconti sotto il setaccio del sensazionalismo. È avvincente, sì, ma è violento – nella sua potenza e nel suo impatto al pubblico – ed esasperante. La letteratura di oggi non progredisce più per mode e trend, e sentirne parlare nel XXI secolo fa tornare in mente a costrizioni della vecchia moda. Posso capire che categorizzare permetta di rendere familiari, standard e di facile comprensione i libri; posso anche comprendere che permetta una vendita e un marketing più efficace e semplice. Ma la letteratura è un’altra cosa. Non si muove per masse uniformate, né va avanti per generi. E oggi più che mai abbiamo bisogno di unirci ai sentimenti di chi vive esperienze tanto lontane dalle nostre, in luoghi e in periodi tanto distanti, o esperienze vicine a quelle che facciamo o abbiamo fatto, in posti e in tempi che padroneggiamo. Non importa che siano gialli, noir, romantici o storici, abbiamo bisogno che esistano libri in grado di saperci parlare.



ORNELLA SPAGNULO (intervista integrale qui)

Io purtroppo non credo che la letteratura abbia un ruolo politico o sociale. Credo che la letteratura «serva» a quegli individui che ricorrono a lei per non sentirsi soli. Credo che la letteratura prenda diverse strade e che non siano tutte funzionali a qualcosa. Le anime che hanno qualcosa da gridare più forte sono quelle che restano di più. Se prendiamo il caso di Alda Merini, però, possiamo dire che la sua letteratura serve anche ad abbattere lo stigma, il pregiudizio sulla malattia mentale. Per questo, la letteratura prende tante strade quanti sono i suoi autori e le sue autrici. Sono i lettori e le lettrici a tracciare quelle strade e a dare significato e valore ai libri.


NADIA TERRANOVA (intervista integrale qui)

La scrittura è l’arma più potente che abbiamo a disposizione per esprimere, almeno sulla pagina, una libertà assoluta. 



VERONICA TOMASSINI (intervista integrale qui)

Chi scrive sarà impregnato della Storia, prima che della propria, piccola, irrilevante. La suggestione del tempo non può essere ignorata, il senso drammatico del nostro vivere, oggi più che mai, entra nelle nostre vite e nelle nostre parole. Come potrebbe mai uno scrittore distinguere la vita dalla parola? Il ruolo della scrittura non sarà mai didascalico, o peggio pedagogico, sarà lo scandalo. Ma nulla di più esemplare dello scandalo insegna la vicenda dell’uomo e insegna l’amore, che è quel che conta. Come sempre.




FRANCESCA VALENTE (intervista integrale qui)

Ho ancora una fiducia pressoché illimitata nel potere delle parole. E della letteratura poi. È con le parole che comunichiamo, che troviamo soluzioni, che incitiamo al cambiamento, che raccontiamo l’azione e a volte la definiamo e l’orientiamo. Se non è raccontata, la storia, una storia, non viene a esistere. Scompare. Se non si scrive, se non si nutre o si fa evolvere la sua letteratura, un popolo perde di consistenza.

A seguire la terza parte della nostra inchiesta

In precedenza, la prima parte della nostra inchiesta


A cura di Afrodita Cionchin e Giusy Capone

(n. 7-8, luglio-agosto 2022, anno XII)